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Difficoltà che sorgono per l‟assistente sociale nel trattamento e nell‟intervento dei casi d

CAPITOLO 10. La funzione dell‟assistente sociale e degli interventi psicologici nei cas

10.1 Difficoltà che sorgono per l‟assistente sociale nel trattamento e nell‟intervento dei casi d

I maltrattamenti sui minori pongono numerose e complesse difficoltà nel loro trattamento da parte dei servizi in generale, ma soprattutto nel lavoro dell‟operatore sociale.

In particolare, per quest‟ultimo, si pone un interrogativo di base rispetto ad altre figure che lavorano in questo contesto, e cioè quello che riguarda il ruolo terapeutico connesso a quello d‟autorità1

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In particolare per l‟operatore sociale, si pone il problema di coniugare i due aspetti sopra citati, il primo che riguarda la posizione in cui esso deve ricoprire il ruolo di rappresentante del Giudice Minorile, e il secondo che sottende implicitamente l‟aiuto materiale e psicologico ai genitori.

La contraddizione enorme, sta proprio nel fatto che questa figura professionale deve intervenire sulla famiglia che è stata deficitaria nel suo ruolo genitoriale in modo tale da poter proteggere e aiutare i figli che devono essere tutelati.

Come si può percepire, la situazione è estremamente delicata e contraddittoria nel senso che il primo mandato contrasta fortemente con il secondo, comportando delle implicazioni non banali.

In concreto si potrebbe affermare che lo scopo del controllo, contrasta fortemente con quello dell‟aiuto, cioè tira in ballo una questione basilare quella che genera confusione tra gli obiettivi dell‟intervento e le modalità attraverso cui arriva a conseguire tali scopi.

I maltrattamenti, come già spiegato, sono una realtà difficile da configurare e ancora maggiormente complessa da risolvere.

Quest‟evidenze meritano un approfondimento specifico al fine di chiarire bene cosa significhi affrontare un caso composito come quello che riguarda il fenomeno.

Poniamo il caso in cui l‟operatore sociale parta dal presupposto per cui ha ricevuto dal giudice il mandato di protezione verso un bambino vittima di maltrattamenti, perpetrati dai suoi genitori e quindi dovrà operarsi affinché verifichi se tali soprusi sono realmente avvenuti, e sulla base di questo prospettare un intervento.

Il primo ostacolo che inevitabilmente pervade la persona è quello che riguarda l‟obiettività.

In definitiva, il problema che sorge immediatamente rispetto alle informazioni che l‟operatore possiede riguarda la non neutralità che ovviamente non avrà quando sarà davanti alla famiglia.

Capita molte volte che quando si arriva a fare un colloquio s'immagini una situazione che invece è l‟opposto di ciò che realmente è. Ecco che si pone il problema enorme rispetto alle informazioni che l‟operatore possiede, molto contrastanti con la realtà del caso.

L‟esempio classico è quello della visita domiciliare, dove l‟assistente sociale o lo psicologo si rendono conto che la casa è in perfetto stato, che la situazione è tranquilla nonostante abbaino saputo che tra quelle mura domestiche sono avvenute violenze ripetute.

A questo punto, il dubbio di un'interpretazione troppo avventata, o al contrario la speranza che tali azioni non siano avvenute, comincerà ad insinuarsi nei ragionamenti degli operatori.

Da un lato, coloro che si trovano in questa situazione saranno sollevati dal fatto che non abbiano trovato la situazione gravosa che si aspettavano di trovare ma, dall‟altro, saranno indotti a interpretare i fatti in maniera diversa o addirittura a negarli.

Quest‟atteggiamenti cambieranno i comportamenti degli operatori soprattutto se nella famiglia in questione c‟è un bambino che si dimostra amorevole verso i suoi genitori, che inducono a porsi l‟interrogativo di chi sia veramente la vittima.

In molti casi purtroppo, sembra che il figlio sopporti meglio le violenze rispetto all‟operatore e quindi che quest‟ultimo non possa far altro che mettersi dalla parte dei genitori.

Il fatto che, il bambino si senta legato ai suoi familiari e che lo dimostri davanti agli operatori, paradossalmente è proprio la conferma del suo bisogno di affettività che lo induce a difenderli e a stravolgere tutti i dati di partenza.

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Crivillé Albert, Genitori violenti, bambini maltrattati: l'operatore sociale di fronte alla famiglia del bambino maltrattato, Liguori Editore, Napoli, 1995.

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I pregiudizi verso il lavoro o le interpretazioni degli operatori, in questo caso, potrebbero far pensare ad una mancanza di professionalità ma, il caso della sindrome di Sylvermaan1, ci dimostra le difficoltà che possono sorgere nell‟accettare la realtà delle violenze.

Quest‟esempi dimostrano quanto sia difficile avere a che fare con questo fenomeno e quanti meccanismi psichici possono attivarsi inconsapevolmente davanti a certe situazioni.

Quello che si configura dalla parte dell‟operatore è proprio un gioco altalenante rispetto a quello che vede e sente. E‟ molto interessante approfondire i motivi di tale funzionamento.

In base questa evidenza, è estremamente complicato rapportarsi a qualcuno che apparentemente non dimostra di essere aggressivo ma che in realtà lo è stato nei confronti della propria famiglia.

Un‟altra difficoltà nell‟affrontare il fenomeno, sta proprio nell‟introdurre l‟argomento davanti a una situazione apparentemente normale. I rischi sono molti, il primo è quello di riattivare il circolo vizioso delle aggressioni obbligando i familiari a parlarne, oppure viceversa davanti a una situazione degradata e palesemente conflittuale sorgono delle difficoltà a tenere il giusto equilibrio per un dialogo costruttivo.

Alcuni operatori suggeriscono di favorire il dialogo attraverso l‟identificazione con i genitori, altri ancora invece sostengono che quest'azione non sia propriamente auspicabile perché per gli adulti la differenza tra l‟idea dell‟aggressione e la violenza stessa non esiste. La fantasia è cosi forte che li induce a compiere tali soprusi sui figli. Inoltre, molti avanzano l‟ipotesi che la problematica dell‟adulto maltrattante sia proprio all‟interno del genitore stesso.

Molti casi ci portano a pensare che tutto nasca da cosa i genitori si aspettano dai loro figli ma soprattutto dalle influenze che hanno avuto in passato. Molto spesso quando il genitore arriva a picchiare il figlio, mentalmente vuole infliggersi una punizione rispetto a ciò che quel bambino riapre in lui e cioè una ferita inimmaginabile che lo induce a compiere tali azioni.

Di conseguenza, quando l‟operatore tocca quel tasto dolente, l‟adulto si sente profondamente minacciato ed è indotto a scappare.

Come già detto le difficoltà che gli operatori sociali hanno, sono molte.

Una di esse si configura quando la famiglia, e in particolare il padre, veicola il messaggio che essendo lui il procreatore del bambino, ha un diritto esclusivo su di lui, che gli permette di poter fare cosa vuole in ogni momento. In quest'occasione è molto difficile intervenire poiché il genitore ricorre al proprio diritto assoluto sul figlio, per assicurarsi un dominio incondizionato che lo protegga dal pericolo. L‟intervento da parte del servizio mette il genitore a dura prova, visto che tira in ballo la sua parte più debole, rendendolo più fragile.

L‟assistente sociale è visto come colui che priva il genitore della sua relazionalità costruita sulla violenza con il figlio, e che quindi lo trasforma in una minaccia pericolosa.

Le reazioni dei genitori alle modalità di negoziazione proposte dagli operatori sociali possono essere, in alcuni casi,veramente gravi. In particolare può capitare la situazione in cui gli adulti si rifiutino di avere il figlio con sé proprio perché non vogliono rinunciare alla loro relazione violenta con esso, e che, quindi li porta a non essere lucidi e addirittura a non volere più il figlio.

In definitiva possiamo affermare con certezza che l‟assistente sociale di fronte ai casi di maltrattamenti su minori, non può essere oggettivo come non può rimanere al di fuori di determinate dinamiche familiari che per forza di cose lo investono in maniera assoluta e lo portano a diventare non neutrale. Egli è portato a ridurre la qualità del suo intervento in base al proprio coinvolgimento emotivo.

Tutte queste evidenze ci portano a pensare che l‟operatore non possa scegliere il grado di coinvolgimento per ogni caso e nello stesso tempo, non può nemmeno concedersi il lusso di avvicinarsi troppo perché contaminerebbe la propria professione. Infine dovrà cercare di tenere la giusta distanza che lo porta sia a lavorare con oggettività sia a non essere troppo distaccato da ciò che ha davanti.

Questa figura si trova in una posizione abbastanza scomoda davanti alle famiglie, poiché afferma di voler aiutare il nucleo ma allo stesso tempo ricopre il ruolo di “ relatore ”, cioè colui che riporta la situazione che trova al giudice, affinché possa decidere usufruendo di tutte le informazioni necessarie. Questo duplice mandato, porta i genitori a pensare che esso eserciti una sorta di “ doppio gioco”. L‟operatore sociale deve avere dimestichezza con quest‟evidenza, cercando di evitare di entrare in uno sterile rapporto di forze e di cadere nella trappola di dequalificare ciò che fonda la legittimità dell‟intervento.

Dalla parte del genitore, l‟assistente sociale è visto come la ritorsione dei maltrattamenti perpetrati sui figli, una figura che, in alcuni casi, addirittura viene configurato come “ agente del giudice istruttore ” non come rappresentante, comportando ulteriori difficoltà nell‟istaurare un rapporto d‟empatia.

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La sindrome di “Sylvermaan” si configura quando il bambino ha avuto fratture multiple pregresse e trascurate, non dovute a cause accidentali, e designa in ambito medico, l’insieme dei segni clinici sul corpo del bambino maltrattato, anche se egli non ha fratture ossee evidenti.

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Uno degli ostacoli maggiori che l‟assistente sociale si trova a dover risolvere, è proprio quello che riguarda la collocazione del bambino che vive in una famiglia maltrattante.

La difficoltà maggiore che viene fuori è proprio il fatto che, allontanando il bambino dalla madre, esso soffrirebbe quanto o forse più rispetto alle percosse che ha subito1.

Quest‟evidenza è cosi forte perché l'allontanamento dalla sua famiglia significherebbe per lui far scomparire il suo primo oggetto d‟amore che gli permette di strutturarsi come persona.

Molte volte capita che i genitori pensino che l‟unico scopo dell‟intervento sia quello di far star bene il bambino, non pensando alla loro configurazione di carnefici non meritevoli d‟aiuto.

Stefano Cirillo ma tanti altri ancora, hanno posto l‟accento sul fatto che i genitori molte volte sono bambini maltrattati e che, proprio in virtù di questo, arrivano a commettere tali azioni.

Questa non vuole dire dare una giustificazione alle violenze, ma è un modo per capire i motivi per cui le persone arrivano a compiere gesti cosi estremi verso i loro figli, per poi cercare di risolvere nel migliore modo possibile la situazione.

La prognosi di recuperabilità della genitorialità ne è un esempio2.

Il lavoro sociale comporta sempre una riparazione dei danni, non solo alle parti lese direttamente, ma di tutti quelli che sono stati danneggiati, anche indirettamente, all‟interno delle famiglie. In questo senso, i genitori autori delle violenze, sono anch‟essi meritevoli d‟aiuto e quindi è di fondamentale importanza capire ciò che li ha indotti a comportarsi cosi.

Queste persone sono molte volte sull‟orlo dello scompenso psichico, sommersi dai ricordi della loro infanzia tradita e disattesa in tutto e per tutto. Questo diventa il fulcro del progetto d‟intervento globale basato sull‟andare a risolvere le problematiche che si sono manifestate con le violenze alla radice, cercando di far luce su traumi pregressi.

L‟assistente sociale non può però distogliere l‟attenzione dal bambino, che è al centro, ma deve tener conto assolutamente del processo per cui il padre è diventato un genitore maltrattante.

Esso può essere portato in alcuni casi a scegliere il “male minore” oppure a tralasciare l‟aspetto della sofferenza del figlio e impegnarsi per aiutare i genitori.

L‟operatore sociale di fronte a un caso di maltrattamento su minori, si trova molto spesso a dover usare le leggi per intervenire. Tale azione non deve essere configurata come un elemento di ritorsione verso la famiglia, né come una modalità per giudicare una situazione, ma deve essere vista come uno strumento per risolvere ciò che si ha davanti.

Egli deve affrontare la propria professione in maniera ineccepibile, cercando di usare gli strumenti appropriati avvalendosi dell‟aiuto di altre figure come lo psicologo o lo psichiatra.

Aver a che fare con questo tema vuol dire interrogarsi su cosa il bambino prova e su come cercare di far venire fuori ciò che ha dentro.

Quest'analisi è necessaria per identificarsi con il genitore maltrattante, arrivando a capire quale sia la presa di coscienza interiore agli adulti. In tal modo, s'interiorizza gli stati d‟animo e le sensazioni dei familiari senza far si che questo distrugga se stesso. Questo processo è fondamentale per arrivare a concepire le violenze come un qualcosa di reale, riconoscendo nel genitore un‟ambivalenza.

Inoltre, facendo ricorso al parere di un consulente, la situazione diventa più chiara. L‟aiuto di uno psicologo può aiutare la famiglia a capire i motivi di un eventuale allontanamento o di altre misure preventive che possono essere messe in atto.

Ci sono due elementi importanti da sottolineare, il primo il richiamo a un terzo fattore ( il mandato), e il secondo è la messa in primo piano del funzionamento psichico delle persone coinvolte.

Il primo elemento fa riferimento all‟importanza che l‟operatore sociale attribuisce al funzionamento mentale dei genitori maltrattanti. Egli suggerisce a queste persone i limiti che sono stati necessari imporre all‟esterno, aiutandoli a distinguere il debito o l‟ammenda che sono obbligati a pagare alla società.

La funzione di terzo che il mandato simbolizza, allude proprio allo scardinamento dei limiti dell‟onnipotenza genitoriale, oltre che ad un effetto colpevolizzante e riparatore per il genitore abusante. Inoltre, la valenza di questo elemento non è banale, poiché contribuisce a sciogliere i legami narcisistici con il proprio figlio, liberando uno spazio la cui qualità permetterà al bambino di organizzarsi in maniera autonoma.

Le percosse inflitte, purtroppo, in alcuni casi sono difficili da risolvere perché non si tratta solo di maltrattamento sui figli, ma può diventare una stimolazione reciproca e perversa. In questo senso, la funzione del mandato fa cessare tutto questo, attraverso il divieto di montare un‟eccitazione che gli interessati non padroneggiano più.

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Crivillé Albert, Genitori violenti, bambini maltrattati. L'operatore sociale di fronte alla famiglia del bambino maltrattato Liguori Editore, Napoli 1995.

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Questo famoso “ terzo ” è al posto di quello che il genitore non riesce a fare. Alcuni padri vorrebbero proteggere i loro figli ma hanno paura della moglie, o altri ancora stanno fuori da alcune situazioni perché sono consapevoli di non poter fare nulla.

I legami, nei casi di maltrattamento, diventano possessivi e assoluti, escludendo qualsiasi condivisione. Se succede che s'istaura un‟alleanza tra i padri e le madri, quasi sempre e contro il figlio cattivo che deve essere escluso.

Il modello che si configura è di tipo dualistico e non c‟è spazio per lo sviluppo della relazione tra genitore e figlio.

La funzione del mandato, per quanto riguarda l‟operatore sociale, è fondamentale.

La violenza è azionata anche di fronte all‟assistente sociale, poiché gli adulti hanno completamente perso la ragione e in molti casi le situazioni diventano veramente dannose anche per chi, come in questo caso, ci lavora ogni giorno.

Questo strumento di lavoro ricorda ai genitori che c‟è qualcosa che va oltre il loro potere, che lo supera e di conseguenza, li fa reagire malissimo proprio perché tocca un aspetto che per loro è intoccabile: l‟indiscusso potere che hanno sul loro figlio.

La difficoltà insita nel lavoro “ d'intrusione” nelle famiglie sta proprio nel fatto che è difficile far capire ad altri che quella dell‟operatore sociale non è un‟accusa o un sistema per colpire, ma un modo per risollevare una situazione ormai gravosa per tutti. Inoltre, questa professione mostra la difficoltà di non avere mai certezze sul fatto che quelle violenze non si ripeteranno.

Quando l‟assistente sociale si accorgerà che ciò che lo aveva portato a quel tipo d‟intervento non ha poi avuto i risultati sperati, sarà indotto a dubitare di se stesso, della sua capacità di leggere tra le righe e di svolgere il suo lavoro in maniera professionale.

Infine, alcune delle maggior difficoltà che questa figura si trova davanti nei casi di maltrattamenti sono: la violenza agita nel bambino, il dominio e l‟elaborazioni delle proprie emozioni e la possibilità di identificarsi contemporaneamente con i differenti protagonisti.

Le risoluzioni di tali ostacoli che possono manifestarsi sono propriamente due. La prima che riguarda l‟introduzione di una distanza che gli permetta di preservare uno spazio tra sé e la famiglia, e la seconda è quella di comprendere la dinamica relazionale del nucleo nella quale s‟inserisce il maltrattamento.

L‟intervento da attivare nei casi di maltrattamento non è di facile attuazione. Poniamo come presupposto il fatto che un allontanamento è sempre doloroso, poiché al di la dei sentimenti opposti provati dai genitori, il distacco di un figlio porta inevitabilmente a delle sofferenze1.

Per questa famiglia, l‟arrivo dell‟operatore sociale con il proposito di prendere in carico il caso, riapre una ferita passata che non era guarita e se questi hanno alle spalle dei maltrattamenti, il piano dell‟intervento cambia.

Molti casi già dalla gravidanza mostrano dei problemi, altri dopo i primi mesi di vita dei neonati o quando il bambino è più grande. Questi genitori portano al loro interno le violenze subite è quindi sono maggiormente a rischio di ripercuotere tali soprusi sui loro figli.

Quando l‟assistente sociale decide, dopo un‟‟attenta valutazione in equipe, di allontanare il bambino, esso cerca di dare tutto quello che aveva diritto di aspettarsi il minore dai suoi genitori.

Ovviamente questo processo non è cosi immediato, anzi è lungo e difficile pieno di ostacoli da superare.

Molte volte gli operatori si nascondono dietro le istituzioni preposte a lavorare con i casi dei maltrattamenti. In particolare non è raro che s'inneschi una reazione a catena all‟interno dei servizi, proprio sul fatto che è l‟istituzione a prendere delle decisioni.

Il problema è interrogarsi sul fatto che anche quella sia una tipologia di violenza ulteriore subita dalla famiglia. Dobbiamo pensare che in quell‟organo preposto ad agire coattivamente sul nucleo sono impliciti determinati elementi come: l‟appropriazione del bambino, l‟idealizzazione delle proprie funzioni e sentimenti di competenza rispetto alle capacità educative.

Un aspetto importante meno ovvio nei maltrattamenti è che anche il bambino partecipa a tali azioni ma, soprattutto, affermare che i genitori sono i carnefici e che il figlio sia sempre in ogni caso la vittima sarebbe come non vedere una parte fondamentale della realtà.

Qualsiasi bambino ha in se, o matura nella crescita e nel contatto con una particolare tipologia di genitorialità, alcune capacità di opposizione attiva o passiva verso gli adulti.

Quest‟ultime possono aumentare o scatenare l‟ira già esplosiva delle madri o dei padri fino al punto di arrivare ai maltrattamenti fisici diretti.

Questo non vuol dire che i figli vogliono essere picchiati o che desiderano questo ovviamente, ma che in alcuni nuclei succede che il confine tra carnefice e vittima diventa veramente di difficile definizione.

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L‟operatore deve avere la capacità di elaborare i conflitti che la famiglia ha proiettato dentro di lui, solo cosi può lavorare in maniera ineccepibile senza cadere nelle trappole mentali che tali situazioni creano.

Il fattore importante che permette di lavorare bene con questo fenomeno, è la gestione delle contraddizioni pulsionali psichiche che sono all‟origine del fenomeno in esame.