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La finanza comportamentale: il comportamento degli investitori e il ruolo dei consulenti nel processo di investimento

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Academic year: 2021

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(1)

La finanza comportamentale: il

comportamento degli investitori

e il ruolo dei consulenti nel

processo di investimento

Studente/essa

Natasha Haddad

Corso di laurea

Economia aziendale

Tipo di documento

Tesi di Bachelor

Luogo e data di consegna

(2)

Titolo: La finanza comportamentale: il comportamento degli investitori e il

ruolo dei consulenti nel processo di investimento

Autore:

Natasha Haddad

Relatore: Prof.ssa. Helen Moggi

Tesi di Bachelor in Economia aziendale

Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana

Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale

Manno, 7 ottobre 2019

(3)

Ringraziamenti

Ringrazio la Professoressa Helen Moggi, relatrice di questa tesi per avermi fatto prendere conoscenza del tema della finanza comportamentale e per avermi appoggiata durante la stesura del presente lavoro di tesi e avermi saputo consigliare e indirizzare.

Ringrazio i cinque consulenti che si sono messi a disposizione per le interviste, per avermi dedicato il loro tempo ed avermi trasmesso le loro conoscenze ed esperienze lavorative.

(4)

Abstract

Le teorie economiche classiche hanno come soggetto l’homo oeconomicus: un soggetto razionale, senza etica ne sentimenti, che compie ogni azione allo scopo di massimizzare la propria utilità. A partire dagli anni Settanta è nata una nuova branca dell’economia, che si contrappone a quella classica. Si tratta della finanza comportamentale: scienza che studia il processo decisionale dell’individuo in situazioni di incertezza. Daniel Kahneman e Amos Tversky sono stati i fautori di questi nuovi studi e gli ideatori della teoria del prospetto. La collaborazione di economisti e psicologi ha portato alla luce delle distorsioni cognitive, dette bias, a cui l’essere umano è quotidianamente soggetto. Si tratta di falle mentali che non permettono la corretta percezione e l’elaborazione delle informazioni in modo razionale, ma comportano per il soggetto economico una percezione della realtà dei fatti distorta. La prima parte della presente tesi è volta all’analisi teorica della finanza comportamentale, la quale è servita come base per verificare se queste distorsioni si verificano effettivamente anche nel comportamento degli investitori. Dopo l’esposizione dei concetti teorici della finanza comportamentale è stato ripreso il concetto di consulenza di investimento e attraverso interviste a consulenti attivi sulla piazza finanziaria ticinese si è cercato di formulare delle raccomandazioni volte ai consulenti per limitare l’effetto che l’irrazionalità ha sul comportamento degli investitori e sulle loro decisioni di investimento.

(5)

Indice

1.

Introduzione ... 1

1.1.

Domanda di ricerca e obiettivi ... 2

1.2.

Metodologia ... 2

2.

Teorie economiche classiche: l’homo oeconomicus ... 3

2.1.

Economia ... 3

2.2.

L’homo oeconomicus ... 4

3.

L’economia comportamentale ... 6

3.1.

Sistema 1 e sistema 2 ... 6

3.1.1.

Effetto alone ... 9

3.2.

La teoria del prospetto ... 10

3.2.1.

L’avversione alle perdite ... 11

3.2.2.

I punti di riferimento ... 14

3.2.3.

La ponderazione delle probabilità ... 15

3.2.4.

La funzione di utilità ... 16

3.3.

Bias comportamentali ... 17

3.3.1.

La legge dei piccoli numeri ... 17

3.3.2.

L’effetto ancoraggio ... 19

3.3.3.

Eccessiva fiducia e la capacità di controllo ... 20

3.3.4.

L’effetto gregge ... 22

3.3.5.

Bias della disponibilità ... 24

3.3.6.

L’inerzia ... 24

3.3.7.

Effetto framing ... 25

(6)

4.

Differenze tra la teoria classica e la finanza comportamentale ... 27

4.1.

Considerazioni di equità ... 27

4.2.

Razionalità limitata ... 28

4.3.

Percezione del rischio ... 28

5.

La consulenza finanziaria ... 30

5.1.

Preparazione della gestione di investimento ... 32

5.1.1.

Conoscenza del cliente ... 32

5.1.2.

Elaborazione delle informazioni raccolte ... 32

5.2.

Decisione di investimento ... 33

5.3.

Dopo la decisione di investimento ... 34

6.

Interviste a consulenti della piazza finanziaria ticinese ... 35

6.1.

Elementi emersi dalle interviste ... 35

6.1.1.

Elementi emersi riguardanti la prima fase del colloquio di consulenza ... 36

6.1.2.

Elementi emersi riguardanti la seconda fase del colloquio di consulenza ... 37

6.1.3.

Elementi emersi riguardanti la terza fase del colloquio di consulenza ... 39

6.2.

Raccomandazioni ai consulenti ... 39

7.

Conclusioni ... 41

8.

Bibliografia ... 42

(7)

Indice delle figure

Figura 1: Attivazione del Sistema 1- Kahneman, D. (2012). Pensieri lenti e veloci ... 7

Figura 2: Conflitto tra i due sistemi - elaborazione propria sulla base di Kahneman D. (2012)

Pensieri lenti e veloci ... 9

Figura 3: Il comportamento nei confronti dei profitti - elaborazione propria sulla base di Kahneman, D., & Tversky, A. (1976). Prospect Theory: An Analysis of Decison under Risk

... 12

Figura 4: Comportamento assunto in base ai punti di riferimento - elaborazione propria sulla base di Kahneman, D., & Tversky, A. (1976). Prospect Theory: An Analysis of Decison

under Risk ... 15

Figura 5: La funzione di utilità - www.igorvitale.org

(https://www.igorvitale.org/la-prospect-theory-di-tversky-e-kahneman/) consultato il 15.08.2019 ... 16

(8)

1. Introduzione

Le teorie economiche classiche hanno come soggetto l’homo oeconomicus ovvero un soggetto individualista dotato di perfetta razionalità, poco incline a farsi influenzare da processi di tipo emotivo e che ha a disposizione una completa informazione. Si tratta di un individuo tendenzialmente avverso al rischio che prende le sue decisioni in modo da poter massimizzare la sua utilità.

A partire dagli anni Settanta si inizia a capire che i soggetti economici reali non sono effettivamente dotati di completa razionalità e di complete informazioni: il processo decisionale implica sensazioni, emozioni e paure. Questo avviene anche nelle decisioni di investimento, le quali risultano influenzate principalmente da fattori esterni non economici e dal modo soggettivo di percepire le informazioni. Nasce così lo studio dell’economia comportamentale. I principali fautori di questa branca dell’economia sono Amos Tversky e Daniel Kahneman i quali hanno svolto diversi studi ed esperimenti per analizzare il comportamento delle persone e il loro processo decisionale (Neocogita srl., 2017). Questa branca dell’economia applica ed utilizza gli studi della psicologia per sviluppare una comprensione del processo decisionale nelle scelte finanziarie (Byrne & Utkus, Behavioural finance, 2013).

Studi dimostrano che vi sono delle deviazioni comportamentali degli investitori dagli assunti della prospettiva economica standard: sono state infatti individuati più di 180 bias cognitivi che caratterizzano il comportamento dell’essere umano; si tratta di errori di percezione ed elaborazione delle informazioni che distorcono in modo significativo le scelte del soggetto sia a livello finanziario che non (Neocogita srl., 2017). L’errore cognitivo è una deviazione dalle assunzioni di razionalità che non può essere evitato con lo studio e l’apprendimento, bensì si tratta dell’elaborazione e dell’interpretazione dei dati esterni sulla base della propria struttura cognitiva che si modifica in base alle proprie esperienze precedenti (Rizzello & Spada, 2008). Gli errori cognitivi, detti bias, derivano dalla tendenza che la nostra mente e il nostro cervello hanno di acquisire ed elaborare informazioni utilizzando determinate regole intuitive, dette euristiche: si tratta dunque di falle decisionali e di valutazione commesse a causa di regole preimpostate che il nostro cervello ha per l’elaborazione dei dati (Rangone, 2012).

Lo studio dell’economia comportamentale ha portato alla conferma che le decisioni di investimento, e in generale il processo decisionale, sono fortemente influenzati da eventi esterni a cui l’individuo è sottoposto e dal metodo soggettivo e personale che essi hanno di elaborazione dei dati recepiti. Le ricerche approfondite negli ultimi vent’anni cercano di capire se è possibile eliminare, controllare o ridurre l’effetto degli errori cognitivi che vengono commessi sistematicamente.

Chi lavora nel mondo della finanza, e più in particolare chi è a diretto contatto con l’investitore finale, riscontra quotidianamente questi comportamenti. Il compito del consulente finanziario è quello di accompagnare i propri clienti nella decisione di investimento cercando di limitare la loro irrazionalità e dandogli una visione oggettiva della situazione (Neocogita srl., 2017). Come imposto dalle direttive della FINMA tutte le banche e gli intermediari finanziari hanno creato dei processi di consulenza dettagliati secondo i quali il consulente dovrebbe riuscire a capire non solo quali sono le possibilità e le conoscenze finanziarie del cliente, ma anche quale è la sua tolleranza al rischio, la sua disponibilità ad investire e quali sono gli obiettivi di investimento. Questo processo permette poi di costruire una proposta di investimento che sia conforme alle necessità e agli obiettivi del cliente specifico.

Durante tutto il corso di bachelor abbiamo studiato modelli economici teorici che avevano come soggetto l’homo oeconomicus, il quale abbiamo capito che non è un soggetto

(9)

rappresentativo della realtà. Questa tesi vuole andare a conoscere ed approfondire il vero soggetto dell’economia analizzandone il comportamento. Verrà inoltre fatta un’analisi della relazione che intercorre tra l’investitore e l’intermediario finanziario nel momento della consulenza per capire se e in che modo è possibile limitare gli errori che intercorrono nelle scelte di investimento a causa della sbagliata elaborazione delle informazioni.

1.1. Domanda di ricerca e obiettivi

Il presente elaborato parte dalla seguente domanda di ricerca:

“Come la percezione e l’elaborazione delle informazioni esterne influiscono sulle scelte degli investitori? In che modo i consulenti riescono a limitare, ridurre o eliminare l’influsso degli errori cognitivi nel processo decisionale dei clienti?”

Per poter arrivare ad una risposta alla domanda di ricerca posta, sono stati fissati i seguenti obiettivi intermedi:

• Comprendere le caratteristiche e le differenze dei modelli economici tradizionali e quelli dell’economia comportamentale

• Comprendere ed analizzare il processo di consulenza svolto dai consulenti • Comprendere ed analizzare le principali bias degli investitori

• Elaborare delle raccomandazioni che possano limitare l’effetto delle “trappole mentali”

1.2. Metodologia

Per poter comprendere le caratteristiche e le differenze dei modelli economici tradizionali e quelli dell’economia comportamentale svolgerò un’analisi desk: mi appoggerò esclusivamente a fonti secondarie per la ricerca di informazioni. Partirò dall’analisi delle teorie economiche tradizionali e dell’homo oeconomicus per poi arrivare all’analisi e l’esposizione della teoria comportamentale, dei bias e delle euristiche cognitive.

Per poter comprendere ed analizzare il processo di consulenza mi baserò principalmente su fonti primarie: svolgerò diverse interviste o sottoporrò questionari a consulenti attivi sulla piazza finanziaria ticinese in diverse banche nei settori private e nel retail banking.

La parte dedicata all’analisi del processo decisionale degli investitori verrà redatta principalmente secondo fonti secondarie; per capire quali sono le bias principali dei clienti mi baserò sulle informazioni fornite dai consulenti durante le interviste.

Per poter arrivare a delle conclusioni, e quindi ad elaborare delle raccomandazioni che possano limitare l’effetto delle “trappole mentali” mi appoggerò a tutte le informazioni raccolte fino a quel punto, dunque sia di tipo primario che secondario e ne trarrò dei risultati.

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2. Teorie economiche classiche: l’homo oeconomicus

2.1. Economia

La parola “economia” racchiude un’innumerevole quantità di concetti, di teorie e di sfaccettature. Si può parlare di economia privata, di economia pubblica, di economia finanziaria, di economia politica. L’analisi economica si fonda però sempre su principi e basi comuni che vengono poi applicati alle diverse questioni e teorie. “Alcuni di questi principi

riguardano le scelte individuali, perché l’economia, in primo luogo, si occupa delle scelte degli individui” (Krugman & Wells, 2013, p. 5): la decisione su cosa fare e su cosa non fare.

Lionel Robbins, nel saggio sulla natura e il significato della scienza economica (1932) dà come definizione di economia lo studio della “condotta umana come relazione tra scopi e mezzi

scarsi per usi alternativi” (Gioia & Perri, 2002, p. 9). Il problema dell’economia classica è quello

di definire come allocare nel migliore dei modi le risorse nei diversi usi possibili. Questo problema nasce dal fatto che il mondo economico è caratterizzato da un duplice aspetto: da un lato ci sono gli individui che prendono scelte in base ai loro desideri e bisogni che sono illimitati, dall’altra ci sono invece le risorse usate per soddisfare le esigenze e i desideri che sono limitate.

Se si guarda il problema a livello di istituzioni basta pensare che nessuno Stato e nessuna società può costruire strade, parchi, scuole e autostrade in maniera illimitata così come non si possono finanziare politiche sociali o economiche illimitatamente. Si devono infatti stabilire dei paletti dati da priorità, bisogni ed esigenze dei membri della società e dai limiti economici e materiali che questa può avere. Allo stesso modo in un’economia famigliare ogni individuo dispone di risorse limitate date dal reddito e dal patrimonio. Queste risorse devono essere impiegate nel migliore dei modi così da poter raggiungere la massima utilità. L’impiego del reddito e della disponibilità che ogni individuo ha è dato da scelte che quest’ultimo prende per soddisfare i propri illimitati bisogni e desideri (Krugman & Wells, 2013). Dovendo prendere delle decisioni, ogni singolo soggetto deve avere delle priorità, e l’impiego delle risorse andrà prima a soddisfare i bisogni indispensabili ovvero quelli che procurano livelli di soddisfazione più alti, e con il resto del reddito si andranno a soddisfare quelli che procurano livelli di soddisfazione più bassi.

L’economia si occupa dunque di problemi di allocazione, qualsiasi problema che implica una scelta può essere considerato un problema economico. Per esempio, può essere considerato un quesito dal punto di vista economico il problema di come uno studente dovrebbe ripartire le varie ore? di studio (risorsa scarsa) attribuendole alle materie in modo da massimizzare i voti raggiunti agli esami.

Per poter classificare i bisogni secondo il livello di soddisfazione dato, la teoria economica classica dice che l’individuo valuta le sue esigenze e prende le conseguenti decisioni con un criterio di razionalità. “In questo senso l’economia può semplicemente essere definita come la

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livello di soddisfazione possibile compatibilmente con le risorse a propria disposizione” (Gioia

& Perri, 2002, p. 11)

2.2. L’homo oeconomicus

Come vedremo durante la presente tesi la visione classica del soggetto economico non è condivisa da tutti gli studiosi. Vengono infatti messe in discussione 3 principali elementi: l’oggetto della ricerca che si è costruito isolato dal contesto sociale, la procedura analitica utilizzata e l’ipotesi del soggetto economico razionale. La presente tesi metterà in discussione proprio il soggetto economico classico, chiamato homo oeconomicus, che è considerato come un essere individualista, razionale ed egoista, in grado di scegliere l’opzione che massimizza il suo profitto in quanto ha a disposizione tutte le informazioni necessarie per prendere la miglior scelta dal punto di vista economico.

Una spiegazione che faccia capire la ragione per cui gli studiosi hanno deciso di stereotipare il soggetto dell’economia costruendo modelli e teorie su un essere che poi non si rivela reale è stata data da Manuel di Pareto nel 1909, il quale sostiene che “il corpo concreto comprende

il corpo chimico, il corpo meccanico, il corpo geometrico, ecc.; l’uomo reale comprende l’homo oeconomicus, l’homo ethicus, l’homo religiosus ecc. Insomma, considerare questi differenti corpi, questi differenti uomini equivale a considerare le differenti proprietà del corpo reale, di quest’uomo reale e non mira ad altro che a ritagliare in porzioni la materia da studiare” (Pareto,

1909, p. 18). In poche parole, l’homo oeconomicus è un essere umano senza preferenze, credenze, gusto personale, sentimenti, emozioni, sensazioni, etica e principi. La domanda che nasce spontanea è: come è possibile che l’economia, scienza che studia gli scambi, le scelte e prende in considerazione il livello di soddisfazione e i bisogni dei soggetti economici non tenga presente che questi ultimi nella vita reale non sono razionali? Lo si può constatare nella vita di tutti i giorni che l’ipotesi di razionalità è irreale e puramente teorica: basti pensare al lavoro degli influencer i quali hanno come obiettivo quello di suggestionare le scelte di acquisto dei loro seguaci. Se fossimo tutti degli homo oeconomicus non avremmo alcun bisogno di farci consigliare o influenzare da terze persone.

Nel 1979 il sociologo inglese Richard Titmuss fu il primo a portare l’attenzione sul comportamento adottato dalla popolazione inglese nella donazione del sangue che porta l’evidenza di quanto l’essere umano non sia effettivamente privo di etica, di principi e caratterizzato da piena razionalità: Titmuss notò come la promessa di pagamento per la donazione del sangue facesse diminuire il numero di donazioni e la qualità del sangue donato rispetto a quando la donazione era fatta da volontari. Il soggetto che prima era motivato a donare il sangue per valori etici e sociali come l’aiuto del prossimo, la solidarietà e forse anche per l’autostima, non si sentiva più soddisfatto a fare lo stesso gesto se questo avveniva contro pagamento. Questo perché la corrispondenza in denaro faceva diminuire la sua considerazione sociale, e quindi non avrebbe più donato (Titmuss, 1970). Questo comportamento è l’evidenza empirica che non sempre, e non tutti, siamo homo oeconomicus, perché se lo fossimo, tutti noi andremmo a donare il sangue contro pagamento e soprattutto nessuno di noi lo farebbe senza ricevere in cambio una ricompensa monetaria.

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Detto questo, non stiamo né smentendo né contraddicendo le teorie economiche classiche. È però importante specificare che queste ultime parlano di homo oeconomicus, e quindi trattano la dimensione materiale del benessere umano, senza tenere in considerazione quella spirituale, perché come sostenne Pigou “oggetto dell’economia del benessere è l’indagine

delle influenze predominanti attraverso le quali sia possibile aumentare il benessere economico del mondo e di un paese determinato” (Pigou, 1920, p. 2). Con “benessere

economico” intendeva la componente del benessere che può essere espressa come valore monetario.

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3. L’economia comportamentale

La finanza comportamentale è la scienza che si occupa di prendere le intuizioni della psicologia e le applica al processo decisionale finanziario (Byrne & Utkus, Behavioural finance, 2013, p. 3).

Abbiamo appena visto la base e gli assunti delle teorie economiche classiche. Agli inizi degli anni Settanta alcuni psicologi ed economisti hanno unito le loro ricerche e le loro conoscenze per arrivare a sviluppare nuove teorie che rispecchiassero maggiormente la realtà: nasce così lo studio dell’economia comportamentale. Fautori di questa branca dell’economia sono Amos Tversky e Daniel Kahneman (premio Nobel dell’economia nel 2002): due psicologi israeliani i quali hanno collaborato per anni fondando le basi di questa nuova scienza. Kahneman e Tversky sono arrivati a sviluppare nuove teorie che danno spiegazione del processo decisionale dell’essere umano in condizione di incertezza.

L’economia comportamentale dimostra come gli investitori manchino di razionalità in maniera sistematica esibendo ciò che viene definita razionalità limitata. Si veda come la maggior parte degli investitori creino le proprie aspettative di investimento in base alle performance appena passate degli investimenti. Questa visione è in contrasto con la realtà economica nella quale periodi di reinvestimento elevati portano a valutazioni meno favorevoli e di conseguenza a rendimenti inferiori nei periodi successivi. I soggetti economici sono limitati nella loro capacità di prendere decisioni a causa della non completa informazione disponibile, della quantità limitata di tempo che hanno per prendere le proprie decisioni e soprattutto a causa dalle loro reazioni emotive. Queste sono le principali ragioni che portano gli investitori, e in generale le persone a prendere decisioni in modo irrazionale. La psicologia ha localizzato nei comportamenti umani dei processi mentali che tutti noi usiamo per prendere delle decisioni: “euristica è una definizione tecnica, e sta a indicare una semplice procedura che aiuta a trovare

risposte adeguate, anche se spesso imperfette, a quesiti difficili. Il termine da cui trae origine ha la stessa radice di eureka ed è il verbo greco heurískein, trovare” (Kahneman D. , Pensieri

lenti e veloci, 2012, p. 132). Le Euristiche sono regole che portano il nostro cervello a compiere degli errori sistematici, detti bias. Lo studio del comportamento umano ha portato alla luce più di 180 bias cognitivi che la nostra mente compie nella vita quotidiana e in ogni processo decisionale (Neocogita srl., 2017). Nei capitoli a seguire verranno approfonditi gli errori cognitivi maggiormente riscontrati durante il processo decisionale degli investitori, dunque nel mondo finanziario.

3.1. Sistema 1 e sistema 2

Keith Stanovich e Richard West furono i primi a coniare le espressioni sistema 1 e sistema 2 per descrivere il sistema di elaborazione delle informazioni del nostro cervello. Dedicarono infatti decenni della loro vita a capire che cosa rende certi individui più propensi di altri nel commettere errori sistematici di giudizio. Stanovich pubblicò le sue intuizioni in un saggio intitolato Rationality and the Reflective Mind (2011). Una delle conclusioni a cui è giunta è che

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“un’elevata intelligenza non rende le persone immuni da bias” (Kahneman D. , Pensieri lenti e veloci, 2012, p. 64). L’errore cognitivo non deve infatti essere percepito come stupidità o come mancata attenzione, ma come un processo automatico commesso dal nostro cervello che si impegna a decodificare ed elaborare informazioni esterne per arrivare a trarre delle conclusioni.

Daniel Kahneman nel libro “Pensieri lenti e veloci” (2012) espone le teorie e le scoperte frutti di anni di studio e di ricerca svolti da lui e da Amos Tversky. In tutta la prima parte del libro viene ripreso il concetto di sistema 1 e sistema 2:

• Sistema 1: è la parte del cervello che opera in fretta e automaticamente, con poco sforzo e nessun controllo volontario;

• Sistema 2: è la parte del cervello che indirizza l’attenzione verso le attività mentali impegnative che richiedono attenzione (come per esempio calcoli complessi).

L’utilizzo di un sistema piuttosto che dell’altro dipende non solo dalla situazione in cui l’individuo si trova o dalla tipologia di problema, ma anche dalla sua propensione personale ad adottare un sistema piuttosto che l’altro (Kahneman D. , 2012, p. 23-30). Quando ci troviamo davanti ad una situazione o ad una scelta il primo ad intervenire è sempre il sistema 1, quello che ci indica le emozioni, le sensazioni originate spontaneamente: si tratta della parte più irrazionale del nostro cervello che si affida all’istinto. Le operazioni automatiche sono generate dal sistema 1, ma in alcuni casi il sistema 2 prende il sopravvento prevalendo sugli impulsi automatici e sull’istinto che ci dà il sistema 1.

Di seguito si riporta un esempio per chiarire il modo di agire e interagire dei due sistemi: osserviamo l’immagine 1:

Figura 1: Attivazione del Sistema 1- Kahneman, D. (2012). Pensieri lenti e veloci

Con la stessa velocità con la quale abbiamo capito che la donna nella fotografia ha i capelli neri, abbiamo dedotto che è arrabbiata. Il colore dei capelli però è un dato di fatto in quanto basta guardare l’immagine. Per capire il suo stato d’animo invece è intervenuto il nostro sistema 1 che, in base alle esperienze passate, ha collegato l’espressione del soggetto rappresentato alle nostre esperienze passate nelle quali abbiamo visto espressioni simili. Siamo dunque arrivati tutti alla stessa conclusione: la donna nella fotografia è arrabbiata.

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Diamo ora un’occhiata alla seguente operazione: 14 X 27 = ?

Il sistema 1 non può aiutarci in quanto alla maggior parte di noi la risposta non viene immediata. Certo non è un calcolo troppo difficile e probabilmente prendendosi un po’di tempo ci si avvriverebbe facilmente alla soluzione. Il tempo che ci prendiamo per la risoluzione è quello che serve al sistema 2 per intervenire e risolvere la situazione a cui il sistema 1 non può dare risposta.

Nella seguente tabella troviamo alcuni esempi riportati nel libro di Kahneman “Pensieri lenti e veloci” (2012) di azioni che vengono svolte dal sistema 1 e rispettivamente dal sistema 2:

Sistema 1 Sistema 2

• Notare che un oggetto è più lontano di un altro

• Orientarsi verso la sorgente di un suono improvviso

• Fare la faccia disgustata davanti a un’immagine orribile

• Rispondere a 2+2=?

• Leggere parole sui cartelloni

• Guidare la macchina sulla strada a destra

• Capire frasi semplici

• Prepararsi al colpo di pistola dello starter in una cosa

• Concentrare l’attenzione sui clown del circo

• Concentrarsi sulla voce di una particolare persona in una stanza affollata

• Cercare una donna con i capelli bianchi in mezzo a un gruppo di persone

• Frugare nella memoria per riuscire a identificare un suono molto strano • Mantenere un passo più veloce di

quello che riesce naturale

• Controllare l’adeguatezza del nostro comportamento in una situazione sociale

• Contare quante volte compare la lettera “A” in una pagina di un testo • Dare a qualcuno il proprio numero di

telefono

Tra i due sistemi si possono creare dei conflitti in quanto il sistema 2 è molto pigro e spesso bisogna insistere per farlo intervenire: esistono compiti che comprendono azioni che normalmente svolgiamo con il sistema 1, ma la cui complessità richiede l’intervento del sistema 2. La figura 2 è un altro esempio illustrato dal libro di Kahneman “Pensieri lenti e veloci” (2012) che rende esaustiva la spiegazione del conflitto dei due sistemi. L’esercizio consiste nello scorrere entrambe le colonne dicendo a voce altra se ciascuna parola è scritta

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in carattere maiuscolo o minuscolo. Una volta eseguito questo compito si scorrono di nuovo le colonne e si specifica se ciascun termine si trova a sinistra o a destra del centro.

Figura 2: Conflitto tra i due sistemi - elaborazione propria sulla base di (Kahneman D. , 2012)

Eseguendo l’esercizio si può vedere come il nostro sistema 1 ci porta a dire ad alta voce quello che leggiamo nell’immagine, mentre il sistema 2 ci porta a risolvere l’esercizio, dunque in alcuni casi dobbiamo dire ad alta voce l’inverso di quello che c’è scritto nell’immagine. Questo è il conflitto tra le due parti. (Kahneman D. , Pensieri lenti e veloci, 2012, p. 32).

3.1.1. Effetto alone

Un bias molto comune descritto da Kahneman nel libro Pensieri lenti e veloci (2012) che viene usato dalla nostra mente per forgiare la nostra idea delle persone e in generale delle situazioni è l’effetto alone: se ci piace il modo di fare di una persona, troveremo molto probabilmente piacevole anche il suo aspetto e la sua voce. Questo accade grazie al sistema 1, che ci dà una visione del mondo semplificata, in base ai suoi collegamenti e alle sue facilitazioni. L’interpretazione di una situazione o di una persona è data dall’emozione annessa alla prima impressione. Solomon Asch, uno psicologo polacco fece un esperimento che ha conservato la sua attualità: lui presentò verbalmente due soggetti, con gli stessi aggettivi ma indicati in sequenze differenti a delle persone, dopo di che chiese a queste dei commenti sulla personalità dei due soggetti:

• Soggetto 1: intelligente, industrioso, impulsivo, critico, ostinato, invidioso • Soggetto 2: invidioso, ostinato, critico, impulsivo, industrioso, intelligente

La maggior parte delle persone descrissero il soggetto 1 come più positivo rispetto al soggetto 2, questo per il semplice fatto che le persone prestano più attenzione e danno più peso ai primi aggettivi rispetto agli ultimi. Una volta sentiti i primi aggettivi, che per il soggetto 1 sono positivi, quelli che seguono negativi vengono addirittura visti in concezione positiva. Questo accade proprio a causa dell’effetto alone che tende a sopprimere l’ambiguità e a darci un’immagine della realtà soggettiva e alterata (Asch, 1946). L’ordine in cui riceviamo informazioni su una qualsiasi situazione è spesso determinato dal caso, tuttavia questo ordine è molto importante

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in quanto è quello che conta: l’effetto alone fa sì che diamo molta più importanza alle prime informazioni rispetto alle ultime.

La parte 1 del cervello elabora dunque la maggior parte delle informazioni a cui siamo sottoposti quotidianamente e ci fornisce uno scenario generale. L’obiettivo e dunque il successo del sistema 1 è quello di riuscire a dare una coerenza alla storia che riesce a costruire in base alle informazioni che gli vengono fornite. Non dà alcun peso alla quantità o alla qualità di queste informazioni: se queste sono scarse, il sistema 1 vuole comunque raggiungere il proprio obiettivo, dunque salta alle conclusioni sulla base delle informazioni che gli si presentano davanti, scarse o compete che essi siano. Il sistema 2 non interviene in quanto come detto in precedenza è molto pigro e per intervenire ha bisogni di tempo e di stimoli. Il processo del sistema 1 facilita la realizzazione della coerenza e della fluidità cognitiva. Spiega perché siamo in grado di pensare in fretta. La maggior parte delle volte la storia coerente che mettiamo insieme è sufficientemente simile alla realtà, dunque le nostre conseguenti azioni non sembrano sconsiderate. L’effetto alone è uno dei principali motivi che può spiegare diverse bias che tratteremo in seguito, come quella dell’eccessiva sicurezza, dell’effetto farming e della disattenzione per la probabilità a priori (Kahneman D. , Pensieri lenti e veloci, 2012, p. 118).

3.2. La teoria del prospetto

La teoria dell’utilità attesa è la base economica per lo studio delle decisioni umane. Si tratta di una teoria elaborata negli anni Quaranta da John Von Neuemann e da Oskar Morgentern e presuppone che il soggetto di studio, ovvero l’homo oeconomicus abbia dei comportamenti ottimizzanti e di completa razionalità. Si dice che l’individuo prenda le proprie decisioni in modo da massimizzare la propria utilità.

Daniel Kahneman e Amos Tversky hanno in seguito sviluppato la teoria del prospetto, che si pone come teoria alternativa a quella dell’utilità attesa in quanto ha come oggetto lo stesso studio, ovvero il processo decisionale dell’essere umano in condizioni di incertezza, ma il soggetto di questa teoria non è più l’homo oeconomicus bensì l’essere umano con sentimenti, soggettività, paure e incertezze. La teoria del prospetto mette la lente di ingrandimento sulle decisioni prese in condizioni di rischio, ovvero in situazioni in cui è conosciuta o si può stimare la probabilità associata a determinati eventi (Rumiati & Bonini, 2001, p. 13). I due psicologi israeliani volevano arrivare a spiegare come mai le scelte effettuate dagli esseri umani si discostano sistematicamente da quelle previste dalla teoria dell’utilità attesa. La risposta sta nel fatto che l’essere umano e in particolare l’investitore ha delle emozioni, delle esperienze, delle sensazioni e soprattutto delle paure. “La psicologia della decisione mostra come le scelte

da parte degli individui non avvengono seguendo il principio economico della massimizzazione dell’utilità, bensì evidenzia come gli uomini siano irrazionali in modo sistematico e replicabile, cioè seguono dei modelli o comportamenti automatici che dipendono da come il problema decisionale viene loro presentato” (Pironti, 2012, p. 92).

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La teoria del prospetto è costituita da tre elementi principali: l’avversione alle perdite, i punti di riferimento e la ponderazione delle probabilità.

3.2.1. L’avversione alle perdite

Kahneman e Tversky attraverso lo studio del comportamento di un campione di persone, hanno svolto dei test nei quali i soggetti devono prendere delle scelte per le quali è data a sapere la probabilità associata agli esiti possibili. L’aspetto innovativo di questa teoria è che si basa su evidenze empiriche date da esperimenti di psicologia. Questi studi hanno portato alla dimostrazione di quanto l’essere umano sia soggettivo e percepisca le informazioni e i dati in modo poco razionale. Le conclusioni a cui sono giunti i due psicologi sono state pubblicate nell’elaborato intitolato “Prospect Theory: An Analysis of Decision Under Risk” (1979). Si parla di avversione alle perdite quando si fa riferimento al comportamento degli esseri umani che tendono a percepire e dunque trattare in modo diverso gli utili dalle perdite. La condotta che viene assunta in rapporto ai guadagni, come dimostrato da Kahneman e Tversky è quella di scegliere un guadagno più basso ma certo, rispetto ad uno maggiore possibile ma non assicurato (Kahneman & Tversky , 1979, p. 265). Gli individui hanno poca propensione ad assumersi rischi quando la probabilità di ottenere un guadagno passa da certa a probabile, in quanto l’agente economico percepisce questo peggioramento di probabilità in modo molto negativo. Non si ha però la stessa reazione quando la possibilità di ottenere un guadagno passa da probabile a poco meno che probabile, in questo caso l’impatto negativo del peggioramento della probabilità è minimo. Per arrivare a questa conclusione i due fautori della teoria del prospetto hanno condotto degli esperimenti studiando le scelte prese dai soggetti economici sia quando si rapportano ad un guadagno sia quando si rapportano ad una perdita. Kahneman e Tversky hanno selezionato un campione di persone e lo hanno messo davanti a due opzioni. La scelta A prevedeva un guadagno di duemilacinquecento dollari con una probabilità del 33%, di duemilaquattrocento dollari con una probabilità del 66% e di un guadagno nullo con una probabilità dell’1%. La scelta B prevedeva un guadagno certo di duemilaquattrocento dollari. Da questo esperimento è risultato che ben l’82% delle persone che hanno partecipato all’esperimento (72 persone totali) hanno scelto l’opzione B, ovvero quella del guadagno certo.

Lo stesso campione è poi stato messo di fronte ad altre due opzioni: selezionando l’opzione C avevano la possibilità di avere un guadagno nullo con il 67% di probabilità e un guadagno di duemilacinquecento dollari con il 33% delle probabilità, mentre scegliendo l’opzione D avrebbero avuto la possibilità di ottenere un guadagno di duemilaquattrocento dollari con una probabilità del 34% e un guadagno nullo con il 66% di probabilità. Risultò che l’83% del campione ha scelto l’opzione C.

A fronte di un guadagno certo di duemilaquattrocento dollari (opzione B scelta dall’82% del campione), l’opzione D dava la stessa possibilità di guadagno ma con una probabilità più bassa (34%), questa diminuzione di eventualità da certa a probabile dell’esito della scelta ha portato i partecipanti del test a selezionare l’opzione C che proponeva un guadagno maggiore, ma con probabilità leggermente più bassa.

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La figura sottostante rappresenta i due test eseguiti con le opzioni a disposizione e i risultati ottenuti:

Figura 3: Il comportamento nei confronti dei profitti - elaborazione propria sulla base di (Kahneman & Tversky , 1979)

Da notare come nel primo test, l’opzione B scelta dall’82% del campione risulta irrazionale in quanto attraverso la risoluzione matematica (indicata nella figura 3) l’utilità attesa dell’opzione A (che sarebbe stata scelta da un soggetto irrazionale) sia più alta rispetto a quella dell’opzione B.

Per quanto riguarda le possibilità di ottenere una perdita Kahneman e Tversky hanno svolto un altro esperimento che si fonda sempre sulle probabilità che una certa situazione si verifichi: ad un campione di 95 persone è stato chiesto di scegliere tra una possibile perdita di quattromila dollari con l’80% di probabilità (opzione A) e una perdita certa di tremila dollari (opzione B). In questo caso il 92% del campione ha preferito rischiare di perdere quattromila dollari che perderne sicuramente tremila. Anche in questo caso vi è l’evidenza dell’irrazionalità degli agenti economici che scelgono l’opzione B che rappresenta un’utilità attesa più bassa (di meno tremiladuecento dollari), rispetto all’opzione A che incorpora un’utilità attesa di meno tremila dollari.

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In un secondo momento agli stessi soggetti è stato chiesto di scegliere tra la possibilità di perdere quattromila dollari con una probabilità del 20% (opzione C) e la possibilità del 25% di perderne tremila (opzione D). È risultato che il 58% del campione ha deciso di rischiare di perdere tremila dollari con il 25% di probabilità. In questo secondo caso vediamo come la maggior parte delle persone scelgono l’opzione che presenta l’eventualità di perdere meno ma con più probabilità, rispetto all’opzione di perdere di più ma con meno probabilità.

Figura 4: Il comportamento nei confronti delle perdite - elaborazione propria sulla base di (Kahneman & Tversky , 1979)

Da questi esperimenti ne risulta che i soggetti economici sono indotti ad essere avversi al rischio quando prevedono possibilità di guadagni: preferiscono un guadagno certo più basso rispetto a un guadagno potenziale più alto. Se invece si tratta di perdite sono più propensi a rischiare: scelgono di correre il rischio di perdere di più rispetto alla certezza di perdere di meno (Kahneman & Tversky , 1979, p. 268).

È proprio su questi esperimenti e su queste conclusioni che si fonda uno dei concetti fondamentali della teoria del prospetto: vi è un’asimmetria del comportamento dei soggetti che dipende da cosa stanno trattando: perdita o guadagno. Le perdite per essi sono più minacciose dei guadagni. Diversi studi sulla finanza comportamentale dimostrano che gli investitori attribuiscono più del doppio del peso alle perdite rispetto ai guadagni (Byrne & Utkus, Behavioural finance, 2013): la perdita di un certo importo crea infatti maggiore disutilità rispetto all’utilità che verrebbe creata da un guadagno dello stesso importo. Ecco perché hanno un atteggiamento avverso al rischio quando si trovano di fronte a possibili vincite e sono propensi al rischio quando si trovano di fronte a possibili perdite (Rasiel, 2019).

In termini pratici, si consideri un investitore che acquista un titolo pagandolo mille dollari. Se questo titolo arriva ad un valore di millecinquecento dollari l’investitore sarà tentato di

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bloccarne il profitto vendendolo ed incassando la differenza, se al contrario il valore del titolo dovesse scendere a cinquecento dollari, l’investitore sarà tentato di mantenere la posizione nella speranza che questo riacquisti il valore iniziale: questo è un comportamento che si sviluppa a causa dell’eccessivo dolore che causa una perdita rispetto alla gioia arrecata da un guadagno (Byrne & Utkus, 2013).

3.2.2. I punti di riferimento

Le persone valutano gli esiti di una decisione in base a diversi fattori come al modo in cui una situazione viene presentata, a quale è la posta in gioco, a quale è il proprio patrimonio totale e all’eventualità di affrontare perdite o guadagni.

Un comportamento che è stato empiricamente dimostrato da Kahneman e Tversky è quello dell’isolation effect: si tratta di un bias che porta gli individui a considerare una componente isolata per risolvere un problema o per prendere una decisione invece di considerare la situazione nel suo insieme. Per dimostrare questa tipologia di comportamento hanno preso un campione di 70 persone e le hanno messe di fronte a 2 scelte: vincere mille dollari con una probabilità del 50% oppure vincerne solo cinquecento con una probabilità del 100%. Indipendentemente dalla scelta presa, prima di giocare i partecipanti avrebbero ricevuto mille dollari. Il risultato è stato che l’84% delle persone ha optato per la seconda scelta, ovvero vincita certa. Verificando le due opzioni a disposizione in modo matematico vediamo però come nelle due scelte il guadagno atteso è identico (vedi figura 5).

In un secondo momento allo stesso campione di persone è stato detto che avrebbero ricevuto duemila dollari e che avrebbero poi dovuto scegliere tra una perdita possibile di mille dollari con il 50% di possibilità e una perdita sicura di cinquecento dollari con il 100% di probabilità. Questa volta il 69% del campione ha scelto la prima opzione, decidendo quindi di rischiare. (Kahneman & Tversky , 1979, p. 268)

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Figura 4: Comportamento assunto in base ai punti di riferimento - elaborazione propria sulla base di (Kahneman & Tversky , 1979)

Notiamo come tutte e quattro le opzioni generassero dei guadagni previsti identici di millecinquecento dollari ma nonostante questo, nel primo esperimento la maggior parte ha preferito non rischiare (scegliendo l’opzione B) mentre nel secondo esperimento il 69% del campione ha deciso di correre il rischio di perdere di più scegliendo l’opzione C. Questo ci fa capire che i partecipanti, al momento della presa di decisione non hanno tenuto in considerazione il bonus iniziale (di mille dollari nel primo caso e di duemila dollari nel secondo caso). Possiamo dunque sostenere che gli individui non vedono un guadagno come un incremento del loro patrimonio totale, ma lo considerano come singolo evento (Rasiel, 2019): la loro visione della situazione globale cambia a dipendenza dalla loro prospettiva e da come percepiscono i singoli eventi in modo individuale e non nel loro complesso.

3.2.3. La ponderazione delle probabilità

La ponderazione delle probabilità descrive il modo in cui il soggetto economico concepisce le probabilità. A causa della legge dei piccoli numeri che verrà approfondita nei capitoli a seguire e a causa di altri fattori le persone tendono ad interpretare in modo errato le probabilità e a distorcerne il significato: davanti ad un esito con bassa probabilità si tende a sopravvalutare la bassa probabilità di realizzazione dell’evento mentre davanti ad un’alta probabilità che un

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evento si realizzi si dente a dubitare e a enfatizzare l’incertezza dell’evento. Questo atteggiamento è strettamente correlato all’avversione al rischio e spiega perché molte persone acquistano biglietti della lotteria: tendono a sotto ponderare l’alta probabilità della perdita. La prova empirica della sovra ponderazione della probabilità di perdita è invece data dall’altissimo numero di assicurazioni su eventi non certi e poco probabili che ogni giorno i soggetti economici sottoscrivono.

3.2.4. La funzione di utilità

Sulla base dei comportamenti esposti finora, possiamo dare una rappresentazione della nuova funzione dell’utilità secondo la teoria del prospetto, questa riproduzione tiene presente degli assiomi e dei bias psicologici responsabili della poca razionalità del soggetto economico.

Figura 5: La funzione di utilità – tratta da (Igorvitale, 2019)

Come possiamo evincere dal grafico la funzione di utilità cambia per i guadagni e le perdite: quando un soggetto economico sta trattando un guadagno la funzione presenta pendenza positiva. Più i guadagni aumentano, meno la pendenza dell’utilità e grande: ogni guadagno aggiuntivo avrà infatti un impatto minore sull’utilità rispetto al guadagno precedente. Anche per le perdite vediamo come la disutilità causata dalle prime perdite è molto maggiore rispetto a quelle che vengono dopo: la pendenza della curva diminuisce infatti all’aumentare delle perdite. In poche parole, i soggetti economici sentono maggiormente sia le prime perdite che portano un’alta disutilità, che i primi guadagni che portano una grande utilità.

Dal grafico rappresentato nella figura 6 e dagli esperimenti esposti nel presente capitolo si può evincere come i soggetti assumano un comportamento avverso al rischio davanti ai guadagni, si veda come la pendenza della curva nella parte destra del grafico è inferiore rispetto a quella di sinistra, mentre quando si trovano davanti a delle perdite il comportamento del soggetto diventa propenso al rischio. Se parliamo di soggetti investitori che hanno nel proprio portafoglio dei titoli, secondo la teoria del prospetto questi saranno propensi a vendere il titolo non appena questo avrà fruttato il guadagno aspettato, mentre se il titolo sta perdendo, l’investitore sarà poco propenso a venderlo: lo terrà nel deposito nella speranza che questo recuperi il suo

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valore iniziale ed eventualmente frutti dei guadagni in quanto il fatto di vendere e chiudere una perdita da un senso di dispiacere troppo grande.

Nell’ambito della teoria del prospetto il comportamento dei soggetti economici nei confronti dei rischi può essere riassunto nel seguente modo:

Figura 6: atteggiamenti nei confronti del rischio - elaborazione dell'autrice

Visti i comportamenti appena descritti su cui si basa la teoria del prospetto, è possibile arrivare alla conclusione che se parliamo di finanza, gli investitori tenderanno a creare dei portafogli con una più elevata concentrazione del rischio di quella che possono realmente tollerare, questo a causa della propensione al rischio in merito alle perdite. Per quanto riguarda l’asset allocation, ci saranno importi inferiori investiti nel mercato azionario a causa della propensione all’avversione al rischio. È dunque molto importante capire che si la teoria del prospetto può descrivere le effettive prassi di investimento dei soggetti, ma dall’altra bisogna notare che tali comportamenti sono contrari ad una buona gestione degli investimenti.

Nel presente capitolo abbiamo trattato solo alcuni dei comportamenti che caratterizzano l’aspetto irrazionale degli investitori; di seguito approfondiremo i bias che risultano essere più rilevanti per il mondo degli investimenti.

3.3. Bias comportamentali

Come spiegato nell’introduzione i bias sono errori di percezione ed elaborazione delle informazioni che distorcono in modo significativo le scelte del soggetto sia a livello finanziario che non (Neocogita srl., 2017). Esistono bias cognitivi che sono errori sistematici di pensiero dovuti alla sbagliata memorizzazione delle informazioni, alla disattenzione oppure alla selezione di informazioni nel momento in cui queste vengono fornite. Esistono inoltre bias emotivi che sono legati alle emozioni, alle sensazioni e alle intuizioni e non ai fatti (esempio avversione alle perdite e eccessiva fiducia).

3.3.1. La legge dei piccoli numeri

La legge dei piccoli numeri è un difetto cognitivo secondo il quale i soggetti tendono a considerare delle informazioni estrapolate da un campione piccolo e non indicativo di osservazioni come dato certo e rappresentativo della realtà; questo accade nonostante tutti sappiamo o possiamo immaginare che i campioni grandi sono più attendibili di quelli piccoli.

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Quando ci troviamo di fronte a dei dati il nostro sistema 1, ovvero il primo che interviene nell’analisi delle informazioni per arrivare a conclusioni che spesso risultano affrettate, interviene e crea delle connessioni causali tra eventi anche quando la relazione è falsa o insensata. Si tratta di un difetto cognitivo che porta le persone a credere che un piccolo numero di informazioni possa dare un’idea generale della situazione.

Per poter avere dati veritieri è necessario che chi analizza le informazioni prenda un campione sufficientemente ampio per riuscire a ridurre il rischio di errore nelle conclusioni. Questa osservazione potrebbe risultare palese ed inutile se non fosse che Jacob Cohen in un articolo pubblicato nel 1962 nella rivista “Journal of Abnormal and Social Psychology” ha messo l’accento su come gli psicologi nei loro esperimenti scelgano campioni così piccoli da esporsi ad un rischio del 50% di non riuscire a confermare le proprie ipotesi (Cohen, 1962). In base a come viene esposto il risultato di un test il nostro cervello elabora l’informazione a proprio modo, e siccome il nostro Sistema 1 non è in grado di distinguere i gradi di credenza e men che meno è in grado di mettere in dubbio dati, il soggetto economico ha la tendenza ad arrivare a conclusioni errate basate su dati poco realistici. “La legge di piccoli numeri è la

manifestazione di un bias generale che favorisce la certezza rispetto al dubbio” (Kahneman

D. , 2012, p. 152).

Per capire meglio il modo in cui reagisce il nostro cervello quando si parla di dati statistici verrà riportato un esempio esposto nel libro “Pensieri lenti e veloci” di Kahneman (2012). Tutti sappiamo che il sesso del primo bambino della giornata nato in un ospedale non condizionerà il sesso del secondo bambino nato nello stesso ospedale. Kahneman nell’esperimento prende come esempio il sesso di sei bambini nati uno dietro l’atro nello stesso centro pediatrico. Abbiamo detto che la sequenza di maschi e femmine che può nascere è puramente casuale e non è condizionata dalle nascite precedenti o antecedenti. Consideriamo ora le seguenti sequenze possibili: MMMFFF, FFFFFF, MFMMFM. Sono tutte sequenze ugualmente probabili? Il nostro Sistema 1 ci porta a dire di no in quanto le prime due sequenze ci sembrano poco frequentemente realizzabili, mentre la terza è l’unica che ci sembra effettivamente casuale. La verità è invece che tutte e tre le sequenze hanno la stessa probabilità di realizzarsi. Il nostro istinto tende a creare dei modelli che siano coerenti con il nostro modo di vedere le cose. Non ci aspettiamo di vedere delle sequenze regolari come FFFFFF in un processo composto da eventi casuali: secondo Kahneman quando individuiamo quella che può essere una regola, subito respingiamo l’idea che il processo sia davvero casuale (Kahneman D. , 2012, p. 153-154). Il soggetto economico fatica a capire la casualità degli eventi, e questo crea conseguenze importanti in quanto vengono individuate delle configurazioni là dove non esistono.

Un altro esempio che ci fa capire quanto la nostra mente venga deviata ed abbia una percezione errata della realtà è palesata nel mondo dello sport: quante volte si pensa che durante una partita di pallacanestro un giocatore abbia “la mano fatata” soltanto perché realizza più canestri consecutivi? Quando questo avviene l’intera partita viene modificata sulla credenza che questo giocatore sia momentaneamente baciato dalla fortuna: i compagni di squadra del “fortunato” saranno incentivati a passargli maggiormente la palla per fargli realizzare nuovi canestri, mentre la squadra avversaria accrescerà la difesa su di esso. Nessuno si chiede però quante partite e quante annate si sono dovute aspettare perché questo

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giocatore arrivasse a fare così tanti canestri di fila. È vero che alcuni giocatori sono più precisi e più allenati di altri, ma “la sequenza di tiri mancati o andati a segno soddisfa tutti i test di casualità” (Kahneman D. , 2012, p. 156).

Come precisa Kahneman, la tendenza che tutti abbiamo è quella di vedere schemi particolari nella casualità. Se seguiamo la nostra intuizione e se lasciamo lavorare solo il Sistema 1 spesso e volentieri sbagliamo e classifichiamo erroneamente eventi casuali come sistematici. Il soggetto economico fatica ad ammettere che la maggior parte degli eventi della nostra vita e quelli osservati siano effettivamente casuali. Dunque, la legge dei piccoli numeri ci porta principalmente a commettere due errori: il primo è quello di dare troppa fiducia a campioni piccoli: diamo più importanza al messaggio rispetto all’attendibilità delle informazioni, questo ci porta ad avere una visione sbagliata del mondo esterno che però ci risulta coerente con le nostre idee. Il secondo errore è quello di faticare a capire gli eventi casuali in quanto sono in contrasto con il nostro intuito.

3.3.2. L’effetto ancoraggio

L’effetto ancoraggio si verifica quando i soggetti, dovendo assegnare un valore ad una quantità ignota partono da un determinato valore disponibile. Questo effetto è uno dei più assodati e riconosciuti dalla psicologia sperimentale, ed è fortemente usato per influenzare il comportamento dei soggetti economici.

Quello che succede è che quando ci viene posta una domanda e nella formulazione di quest’ultima vi è un suggerimento, una risposta implicita o noi abbiamo una lontana idea della soluzione, la nostra mente è portata a partire dal numero che ci è stato fornito. Il processo che avviene nel nostro cervello è quello di valutare l’assurdità o l’esattezza del dato fornito e in base a quello che ci sembra logico, ci sarà un aggiustamento fatto dal Sistema 2: la nostra risposta sarà più alta o più bassa del numero inizialmente focalizzato e l’esito sarà totalmente condizionato da questa ancora in quanto il nostro Sistema 1 fa di tutto per costruire un mondo in cui l’ancora è la risposta corretta al quesito.

Arriviamo ad un esempio per capire l’effetto: se ci viene posta la seguente domanda: “Gandhi aveva più di centoquattordici anni quando morì?” probabilmente tutti noi troviamo poco reale che Gandhi sia vissuto fino a centoquattordici anni. Sappiamo che la risposta centoquattordici è sbagliata e che probabilmente la soluzione sarà inferiore a questo numero. Il nostro Sistema 1 però nel frattempo ha già creato nel nostro subconscio l’immagine di una persona molto anziana. Saremo dunque probabilmente tentati di attribuire un numero alto come anni vissuti da questo personaggio.

L’effetto ancoraggio è uno dei pochi effetti psicologici che sono effettivamente misurabili. Kahneman riporta nel libro Pensieri lenti e veloci (2012) un esempio inquietante di come l’effetto ancoraggio non influenza soltanto chi viene preso alla sprovvista da una domanda che non compete le proprie conoscenze ma anche persone esperte. Fu fatto un esperimento nel quale fu data la possibilità a degli agenti immobiliari di visitare un immobile, in seguito fu dato loro un opuscolo informativo con informazioni sull’immobile e il suo prezzo finale; metà degli agenti aveva però un prezzo ufficiale più alto del prezzo finale mentre all’altra metà ne aveva

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uno più basso. Una volta che gli agenti ebbero dato il loro prezzo, gli fu chiesto quale elemento avesse condizionato la loro decisione finale. Nessuno di loro indicò che il prezzo finale scritto sull’opuscolo gli avesse influenzati. I risultati però parlavano chiaro: l’effetto ancoraggio era del 41%. Da notare che la stessa situazione fu posta a degli studenti di economia e commercio, i quali non avevano nessuna capacità di valutazione immobiliare. Qui l’effetto ancoraggio risultò leggermente più alto, ovvero del 48% e gli studenti ammisero che la loro valutazione era stata influenzata dal prezzo dato dall’opuscolo informativo (Kahneman D. , 2012).

Da questo esempio possiamo evincere quanto sia inquietante e grande l’effetto che un’ancora può avere sul nostro processo decisionale. Una scoperta fondamentale sull’ancoraggio è che le ancore che sono palesemente casuali, sono spesso efficaci tanto quanto lo sono le ancore che danno informazioni plausibili: è stato fatto in merito un esperimento con dei giudici tedeschi con molti anni di esperienza lavorativa alle spalle. Fu sottoposto a questi giudici il caso di una donna che era stata sorpresa mentre rubava in diversi negozi; dopo avere letto il dossier fu chiesto loro di lanciare dei dadi truccati che ad ogni lancio davano come risultato 3 o 9 (si tratta dunque di un ancora casuale). Dopo il lancio del dado veniva chiesto ad ogni giudice se avrebbero imputato un numero di mesi di carcere superiore o inferiore al numero che dava il dado. Ne risultò che chi aveva ottenuto come risultato del lancio del dado 9 avrebbe imputato otto mesi di carcere, mentre chi aveva ottenuto 3 ne avrebbe imputati solo cinque. Da questo esperimento è stato calcolato un effetto di ancoraggio del 50% e anche in questo caso stiamo parlando professionisti che vengono influenzati nel proprio lavoro quotidiano da ancore puramente casuali che non hanno a che vedere con l’attività in questione (Kahneman D. , 2012, p. 168).

Nick Epley e Tom Gilovich riuscirono a dimostrare come è possibile limitare l’effetto ancoraggio: se nel momento in cui viene fornita l’ancora il soggetto scuote la testa questo è meno propenso ad aggrapparsi a questa riposta rispetto al soggetto che annuisce nel momento in cui l’ancora viene pronunciata (Epley & Gilovich, 2001). Adam Galinsky e Tomas Mussweiler proposero diversi modi per riuscire a resistere all’effetto ancoraggio nelle trattative: quando viene proposta un ancora, il soggetto economico deve cercare nella propria memoria degli argomenti per smentire quest’ultima, si va dunque ad attivare il Sistema 2 del nostro cervello che deve trovare la razionalità e deve andare ad esaminare in modo obiettivo la situazione (Galinsky & Mussweiler , 2001, p. 576-669). Si tratta però di comportamenti che richiedono molta attenzione e un particolare impegno nell’individuare ancore che vanno poi a deviare il nostro comportamento.

3.3.3. Eccessiva fiducia e la capacità di controllo

Attraverso diversi studi della psicologia si è notato il trend dell’essere umano ad avere una fiducia ingiustificata in sé stessi e ad avere una visione gonfiata delle proprie capacità: il 90% delle persone sostiene infatti di guidare meglio della media. Questo semplice dato ci dà una visione generale di quanto le persone possano avere una visione distorta di sé stessi e delle proprie capacità (Byrne & Utkus, Behavioural finance, 2013). Se il 90% dei guidatori ritiene di saper guidare meglio della media, vuole dire che solo il 10% dovrebbe essere sotto quest’ultima, il che è matematicamente impossibile.

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Ad un gruppo di studenti è stato chiesto quanti giorni avrebbero avuto bisogno nel migliore e nel peggiore dei casi per completare la propria tesi. Il risultato fu di 33 giorni nel miglio dei casi e di quarantaquattro nella peggiore delle ipotesi. La realtà dei fatti è stata che il numero di giorni medio usato da questi studenti per completare il loro elaborato è stato di cinquantacinque giorni.

L’eccessiva fiducia in campo finanziario può portare a decisioni sbagliate. Si tende a valutare la propria situazione finanziaria migliore di quella che è, questo porta a decisioni di investimento che non rispecchiano il proprio profilo di rischio (Krugman & Wells, 2013, p. 250-251). Un altro rischio che si presenta a causa di questa bias è quello di sovrastimare la propria capacità di prevedere l’andamento dei mercati finanziari, questo può portare ad un’eccessiva negoziazione che causa alte commissioni e ad una conseguente riduzione del profitto (Byrne & Utkus, Behavioural finance, 2013). L’economista Odean ha dimostrato come gli investitori che hanno un’eccessiva fiducia in sé stessi e nelle proprie conoscenze abbiano nel complessivo delle performance inferiori a causa del grande numero di transazione fatte sulla borsa. Questo accade perché gli agenti economici tendono a dare maggior peso alle proprie convinzioni rispetto alle informazioni a disposizione o alle opinioni di terze persone. (Barber & Odean, 1999). In termini pratici gli esseri umani tendono a vedere il mondo in termini positivi anche dopo avere preso decisioni sbagliate, questo porta degli effetti benevoli sul recupero della fiducia in sé stessi e dei mercati, ma allo stesso tempo può portare effetti dannosi sulle decisioni di investimento.

La sopravvalutazione delle proprie capacità e conoscenze in ambito economico porta gli investitori a credere di poter prevedere il futuro, le proprie decisioni di investimento vengono prese in base a queste presupposte conoscenze. La teoria tradizionale raccomanda la diversificazione degli investimenti in asset, valute e mercati. Non potendo però gli investitori avere la capacità di conoscere l’andamento di tutto il mercato mondiale, questi sono portati ad investire solo in quei mercati di cui pensano di poter prevedere il futuro creando così un portafoglio non sufficientemente diversificato. Si va così ad aumentare il rischio di perdita; l’eccessiva confidenza è strettamente legata ad un altro bias che ne è la conseguenza, ovvero quello della capacità di controllo: il soggetto economico pensa di avere più controllo negli investimenti rispetto a quello che ha realmente. In uno studio riportato nell’European Economic (1998) Review svolto su investitori affluent, viene riportato come questi ultimi credevano che la loro capacità di selezione dei titoli fosse un fattore fondamentale per la performance del proprio portafoglio. La realtà dei fatti era però che erano troppo ottimisti: non consideravano infatti l’effetto del mercato complessivo che in quel momento era in una fase di rialzo e per questo i loro investimenti fruttavano buone performance. Gli investitori attribuivano i profitti dei loro investimenti alla loro capacità di stock picking e non a fattori più ampi che nella realtà dei fatti avevano influenzato positivamente tutti i mercati finanziari (De Bondt, 1998). In conclusione, si può dire che l’eccessiva fiducia in sé stessi porta gli investitori a prendersi i meriti di investimenti andati bene, pensando che la propria capacità di selezionare titoli dal mercato sia superiore alla media, e per quanto riguarda invece gli investimenti andati male che portano una perdita al portafoglio, questo viene attribuito alla sfortuna. Questo processo mentale è problematico in quanto non consente un auto feed back negativo che invece sarebbe molto utile per la presa di decisioni future.

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3.3.4. L’effetto gregge

L’appartenenza ad un gruppo è un sentimento al quale le persone sono comunemente molto sensibili: neuroscienziati hanno dimostrato come il rifiuto sociale e l’esclusione dal gruppo comportino a livello celebrale l’attivazione di aree del cervello che solitamente vengono attivate quando si prova del dolore fisico (Gironde, 2010, p. 104). Si tratta di un aspetto al quale siamo tutti particolarmente sensibili: spesso siamo disposti ad accantonare i nostri pensieri e i nostri desideri per non risultare diversi dalla massa e a seguire quelli degli altri per sentirci accettati dalla società. Questo modo di agire diventa ancora più rilevante se in passato abbiamo avuto esperienze in cui siamo riusciti ad andare contro corrente per rispettare le nostre ideologie contraddicendo quelle della massa ma il nostro operato si è infine rivelato sbagliato (Shiller, 2015). L’effetto gregge è un comportamento che porta il soggetto a compiere delle azioni che possono andare anche contro le proprie credenziali pur di seguire il comportamento del gruppo. Questo atteggiamento viene assunto per poter provare il senso di appartenenza ad un gruppo e perché sbagliare da solo risulta più brutto che sbagliare assieme. Il fatto di commettere degli errori che però altre persone stanno commettendo con me crea un senso di conforto nella tristezza dell’errore.

Si tratta dunque di un comportamento che viene assunto a causa di informazioni raccolte da fonti esterne. I canali di trasmissione di informazioni sono molteplici: se una volta l’unico modo di raccogliere notizie era il passaparola oggi, con l’avvento della tecnologia risulta molto facile reperire informazioni attraverso internet, giornali, televisione, radio e i media in generale. Gli studi dimostrano però che il canale più efficace rimane sempre il passaggio di informazioni da una persona all’altra. Nel 1985 Shiller e Pound hanno condotto un esperimento per determinare quale canale di informazione influenza maggiormente gli investitori. Distribuirono un questionario ad un campione di persone nel quale veniva chiesto che cosa avesse influenzato la loro ultima transazione borsistica. Il risultato fu che solo il 6% del campione attribuiva il merito ai giornali; la maggior parte degli investitori aveva agito in base a informazioni avute attraverso comunicazioni dirette con altre persone (Shiller, 2015, p. 170-180). Si pensi all’insider trading, ovvero alla divulgazione di informazioni, di dominio non pubblico, che vengono sfruttate per effettuare operazioni borsistiche traendo vantaggio dalla loro conoscenza anticipata. Questo comportamento è punito penalmente e vi sono organi appositi che controllano e monitorano i mercati finanziari con lo scopo di scovare possibili casi di insider trading. Questo perché il passaggio di informazioni anche solo tra due persone può causare gravi danni sia ad un singolo titolo che a interi mercati a causa dell’effetto gregge. Si pensi al crollo dei mercati finanziari accaduto nel 1987. I giornali riportarono l’informazione del crollo dei mercati unicamente il martedì mattina. Eppure, il fatidico giorno del crollo fu il giorno prima: il famoso lunedì nero. L’economista Shiller attraverso un questionario ha potuto constatare che l’81% degli investitori del suo campione aveva appreso del crollo in corso prima delle cinque del pomeriggio del lunedì, questo perché avevano parlato in media con sette persone di ciò che stava accadendo. Visto che i giornali riportarono informazioni inerenti il crollo unicamente il giorno successivo, le notizie principali furono trasmesse attraverso passaparola tra un investitore e l’altro (Shiller, 2015, p. 180).

Si può pensare alla trasmissione di informazioni come ad un virus al quale viene attribuito un tasso di trasmissione: se una persona ha un’informazione e ne parla con sette persone che a

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