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III.3 Intellettuali e potere, un paradigma

III.3.1 La dimensione dell’esilio

Dopo aver opportunamente chiarito in perfetta coerenza con le teorie di Gramsci la differenza fra intellettuali organici e tradizionali , Said comincia ad occuparsi della 25

funzione svolta e dal ruolo ricoperto dagli intellettuali contemporanei. Essi sarebbero posti dinanzi ad un dilemma epocale, senza precedenti nel corso della storia umana: persistere nello sconfortante senso di impotenza derivante dalla marginalità che la società sembra loro riservare; oppure rientrare nei ranghi istituzionali, aziendali, e subordinarsi all’ordine costituito, riducendosi dunque allo status di intellettuale organico.

«Gramsci vuole dimostrare che chi esercita a pieno titolo il ruolo di intellettuale nella società appartiene

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all’una o all’altra di due categorie: agli intellettuali tradizionali - insegnanti, ecclesiastici, funzionari - che continuano a svolgere sempre la stessa parte, di generazione in generazione, oppure agli intellettuali organici, direttamente collegati, a suo giudizio, con le classi o le imprese che si servono di loro per organizzare interessi, acquisire potere, rafforzare il controllo». EDWARD W. SAID (1994), Dire la verità, gli

Se da una parte l’allineamento con la dottrina imposta dal pensiero unico implica degli innegabili vantaggi come il prestigio, l’arrampicata sociale, il danaro; la condizione che si prospetta per quegli intellettuali che ancora si ostinano - a ragion veduta - a non soccombere al diktat del pensiero unico, è simile a quella dell’esilio.

La tradizione occidentale possiede innumerevoli esempi efficaci per mostrare come l’esilio si configuri non solo come condizione metaforica per l’intellettuale che osa dissentire contro il potere, ma anche spesso come unica vera alternativa per l’espressione del libero pensiero. Fu esiliato Ovidio, bandito da Roma e confinato lungo il Mar Nero, fu esiliato Dante, costretto a peregrinare lontano dalla sua terra natia, fu esiliato Pasolini, confinato nell’isolamento e nell’abbandono. Fu costretto a ritrattare Galileo, fu dato alle fiamme Giordano Bruno: da sempre il potere sopprime il difforme e l’intellettuale dissidente. Ma riguardo a Pasolini, l’immagine posta a conclusione del primo capitolo di

Caro diario, film scritto, diretto ed interpretato da Nanni Moretti nel 1994, riassume

efficacemente l’esilio in cui egli fu confinato anche nella morte: dopo aver attraversato Roma fra le varie borgate sulla propria vespa, Moretti si reca all’idroscalo di Ostia, dove un monumento derelitto, abbandonato, circondato da erba incolta e una rete fatiscente, sembra essere tutto ciò che rimane del poeta come unico riconoscimento che la sua patria sembra riservargli.

Un comune sentimento animò gli animi magni appena citati: essi dissentirono contro il potere. Il loro rapporto nei confronti della società si tradurrà in termini di integrazione/ omologazione e ribellione/dissenso.

Said nota come l’esilio abbai avuto spesso manifestazione nelle sue conseguenze più pragmatiche, ma esso può anche diventare una condizione metaforica, la quale ovviamente non riguarda necessariamente tutti gli intellettuali. L’esilio sarà riservato solo a quegli intellettuali capaci di sfidare l’ordine costituito:

Gli intellettuali che appartengono per nascita a una data società possono dividersi in due categorie a seconda che scelgano, se così vogliamo dire, l’integrazione o l’estraneità: quelli che sentono di appartenere pienamente alla società qual essa è sono destinati a prosperare senza che mai la percezione di una dissonanza, di un disaccordo divenga la nota dominante della loro esistenza; possiamo definirli uomini del consenso. Sull’altro versante, i rappresentati del dissenso vivono in perenne contrasto con la società e pertanto perfettamente estranei, veri e propri esuli, per quanto attiene privilegi, potere, onori. Il modello che segna la rotta dell’intellettuale come outsider ha nell’esilio il suo esempio per elezione, in quanto condizione che non consente di sentirsi mai perfettamente a proprio agio. […] In questo senso metafisico, l’esilio significa per l‘intellettuale irrequietezza, movimento, la sensazione irrimediabile di essere dislocati, a disagio, e di metter a disagio gli altri. 26

I termini di consenso e dissenso si ripresentano in questo estratto. L’esilio - sia esso reale o metaforico - si profila dunque come condizione determinante per il ruolo e il rapporto che l’intellettuale intratterrà nei confronti della società. Lungi dal crogiolarsi nell’autocommiserazione e nello sconforto l’esiliato dovrà reagire, sfruttando quelle potenzialità peculiari solamente all’esule: a) Il piacere della scoperta. L’intellettuale ha a che fare con il sapere e la libertà, egli è libero di vivere ed esperire quanto di più vario in virtù della libertà acquisita; b) Il piacere della ri-scoperta. La prospettiva dell’esule è

EDWARD W. SAID, Dire la verità, cit., p. 64.

libera, non filtrata da pregiudizi di sorta in quanto non compromesso con il potere. La libertà ottenuta - o imposta - consentono all’intellettuale di riconsiderare le proprie posizioni, e di dare nuovo significato a quelle ‘verità’ reputate immutabili dal comune sentire; c) L’esilio non implica e forse nemmeno consente di reinventarsi cittadini di un’altra città. L’esiliato, una volta divenuto tale, rimarrà sempre ai margini della società, il che lo svincola da qualsiasi contingenza etica o professionale.

Compito dell’intellettuale sarà vivere l’esilio non come privazione ma come liberazione, come unica condizione per porre in essere il proprio dissenso ed uscire dall’omologazione culturale, come unico mezzo per ricercare la dimensione dell’Altrove e dunque garantire la sopravvivenza dell’attività intellettuale stessa.

Nella società dell’omologazione di massa trovano rinnovato vigore le teorie formulata dalla Scuola di Francoforte: ad un rapporto vissuto negativamente fra opera e società corrisponderà un maggior prestigio della stessa in quanto realmente capace di cogliere le contraddizioni di una cultura . 27