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4 Discussione

4.4 Dimensioni delle uova

Le dimensioni delle uova sono confrontabili con quelle riportate in letteratura (Cramp, 1983; Westwood, 1983; Nethersole- Thompon & Nethersole-Thompon, 1986; Vaughan & Vaughan 2005). È importante sottolineare però che la variabilità intra- annuale nel volume delle uova è rilevante e sostanzialmente attribuibile a differenze tra femmine, testimoniando quindi una significativa variabilità nell’investimento a livello individuale. Di particolare rilievo è risultata la diminuzione del volume delle uova delle prime covate col procedere della stagione. La relazione è, in effetti, debole, ma evidente ed è inoltre analoga a quella già registrata in altre specie di caradriformi. Le spiegazioni possibili di questo fenomeno possono essere diverse, anche se sostanzialmente riconducibili a quattro punti chiave (Sandercock et al., 1999; Dittmann & Hötker, 2001):

Le femmine potrebbero produrre covate di dimensioni maggiori, ma con uova più piccole con il procedere della stagione. Nel nostro caso non si osserva alcun trend temporale nella dimensione della covata e quindi quest’ipotesi non sembra essere plausibile.

Le femmine potrebbero arrivare nei quartieri riproduttivi con un numero limitato di risorse per produrre le uova. Queste risorse potrebbero venir consumate con il procedere della stagione nel caso in cui le condizioni ambientali non permettessero la deposizione nella fase iniziale del periodo riproduttivo,

determinando quindi una progressiva riduzione del volume delle uova nella tarda primavera. Anche quest’ipotesi sembra essere poco plausibile, poiché l’occhione arriva nei quartieri di riproduzione diverse settimane prima di iniziare la deposizione e sembra improbabile che le condizioni di alimentazione siano così poco soddisfacenti da determinare una consistente riduzione delle riserve energetiche dell’animale. Inoltre, il costo relativamente basso di una singola covata (Nethersole-Thompon & Nethersole- Thompon, 1986) sembra ulteriormente deporre a sfavore di questa spiegazione. Si deve poi ricordare che, sebbene per taluni taxa, come i laridi, sia stato individuato un effetto della disponibilità di cibo sulla dimensione delle uova (si veda ad. es. Mills, 1979; Winkler & Walters, 1983; Bolton et al., 1992), molti studi condotti su sterne (Monaghan et al., 1992) oppure su beccace di mare (Nol, 1989; Jager et al., 2000) non confermano quest’ipotesi.

Le femmine migliori per condizioni fisiche, età, esperienza oppure per caratteristiche fenotipiche potrebbero riuscire a deporre prima nella stagione e inoltre dovrebbero deporre uova di qualità migliore. Il legame tra tasso di schiusa e volume delle uova non è in realtà completamente chiarito (si veda Jager et al., 2000 per una discussione), ma in ogni caso il legame tra dimensione delle uova e dimensione dei pulcini può comunque avere degli effetti positivi sul successo riproduttivo finale (si veda es. Williams, 1994). Il legame tra età della femmina e dimensione delle uova è stato documentato in diverse specie di

uccelli (si veda Weimerskirch, 1990, 1992; Croxall et al., 1992; Jager et al., 2000), così come quello della sua massa, espressa sia in termini di dimensione strutturale (Väisänen et al., 1972; Miller, 1979; Nol et al., 1984; Bergstrom, 1988), che di condizione fisica (Galbraith, 1988), sebbene la sua entità sia estremamente debole (referenze in Jager et al., 2000). I dati disponibili non consentono chiaramente di esprimersi a favore o contro quest’ipotesi, dato che non si dispone di un numero di animali marcati sufficiente per controllare questi fattori. In ogni caso è importante sottolineare che, mentre non sembra vi siano elementi che supportino l’idea di un peggioramento delle condizioni ambientali con il procedere della stagione, l’ipotesi che le covate tardive siano state deposte da femmine giovani o inesperte sembra estremamente probabile. Si deve poi ricordare che il tipo di monitoraggio dell’area di studio non permette di escludere che alcune prime covate tardive non siano in realtà covate di sostituzione, che tendono ad essere più piccole rispetto alle prime covate deposte dalle medesime femmine (si veda la Fig. 3.7)

Infine, le uova più piccole si possono tradurre in una riduzione sia dei tempi di deposizione che di quelli di incubazione (Parsons, 1972) e questo può permettere all’animale di risparmiare tempo evitando di far nascere i pulcini troppo tardi nella stagione (Pienkowski, 1984). Quest’accelerazione dei tempi può tradursi in un vantaggio sia per quel che riguarda i pulcini, perché la sopravvivenza di questi ultimi potrebbe diminuire col

procedere della stagione, sia per gli adulti, che, anticipando la fine del ciclo riproduttivo, potrebbero dedicare per intero le loro risorse al completamento della muta prima della migrazione autunnale, senza quindi subire ritardi che possono talora risultare costosi in termini di sopravvivenza (Hemborg & Lundberg, 1998). Quest’ipotesi, come la precedente, sembra essere plausibile, sebbene i dati disponibili non permettano di stabilire se uno degli assunti alla base di questa idea, ovvero il legame tra dimensione delle uova e lunghezza del periodo di incubazione, sia valido anche per l’occhione.

4.5 Sopravvivenza della covata

Il tasso di sopravvivenza registrato per le covate non risulta elevato. Purtroppo però i confronti con quanto riportato in letteratura non sono semplici, dato che pochissimi lavori si basano su dati raccolti in maniera sufficientemente informativa e il quadro che ne deriva è piuttosto eterogeneo. Studi condotti considerando il solo tasso di schiusa (tasso di sopravvivenza apparente) riportano una percentuale variabile tra il 54.5% ed il 100% per quel che riguarda l’Inghilterra (Glue & Morgan, 1974; Westwood, 1983) e tra il 15.2% ed il 69.8% per la Spagna (Solis & De Lope, 1995). Queste percentuali sono nella realtà fuorvianti, poiché, come già ricordato nei Materiali e Metodi, i nidi che falliscono prima della schiusa hanno probabilità minori di entrare nel campione rispetto a quelli che invece hanno successo (Mayfield, 1975; Klett & Johnson, 1982; Johnson & Shaffer, 1990). Analisi condotte con metodologie più appropriate (stimatore di Mayfield) riportano un tasso di sopravvivenza al termine del periodo di incubazione tendenzialmente più ridotto, con minimi attorno al 3.8% (Barros & de Juana, 1997) e comunque raramente superiore al 50% (Bealey et al., 1999). Tutti questi studi considerano il tasso di sopravvivenza giornaliero costante per l’intero periodo di incubazione e questa assunzione può tradursi in una consistente sovrastima nel caso in cui questo tasso vari invece in relazione all’età delle uova (Klett & Johnson, 1982; Manly & Schmutz, 2001; Nur et al. 2004). Nonostante

questa possibile sovrastima, i dati risultano confrontabili con quelli da noi raccolti e confermano un’elevata percentuale di fallimenti, già evidenziata anche dal consistente numero di covate di rimpiazzo registrate (vedi prima). Le cause di questi fallimenti sono difficili da individuare, anche se risulta probabile che la gran parte dei fallimenti sia da attribuire a predazione, sebbene sia estremamente difficile raccogliere prove dirette sul tipo di predatori e più in generale sulle cause di un fallimento della covata, salvo in casi estremamente rari (Bealey et al., 1999). Alcune tracce rilevate in prossimità dei nidi inducono a ritenere che canidi e corvidi siano i predatori più frequenti, ma non esiste alcun dato quantitativo sul loro impatto reale (Pollonara et al., 2000). Studi condotti in Inghilterra dimostrano una correlazione piuttosto stretta tra il successo di nidificazione dell’occhione e il tasso di volpi uccise nell’anno durante operazioni di controllo della loro popolazione, mentre la relazione non risulta significativa considerando il numero di corvidi (cornacchie e gazze) uccisi (Bealey et al., 1999). Nella misura in cui questi tassi di prelievo possono essere considerati indicativi dell’abbondanza dei predatori, si potrebbe ipotizzare una maggiore pressione delle volpi rispetto ai corvidi, ma gli stessi autori indicano che un simile test ha una potenza troppo ridotta per offrire risultati conclusivi. I dati in nostro possesso dimostrano una rilevante variabilità inter-annuale nel tasso di sopravvivenza, con un evidente effetto delle condizioni ambientali del greto fluviali all’inizio della stagione riproduttiva.

In effetti, annate caratterizzate da un greto relativamente “pulito” per l’opera delle piene autunnali e primaverili risultano contraddistinte da un successo quasi doppio rispetto al singolo anno in cui l’entità ridotta di queste piene non ha permesso la sostanziale eliminazione della vegetazione pioniera sviluppatasi nell’anno precedente. Questo marcato effetto sembra quindi indicare che l’ambiente aperto attorno al nido possa di fatto ridurre l’impatto della predazione sulle covate. È interessante osservare che questa considerazione risulta confermata anche valutando l’analisi del micro-habitat presente attorno al nido negli anni 2004-2005. In particolare, la presenza sia aree boscate che piante di medie dimensioni oppure di tronchi fluitati tende ad avere un impatto negativo sul tasso di sopravvivenza. È però importante rilevare che questo tipo di effetto è decisamente più marcato nell’annata 2005, andandosi probabilmente a sommare ad una generalizzata condizione ambientale non particolarmente idonea per la nidificazione. Interpretando questo risultato in chiave antipredatoria, è possibile ipotizzare che la presenza e l’impatto negativo sia di corvidi che di canidi possa essere incrementato sia dalla presenza di bosco che di arbusti e/o tronchi fluitati che possono agire sia come nascondigli, occultando l’avvicinamento del predatore terrestre al nido, oppure da posatoi, nel caso di uccelli, da sfruttare per cogliere l’occasione migliore per predare le uova. È opportuno ricordare in questo contesto che la strategia comportamentale di difesa della covata da parte dell’occhione cambia in maniera

significativa nel caso di predatori terrestri oppure alati. Nel primo caso di predatori terrestri la difesa del nido si associa inizialmente ad un immediato allontanamento furtivo dell’individuo in cova una volta scorto il predatore talora seguito, anche se non in maniera sistematica, da display comportamentali di minaccia diretta oppure di “distrazione” (distraction display) volti ad allontanare il predatore dal nido (Cramp 1983; Vaughan & Vaughan 2005; Pollonara & Giunchi, oss. pers.). È evidente che in un simile contesto l’avistamento precoce del predatore riveste un ruolo fondamentale nel ridurre la probabilità che questo individui il sito del nido in base al comportamento dell’individuo in cova. Nel caso di predatori alati e soprattutto di corvidi, la difesa della covata è più diretta. Questi uccelli sono, infatti, normalmente presenti nel greto durante le ore diurne e di fatto posseggono informazioni dirette sulla localizzazione del nido, dato che gli occhioni in cova tollerano la loro presenza anche a distanza relativamente ravvicinata. Solo in casi di minaccia diretta, gli occhioni operano una difesa attiva, con attacchi frontali e display volti ad allontanare il predatore (Cramp 1983; Vaughan & Vaughan 2005; Pollonara & Giunchi, oss. pers.).

Per quel che concerne l’effetto dei predatori sulla sopravvivenza delle covate risulta importante anche prendere in considerazione il particolare ruolo della variabile Hmax sulla schiusa delle uova. In effetti, mentre nel 2004 un aumento dell’altezza della vegetazione in prossimità del nido comporta un aumento del

tasso di fallimento delle covate, nel 2005 questo effetto si rovescia completamente e nidi con vegetazione di altezza maggiore tendono a schiudere con probabilità più elevata rispetto agli altri. È importante sottolineare che HMax è l’unico parametro tra quelle prese in considerazione che varia in maniera significativa tra il 2004 ed il 2005, confermando quindi uno sviluppo anticipato della vegetazione pioniera in sostanziale assenza di piene autunnali/primaverili. Risulta quindi evidente che laddove gli animali abbiano a disposizione un ambiente aperto per nidificare (2004) siano danneggiati dalla presenza di vegetazione di altezza significativa attorno al nido, mentre qualora l’ambiente di nidificazione risulti maggiormente chiuso per la presenza di vegetazione erbacea pioniera (2005) ricevano un vantaggio dal nidificare in prossimità di piante di altezza maggiore. Un simile effetto sembra interpretabile in termini di difesa antipredatoria, specialmente in relazione a predatori terrestri. Laddove infatti l’intorno del nido risulta relativamente aperto, un incremento di HMax sembra semplicemente agire come disturbo per la visuale dell’individuo in cova che quindi potrebbe ritardare il suon allontanamento dal nido in presenza di un canide, riducendo quindi l’efficacia della difesa della covata messa in atto dalla coppia. Al contrario, qualora la copertura del greto risulti maggiore, la presenza di vegetazione attorno al nido non avrebbe un effetto negativo, ma al contrario potrebbe nascondere maggiormente l’individuo in cova riducendo quindi la probabilità che questo venga scorto precocemente dal

predatore. È comunque importante sottolineare che questo secondo caso si applica ad una condizione di successo di schiusa comunque basso e quindi che l’effetto di HMax contribuisca solo marginalmente a migliorare le condizioni di nidificazione degli animali.

È inoltre interessante osservare che le covate tardive tendono ad avere un successo lievemente maggiore rispetto a quelle precoci, un fenomeno questo già registrato anche in Spagna (Barros & De Juana, 1997). La ragione di quest’andamento è difficile da spiegare. Barros & De Juana (1997) ipotizzano che la causa principale sia legata ad una differente disponibilità di cibo per i predatori, che ridurrebbero la loro pressione sui nidi di occhione col procedere della stagione in concomitanza con un aumento generalizzato di disponibilità delle prede. Quanto quest’idea si applichi alla nostra situazione è difficile da stabilire, sebbene l’ipotesi sembri ragionevole. A questo si deve poi aggiungere che lo sviluppo della vegetazione in greto potrebbe comportare una maggiore difficoltà di individuazione del nido da parte dei predatori, anche se l’effetto delle variabili considerate in precedenza non sembra supportare questo tipo di ipotesi (v. prima).

Si deve infine rilevare come il volume delle uova non influisca in maniera significativa sul tasso di fallimento delle covate, non entrando a far parte del set di modelli migliori identificati con il criterio di Akaike. È interessante osservare che anche in

letteratura esistono evidenze piuttosto contraddittorie sul legame tra tasso di schiusa e dimensione delle uova (Jager et al, 2000). Nel complesso i dati presenati non permettono di valutare quanto il tasso di sopravvivenza delle uova si rifletta sul reale successo riproduttivo della specie. Come ricordato in precedenza, i valori da noi rilevati sono simili a quelli riportati per l’Inghilterra, dove si accompagnano ad una produttività considerata sufficiente per mantenere la popolazione stabile (ca. 0.6-0.7 pulcini all’anno per coppia; Green & Hirons, 1991; Green et al., 1997; Bealey et al., 1999). Come già sottolineato in precedenza, è assai probabile che il tipo di metodologia utilizzato in Inghilterra possa portare ad una sovrastima del successo riproduttivo, ma, nell’ipotesi in cui il legame tra sopravvivenza delle uova e successo riproduttivo finale sia analogo anche nella nostra area di studio, sembra ragionevole ipotizzare una produttività sufficiente a mantenere stabile anche la popolazione da noi monitorata, come ulteriormente testimoniato dai dati di censimento (Giunchi et al. 2004). L’elevato numero di fallimenti rilevato sottolinea comunque la necessità di ulteriori approfondimenti, anche per valutare l’impatto che la presenza antropica nell’area, soprattutto durante la stagione riproduttiva degli animali, può esercitare sulla nidificazione di questa specie.

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