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Differenze tra la teoria classica e la finanza comportamentale

Come detto in precedenza la maggior parte dei modelli economici ipotizza che gli individui prendano le proprie decisioni in modo razionale con l’obiettivo di ottenere il massimo profitto dal punto di vista economico dalle scelte prese. I comportamenti esposti finora però ci dimostrano che l’essere umano non è poi così lineare e scontato: invece di agire in base alla funzione dell’utilità come degli esseri calcolatori programmati spesso compiono scelte che portano a dei risultati con profitto economico inferiore a quello che avrebbero potuto ottenere. La ragione di queste scelte è spiegata dall’economia comportamentale, scienza che da una spiegazione al modo in cui le presone prendono realmente e non teoricamente le loro decisioni economiche. (Krugman & Wells, 2013, p. 249)

Le teorie classiche non tengono presente che il miglior risultato economico potrebbe non coincidere con il miglior risultato possibile che considera non solo di questioni finanziarie bensì anche di etica, di soddisfazione personale, disponibilità fisica ed economica, di integrazione personale e sociale. Paul Krugman e Robin Wells nel loro libro “Microeconomia” parlano di tre ragioni principali “per cui si potrebbe preferire un risultato economico subottimale:

considerazioni di equità, razionalità limitata e avversione al rischio”.

4.1. Considerazioni di equità

In molte occasioni si può vedere come l’essere umano ha sì a cuore il risultato economico ma tiene anche in considerazione l’etica e l’equità. “Il termine etica si riferisce ai principi del giusto

e sbagliato che governano la condotta di una persona, i membri di una professione o le azioni di un’organizzazione” (Hill, 2008, p. 128-130). L’etica è un valore che sempre più sta

prendendo spazio nella nostra società e che sempre più influenza le scelte di consumo e le scelte economiche degli individui. Basti pensare tutti gli scandali che hanno colpito le multinazionali dagli anni Novanta in poi, primo tra tutti quello di Nike la quale esternalizzando la sua produzione e non controllando più la catena del prodotto non si è accorta che vendeva in paesi sviluppati beni prodotti nel terzo mondo da sfruttamento di manodopera minorile e da persone sottopagate. Questo colosso della moda non ha mai violato le leggi dei paesi in cui produceva, in quanto semplicemente in queste nazioni il mercato del lavoro è poco regolamentato. Nonostante ciò quando il pubblico è venuto a sapere da dove provenissero i prodotti acquistati e non trovando morale il comportamento dell’azienda e ha iniziato a fare pressione perché le cose cambiassero; e così è stato. Negli anni a seguire Nike capì che comportarsi eticamente richiedeva uno sforzo maggiore rispetto alla semplice legalità: ha infatti poi introdotto regole conformi alla morale comune, un codice di condotta e ha dovuto lavorare molto per poter ripulire la propria immagine. Questo esempio fa capire come, nonostante l’acquisto di palloni da calcio di Nike potrebbe portare una persona a raggiungere un buon risultato economico, questa non lo acquista in quanto va oltre alla scelta di ottimizzazione del benessere. (Hill, 2008, p. 126-127)

Un altro esempio della considerazione di equità è la semplice mancia che viene lasciata al cameriere che serve al ristorante. Non essendoci alcuna legge in Svizzera che obblighi i clienti a lasciare una ricompensa, il vero homo oeconomicus che prende scelte razionali non si priverebbe mai del potere economico dato dai soldi a cui rinuncia per lasciare una mancia per riconoscere il buon servizio fatto dal cameriere. Eppure, secondo le norme della nostra società lasciare la mancia è un’abitudine data, come lo è anche fare un regalo o dare in dono qualcosa ad una persona che ci sta a cuore, sacrificando il proprio beneficio economico a favore di quello di una terza persona, senza che questa ci dia niente (di economico) in cambio (Krugman & Wells, 2013, p. 249-250).

4.2. Razionalità limitata

Gli economisti hanno formulato il concetto di razionalità limitata per spiegare le scelte prese che non permettono di raggiungere il massimo profitto economico ma comportano decisioni ottimali (o quasi) per l’individuo. Queste posizioni vengono prese in quanto l’essere umano capisce che lo sforzo che deve essere fatto per poter massimizzare il profitto economico (costo-opportunità, quantità marginali, impegno intellettuale) sono troppo difficili ed onerosi per essere presi in considerazione da chi sta prendendo una decisione, dunque vengono trascurati e si arriva ad una conclusione che sia comunque soddisfacente. Un banale esempio che viene largamente sfruttato dal commercio è quello dei prezzi dei beni venduti nei negozi: quante volte abbiamo visto prezzi di beni e servizi che terminano in 95? La mente umana porta il cliente a dare molto più peso alla prima cifra del prezzo, dunque se vediamo un bene che costa 2.95 franchi la nostra razionalità limitata ci porta a pensare che questo sia molto più a buon mercato rispetto ad un bene che costa 3.00 franchi, nonostante la differenza sia di solo 5 centesimo (Krugman & Wells, 2013, p. 250).

Gli psicologi imputano il comportamento irrazionale a sei errori comunemente commessi nel prendere decisioni:

1. L’errata percezione dei costi-opportunità; 2. L’eccessiva sicurezza di sé;

3. Le aspettative irrealistiche sui comportamenti futuri; 4. La diversa contabilizzazione del denaro;

5. L’avversione alle perdite;

6. La predilezione per lo status quo.

4.3. Percezione del rischio

Le teorie economiche tradizionali ipotizzano che l’homo oeconomicus prenda decisioni nella piena conoscenza di ciò che il futuro ha in serbo per lui. Non vi è incertezza sul futuro come non esiste la possibilità che un evento esterno si realizzi causando una perdita al posto del profitto economico atteso. Se queste ipotesi di conoscenza del futuro e di certezza fossero

realistiche le assicurazioni non avrebbero alcun margine di manovra e non avrebbero senso di esistere, invece solo negli Stati Uniti ogni anno vengono riscossi dalle compagnie assicurative oltre i 1'000 miliardi di dollari di premi pagati per coprire il rischio che qualche cosa accada. Basti pensare ai disastri ambientali, terremoti, uragani e tsunami accaduti negli ultimi due decenni per capire che siamo perennemente in situazioni di incertezza caratterizzate da rischi. Solo nel 2005 in America si sono scatenati 3 fortissimi uragani che hanno distrutto e devastato intere città causando miliardi di dollari di danni e numerosi morti e feriti. Secondo l’Insurance Information Institute questo è stato il peggior anno per le assicurazioni che a causa di disastri ambientali hanno subito delle perdite cumulate di circa 50 miliardi di dollari. Possiamo quindi affermare con evidenza che qualsiasi scelta presa è caratterizzata da un rischio, pertanto gli individui possono anche rinunciare a compiere una scelta che li porterebbe a massimizzate il proprio profitto dal punto di vista economico soltanto perché questa cela un rischio troppo elevato per essere presa. Ogni soggetto ha una propria avversione al rischio che sarebbe “la disponibilità a rinunciare a parte del proprio beneficio economico al fine di

evitare una potenziale perdita” (Krugman & Wells, 2013, p. 250). In generale gli individui non

amano il rischio e sono disposti a pagare per evitarlo, infatti quando questi si trovano davanti all’incertezza scelgono l’opzione che gli assicura il maggior livello di utilità attesa, ovvero il valore atteso dell’utilità totale, data l’incertezza futura (Krugman & Wells, 2013, p. 542-544)

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