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In ragione del vincolo fiduciario che lega i dirigenti al datore di lavoro, l’ordinamento italiano ha da sempre previsto una disciplina del rapporto di lavoro speciale rispetto a quella prevista per le altre categorie di lavoratori che è per lo più regolata a livello di

138L. BARBONI, La nuova disciplina del trasferimento d’azienda e il recepimento

delle fonti comunitarie, in Studium iuris, 2002, M. FREDIANI, Brevi cenni sul nuovo 2112 c.c., in Lav. giur., 2001, C. DE MARCHIS, Aspetti vecchi e nuovi del trasferimento d’azienda alla luce del decreto legislativo 2 febbraio 2001, in Riv. giur. lav., 2001.

139MARSANO, Trasferimento d’azienda e dimissioni per modifica sostanziale delle

condizioni di lavoro, in Lav. nella giur, 2005, MAZZIOTTI, Trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori, in DE LUCA TAMAJO - RUSCIANO-ZOPPOLI

(a cura di), Mercato del lavoro, Riforma e vincoli di sistema, Napoli, 2004.

140F. SCARPELLI, Il mantenimento dei diritti del lavoratore nel trasferimento

contrattazione collettiva.

Ed è proprio la contrattazione collettiva a prevedere una disciplina convenzionale, aggiuntiva rispetto a quella di cui all’art. 2112 c.c., in favore dei dirigenti che forse, ancor più delle altre categorie di lavoratori, possono risentire maggiormente delle vicende traslative dell’impresa.

In particolare, il contratto collettivo nazionale per i dirigenti di aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi (c.d. CCNL Dirigenti Commercio), all’art. 20, rubricato “Trasferimento di

proprietà” prevede che: (i) in caso di trasferimento di proprietà

dell'azienda, ivi compresi i casi di concentrazioni, fusioni, scorpori, non devono in alcun modo essere pregiudicati i diritti, a qualsiasi titolo, acquisiti dal dirigente; (ii) nel caso in cui a seguito delle citate operazioni si determini nei confronti del dirigente «una effettiva situazione di detrimento professionale, quest’ultimo può, fino a sei mesi dall'avvenuta comunicazione formale del trasferimento di proprietà, risolvere il rapporto di lavoro con diritto all'indennità sostitutiva del preavviso».

Una simile previsione è inoltre contenuta nel contratto collettivo per i dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi (c.d. CCNL Dirigenti Industria) che all’art. 13, rubricato “Trasferimento di proprietà

dell’azienda”, prevede che in caso di trasferimento di proprietà

dell’azienda (ivi compresi i casi di fusioni, scorpori), il dirigente ha diritto di dimettersi entro 180 giorni dal mutamento di proprietà, senza alcun obbligo di preavviso, richiedendo il pagamento di un terzo dell’indennità sostitutiva del preavviso. Rispetto al CCNL Dirigenti Commercio, il CCNL Dirigenti Industria, da un lato, non richiede al dirigente di dimettersi a fronte di un “detrimento” della sua posizione professionale: il verificarsi del trasferimento di proprietà è un fatto

dimostrare alcun detrimento. Dall’altro, il dirigente dimesso non ha diritto all’indennità sostitutiva piena ma solo ad un terzo di essa.

5. L’IMPUGNAZIONE DEL TRASFERIMENTO DAZIENDA,

LINTERESSE AD AGIRE E LE CONSEGUENZE DERIVANTI DAL TRASFERIMENTO DAZIENDA ILLEGITTIMO

Oltre alle varie garanzie approntate dal legislatore e su cui ci si è soffermati nei paragrafi precedenti, il lavoratore, pur non avendo un diritto di opposizione, ha facoltà di impugnare l’atto di trasferimento richiedendo di essere ri-trasferito al cedente qualora ritenga: (i) di non appartenere al ramo azienda ceduto; e/o (ii) che tale trasferimento sia stato effettuato in assenza dei requisiti di legge (e cioè quanto il ramo d’azienda non abbia autonomia funzionale e, come ritiene la giurisprudenza attualmente maggioritaria, non sia preesistente al trasferimento del ramo)141.

Con l’entrata in vigore della Legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. “Collegato Lavoro”), la facoltà del lavoratore di impugnare l’atto di trasferimento è stata tuttavia assoggettata (come nel caso dei licenziamenti) a due tipi di decadenze, una stragiudiziale, e un’altra giudiziale (ex art. 32, comma 4, lett. c).

In base a tale normativa, il lavoratore deve impugnare l’atto di trasferimento stragiudizialmente entro sessanta giorni dalla data del trasferimento stesso e, a pena di inefficacia dell’impugnazione stessa,

141Il lavoratore trasferito illegittimamente potrà inoltre richiedere il risarcimento dei danni subiti per effetto dell’illegittimo trasferimento. Secondo la giurisprudenza, tuttavia, «nell'ipotesi di cessione di ramo d’azienda dichiarata illegittima, le erogazioni patrimoniali, eventualmente commisurate alle mancate retribuzioni, cui è obbligato il datore di lavoro cedente che non proceda al ripristino del rapporto lavorativo, vanno qualificate come risarcitorie, con conseguente detraibilità dell’"aliunde perceptum" che il lavoratore possa aver conseguito svolgendo una qualsiasi attività lucrativa», così Cass., 5 dicembre 2016, n. 24817. In senso conforme, Cass., 27 aprile 2015, n. 8514. Pertanto, il lavoratore illegittimamente trasferito al cessionario non avrà diritto ad alcun risarcimento del danno qualora la retribuzione percepita dal cessionario sia uguale e dunque non inferiore a quella che avrebbe percepito se fosse rimasto alle dipendenze del cedente.

deve, nei centoottanta giorni successivi, depositare un ricorso presso il tribunale del lavoro competente (ex art. 6 Legge 15 luglio 1966, n. 604).

La formulazione della norma prevista dal Collegato Lavoro in tema di impugnazione del trasferimento ai sensi dell’art. 2112 c.c. ha suscitato diverse questioni interpretative in dottrina142. In particolare, è stato osservato che dal tenore letterale della norma solo i lavoratori trasferiti al cessionario sarebbero legittimati a impugnare il trasferimento, nonostante la facoltà di impugnare dovrebbe essere prerogativa anche dei lavoratori rimasti alle dipendenze del cedente che ritengono invece di aver diritto di essere trasferiti al cessionario143.

Altra questione piuttosto critica della norma riguarda la definizione del dies a quo da cui deve decorrere il termine per impugnare l’atto di trasferimento in via stragiudiziale, dato che la norma stabilisce che il lavoratore ha l’obbligo di impugnare entro sessanta giorni dalla data del trasferimento. Sul punto, la dottrina ha sottolineato che i lavoratori non sempre sono informati del trasferimento d’azienda (o di ramo), né è previsto in capo al cedente o al cessionario un obbligo di informare tutti i lavoratori in tal senso.

Le rappresentanze sindacali che ai sensi dell’art. 47 della Legge n. 428/1990 devono essere informate da cedente e cessionario del prospettato trasferimento, e che partecipano alla procedura di informazione e consultazione sindacale, ben potrebbero non trasferire le notizie apprese ai lavoratori (specie quelli non iscritti), non hanno

142L’art. 32, comma 4, del Collegato Lavoro prevede che le decadenze previste in tema di licenziamento si applichino anche alla «cessione del contratto avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c. con termine decorrente dalla data del trasferimento».

alcun obbligo a loro carico di informare tutti i lavoratori coinvolti nel trasferimento.

É proprio per tali ragioni che la dottrina ha sostenuto che il termine di decadenza di sessanta giorni debba essere inteso in senso “elastico”, e cioè, debba decorrere solo dal momento in cui il lavoratore sia venuto a piena conoscenza del trasferimento, a prescindere dalla data dello stesso144.

Altro tema dibattuto ha riguardato poi la legittimazione passiva, e cioè chi tra cedente e cessionario è legittimato passivo dell’impugnazione dell’atto di trasferimento. Sul punto, la giurisprudenza ha affermato che tra cedente e cessionario non vi è litisconsorzio necessario e pertanto il lavoratore può impugnare il trasferimento sia nei confronti di entrambi che nei confronti del solo cedente145. La sentenza pronunciata nei confronti del solo cedente, infatti, ha efficacia anche nei confronti del cessionario che è successore a titolo particolare ex art. 111, 4 comma, c.p.c146.

Strettamente connessa alla facoltà del lavoratore di impugnare l’atto di trasferimento è la tematica relativa alla sussistenza in capo ai

144G. PERDONÀ, La cessione d’azienda e i diritti dei lavoratori, Giuffrè, Milano, 2016.

145In particolare, è stato affermato che «ai sensi dell'art. 2112 c.c., in mancanza del consenso del lavoratore e dell'intervento delle associazioni sindacali, permane la legittimazione passiva dell'impresa cedente in ordine ai rapporti di lavoro ceduti», così Pret. Milano, 19 maggio 1983.

146Cosi Cass., 8 giugno 2009, n. 13171 e Cass., 29 novembre 2005, n. 25952 «il trasferimento di un ramo d'azienda da una società all'altra configura una successione a titolo particolare nei rapporti preesistenti che, sul piano processuale, determina una prosecuzione del processo in corso tra le parti originarie, ai sensi dell'art. 111 c.p.c.; non sussiste invece un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra cedente ed acquirente, in quanto il vincolo di solidarietà per i crediti del lavoratore, che l'art. 2112 c.c. pone a carico del cedente, non dà luogo a litisconsorzio necessario. Tuttavia, poiché la sentenza pronunciata contro il cedente spiega sempre i suoi effetti contro il successore a titolo particolare, l'art. 111, comma 4, c.p.c., espressamente dispone che la sentenza può essere impugnata anche dal successore».

lavoratori trasferiti di un vero e proprio interesse ad agire147nel caso in cui, per effetto del trasferimento, gli stessi lavoratori abbiano continuato a conservare gli stessi trattamenti economici e normativi senza peggioramento alcuno delle loro precedenti condizioni lavorative.

Sul punto, una certa giurisprudenza ha affermato che «il lavoratore appartenente al ramo d’azienda ceduto, nell’impugnare la cessione, ha l’onere di dimostrare la sussistenza di un pregiudizio economico e/o retributivo concreto al momento dell’intervenuta cessione, non potendosi fare riferimento ad una ipotetica e futura situazione aziendale. Qualora non risulti provata alcuna difformità sostanziale del rapporto con la cessionaria rispetto a quello intercorso con la cedente, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per mancanza dell’interesse ad agire»148.

A tale orientamento se ne contrappone tuttavia un altro, allo stato maggioritario, che ritiene invece che l’interesse ad agire in capo ai lavoratori trasferiti sussista anche laddove i lavoratori trasferititi non subiscano alcun peggioramento delle condizioni di lavoro. Secondo

147Secondo Cass., 20 giugno 1983, n. 4220 «l’interesse ad agire, in termini generali, costituendo una condizione per far valere il diritto sotteso mediante l’azione, si identifica nell’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice».

148Ancora Trib. Milano n. 18 marzo 2009, conf. Trib. Torino, 4 novembre 2009, che in una fattispecie relativa ad un trasferimento d’azienda ha affermato che «l’interesse ad agire in giudizio, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., deve essere dimostrato dall’attore tenuto a provare la necessità del ricorso per evitare la lesione attuale di un suo diritto. (…) nella controversia in esame la ricorrente ha presentato ricorso per far dichiarare ex art. 1418 c.c. la nullità della cessione di ramo d’azienda, attuata in violazione dell’art. 2112 c.c. per l’inesistenza del ramo ceduto e la violazione dell’art. 1406 c.c. per la diversa fattispecie di cessione dei singoli contratti, attuata in difetto di consenso alla cessione da parte della lavoratrice ceduta. Posto che, ai sensi dell’art. 1421 c.c. l’azione di nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse, nel caso di specie tale ricorso è inammissibile poiché la lavoratrice non ha provato la lesione attuale di un suo diritto e neppure la possibilità di un danno ingiusto, limitandosi a far coincidere l’interesse ad agire con quello alla caducazione

tale orientamento «il cambiamento dell’imprenditore è percepito anche a livello del diritto dell’Unione come evento idoneo a pregiudicare, sul piano stesso della probabilità, del rischio, il mantenimento dei diritti dei lavoratori, mantenimento ragionevolmente correlato all’individualità del soggetto imprenditoriale.

Le qualità del datore di lavoro, reali o supposte, in ogni caso dotate di un nucleo di prevalente oggettività, non sono indifferenti per il prestatore – che un giorno ebbe a sceglierlo, magari tra altri – e pertanto egli, a fronte della subita modificazione della titolarità datoriale nelle forme dell’art. 2112 c.c., può contestarne la legittimità, opporvisi, pur accettando l’eventuale rischio di un licenziamento collettivo per ragioni economiche. L’interesse all’individuazione del proprio reale datore di lavoro, come l’interesse al mantenimento della propria libera scelta originaria, su base consensualistica, è dunque valore giuridico, di diritto positivo, meritevole di tutela, che pienamente supera l’argine all’esercizio dell’azione rappresentato dall’interesse ad agire. E quell’interesse non può essere sindacato, limitato da valutazioni soggettive contrapposte. Del resto è notorio che l’interesse ad agire giochi un ruolo processuale essenzialmente nella tutela di mero accertamento, in funzione di indispensabile filtro contro iniziative inutili, se non vessatorie, nell’ambito di una tutela finalizzata alla rimozione di una situazione di incertezza, concreta ed attuale. Nel caso oggetto della nostra attenzione, invero, non sussiste alcuna incertezza in ordine all’assetto giuridico impresso alla titolarità del rapporto di lavoro da parte del datore con l’accordo del nuovo datore, sussistendo invece la precisa volontà del lavoratore, dei singoli lavoratori, demolitoria di quell’assetto, della quale la tutela di accertamento costituisce mero antecedente logico-giuridico al fine

superandosi, dunque, qualsiasi dubbio di ammissibilità tradizionalmente proprio di una logica di mero accertamento. Se il diritto sostanziale consente di riconoscere il diritto di opposizione del lavoratore ceduto, con la conseguenza condannatorio-costitutiva predetta, la tutela di questo diritto non può esser filtrata in fin dei conti da alcun interesse ad agire di natura processuale, ma discende direttamente ex art. 24, co. 1, Cost.»149.

149Così Trib. Siena, 14 aprile 2015. In senso conforme, si veda Cass., 26 maggio 2014, n. 11721 «su tale premessa si è andato consolidando, dunque, l'orientamento di questa Corte per il quale, in ipotesi di trasferimento di ramo d'azienda, sussiste l'interesse ad agire del lavoratore, stante l'incertezza oggettiva sull'esistenza di un rapporto giuridico, non eliminabile senza l'intervento di un giudice, tale da arrecare all'interessato un pregiudizio concreto ed attuale che ben può ravvisarsi nel mutamento del datore di lavoro, ed in sostanza nel rapporto di lavoro medesimo, rilevando altresì per il creditore anche la consistenza patrimoniale dell'impresa debitrice (in termini, Cass., n. 21710 del 2012; n. 21771 del 2012). Si è anche evidenziato l'interesse dei lavoratori a non vedersi pregiudicati da operazioni economiche che prescindono dalla effettività delle esigenze organizzative per perseguire intenti elusivi delle norme (Cass., n. 5678 del 2013). Detto interesse qualificato, che altro non è che il riflesso di quell'originario interesse del creditore a non veder mutata, nel rapporto obbligatorio di cui è parte, la persona del debitore della prestazione senza consenso (principio espresso nell'art. 2740 c.c., art. 1268 c.c., comma 1, art. 1272 c.c., comma 1, art. 1273 c.c., comma 1, art. 1406 c.c.), ha trovato nella materia che ci occupa successiva conferma nella L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c), che sottopone a termini di decadenza stragiudiziale e giudiziale l'impugnazione della "cessione del contratto avvenuta ai sensi dell'art. 2112 c.c. con termine decorrente dalla data del trasferimento". Sicché non è possibile configurare un termine di decadenza per un'azione inammissibile per mancanza dell'interesse ad agire». Tra le altre, Cass., 30 luglio 2014, n. 17381,

CAPITOLO IV – LA PROCEDURA SINDACALE NEL