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I rapporti di lavoro nell’ambito dei processi didecentramento produttivo: dal caso MPS al caso Alitalia-CAI e Alitalia-Etihad

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Academic year: 2021

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Coordinatore: Chiar.mo Prof. Giuseppe Melis

I rapporti di lavoro nell’ambito dei processi di decentramento produttivo:

dal caso MPS al caso Alitalia-CAI e Alitalia-Etihad

Candidato: Tutor:

Dott.ssa Chiar.mo Prof.

Tiffany D’Ottavio Roberto Pessi

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I rapporti di lavoro nell’ambito dei processi di decentramento produttivo:

dal caso MPS al caso Alitalia-CAI e Alitalia-Etihad

INDICE

INTRODUZIONE ... 1

CAPITOLO I – IL TRASFERIMENTO D’AZIENDA E DI RAMO D’AZIENDA... 5

1. Una breve panoramica sull’art. 2112 c.c. ... 5

2. Le direttive dell’Unione Europea sul trasferimento d’azienda... 9

3. L’evoluzione normativa dell’art. 2112 c.c... 12

4. Il trasferimento d’azienda... 16

5. La nozione giuslavoristica di ramo d’azienda ... 19

5.1. L’autonomia funzionale del ramo d’azienda... 23

5.2. La preesistenza del ramo d’azienda ... 34

6. Il trasferimento del ramo d’azienda “back-office” da Monte dei Paschi di Siena a Fruendo ... 40

6.1. La giurisprudenza sul trasferimento del ramo d’azienda “back- office” da Monte dei Paschi di Siena a Fruendo... 46

CAPITOLO II – IL TITOLO DEL TRASFERIMENTO ... 61

1. Lo strumento giuridico che legittima il trasferimento d’azienda... 61

2. La fusione, la scissione e il provvedimento amministrativo ... 63

3. La successione nell’appalto ... 68

4. Il cambio di controllo... 74

CAPITOLO III – LE GARANZIE PREVISTE IN FAVORE DEI LAVORATORI IN CASO DI TRASFERIMENTO D’AZIENDA76 1. La continuazione del rapporto di lavoro e il divieto di opposizione .. 76

2. La solidarietà tra cedente e cessionario ... 77

2.1. La solidarietà e il trattamento di fine rapporto... 80

2.2. La liberazione del cedente... 82

3. La sostituzione dei contratti collettivi applicati dal cedente... 82

4. Il divieto di licenziamento motivato dal trasferimento d’azienda e le dimissioni del lavoratore trasferito ... 84

4.1. Le dimissioni dei dirigenti ... 86

5. L’impugnazione del trasferimento d’azienda, l’interesse ad agire e le conseguenze derivanti dal trasferimento d’azienda illegittimo ... 88

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CAPITOLO IV – LA PROCEDURA SINDACALE NEL

TRASFERIMENTO D’AZIENDA ... 94 1. Premessa ... 94 2. Il requisito dimensionale ai fini dell’applicazione della disciplina in

tema di informazione e consultazione sindacale ... 96 3. I soggetti sindacali destinatari dell’informativa ... 97 4. Termini per l’espletamento della procedura di informazione e

consultazione ... 98 5. I contenuti dell’informativa ... 102 6. L’esame congiunto... 105 7. La mancata osservanza da parte del datore di lavoro degli obblighi

previsti dall’art. 47 e le conseguenti sanzioni... 106 CAPITOLO V – IL TRASFERIMENTO D’AZIENDA NELLE

IMPRESE IN CRISI: IL CASO ALITALIA-CAI E ALITALIA- ETIHAD... 111 1. Le vicende circolatorie delle imprese in crisi ... 111 2. Origine ed evoluzione della disciplina europea... 113 3. Il difficile dialogo tra la Corte di Giustizia e il legislatore italiano .. 125 4. L’adeguamento della normativa italiana alla disciplina europea: il

nuovo art. 47 delle Legge n. 428/1990 ... 131 4.1. L’art. 47, comma 4-bis, Legge n. 428/1990: il trasferimento

d’azienda nelle procedure non liquidatorie ... 132 4.2. L’art. 47, comma 5, Legge n. 428/1990: il trasferimento

d’azienda nelle procedure liquidatorie ... 135 4.3. Gli accordi sindacali quale condizione per la disapplicazione

dell’art. 2112 c.c... 143 4.4. Lo stato di crisi aziendale... 148 4.5. Il concordato preventivo con continuità e l’omologazione

dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ... 150 4.6. La procedura di amministrazione straordinaria prima del caso

Alitalia... 156 4.7. Le modifiche introdotte dal legislatore in materia di

amministrazione straordinaria in connessione con l’operazione Alitalia - CAI... 162 4.8. L’operazione Alitalia-CAI e la giurisprudenza sulle nuove

norme introdotte sull’amministrazione straordinaria ... 170 4.9. Il caso Alitalia-Etihad e la giurisprudenza sull’applicazione

dell’art. 47, comma 4-bis, Legge n. 428/1990 ... 182 CONCLUSIONI ... 194 BIBLIOGRAFIA... 197

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INTRODUZIONE

Il modello di impresa che per lungo tempo ha dominato la scena mondiale è stato quello di tipo fordista. L’impresa era caratterizzata dalla produzione di massa ed era concepita e strutturata per assicurare l’integralità del processo produttivo in un unico edificio: da una porta entravano le materie prime, dall’altra usciva il prodotto finito. É solo verso la fine degli anni 80 che si iniziano ad avvertire i limiti di tale modello. L’esigenza di disporre di strutture più flessibili, competitive e orientate all’innovazione, ha determinato una profonda razionalizzazione della struttura organizzativa dell’impresa.

Oggi l’impresa post-fordista si presenta come una struttura leggera, orientata alla produttività, all’economicità e alla flessibilità: da una parte concentra il proprio core business in quelle attività specifiche che ne costituiscono il differenziale competitivo; dall’altra, decentra le attività complementari del proprio processo produttivo, affidandole a terzi attraverso contratti che le consentono di procurarsi i fattori produttivi necessari alla realizzazione del prodotto finito.

Le espressioni utilizzate dagli addetti ai lavori per spiegare questo fenomeno sono diverse: decentramento produttivo, esternalizzazione, outsourcing, terziarizzazione. Sebbene vi sia un diffuso consenso nel ritenere che si tratti per lo più di sinonimi, il decentramento produttivo viene generalmente inteso come la scelta imprenditoriale orientata al

“comprare” piuttosto che al “fare”, mentre i termini esternalizzazione, outsourcing e terziarizzazione sono piuttosto indicativi degli strumenti tecnico-giuridici attraverso cui tale strategia organizzativa viene attuata1.

1In dottrina è stato osservato che «dinanzi l’alternativa tra “make” or “buy”, ossia

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Questa complessa frammentazione del processo produttivo ha evidente ricadute sul diritto del lavoro che, negli anni, è stato chiamato a contemperare l’esigenza di non penalizzare aprioristicamente le operazioni di riorganizzazione del sistema produttivo con l’obiettivo di tutela dei lavoratori coinvolti.

Infatti, quando un’impresa intende dismettere un segmento della propria attività, la scelta è stringente, soprattutto se l’impresa è sottoposta ad una procedura concorsuale: (i) cessare quell’attività, con conseguente soppressione dei posti di lavoro; oppure (ii) cedere il settore a terzi affinché proseguano la stessa attività anche a favore del medesimo cedente, attraverso un contratto d’appalto.

Nel primo caso si tratterà di valutare se, e in che misura, la dismissione del segmento dia luogo a soppressione di posti di lavoro cui conseguono licenziamenti individuali o collettivi. Nel secondo caso, sarà invece necessario valutare se il segmento ceduto configuri un ramo d’azienda e se, di conseguenza, l’operazione integri gli estremi di un trasferimento di ramo d’azienda.

La possibilità di ricondurre una determinata fattispecie concreta alla disciplina del trasferimento di ramo d’azienda è di particolare importanza, in relazione soprattutto alle diverse implicazioni di carattere giuslavoristico previste dall’art. 2112 c.c.

il comprare, ossia acquisire da terzi, mediante contratti commerciali di vario tipo, il prodotto, il semilavorato o il servizio corrispondenti ad alcuni segmenti della complessiva lavorazione che porta alla luce il prodotto finito», la scelta dell’imprenditore - «lecita manifestazione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.» - di «orientarsi verso il “buy”» è dettata da «un criterio di efficienza, in quanto si confida nella specializzazione dell’impresa esterna relativamente ad una fase ben definita del processo produttivo, che verosimilmente di tale impresa esterna costituirà il core business», così E. BARACCO, Un nuovo oggetto di disciplina per l’art. 2112 c.c.: dal ramo d’azienda all’articolazione funzionalmente autonoma, in Riv. it. dir. lav., 2006.

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Tale norma - oggetto di diverse modifiche legislative susseguitesi negli anni, anche per effetto dell’intervento del legislatore europeo - prevede che, qualora il complesso di beni e rapporti oggetto del trasferimento sia giuridicamente qualificabile come ramo d’azienda, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario automaticamente e senza soluzione di continuità.

Proprio in virtù delle diverse conseguenze derivanti dalla configurabilità o meno di un trasferimento d’azienda di ramo d’azienda, è evidente come sia di fondamentale importanza individuare i requisiti che qualificano tale ramo.

Punto partenza del presente lavoro non può che essere rappresentato dall’analisi dell’art. 2112 c.c. e la sua evoluzione nel tempo, tenendo soprattutto conto dell’impatto del legislatore europeo nella disciplina del trasferimento d’azienda.

L’attenzione si concentrerà altresì sul variegato panorama giurisprudenziale, sia nazionale che europeo. Sul punto si avrà modo di vedere che l’identificazione dei requisiti che qualificano il ramo d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c. è questione tutt’altro che pacifica ed è ancora oggetto di una variegata interpretazione giurisprudenziale, tanto a livello nazionale che a livello europeo.

Infine, verranno analizzati alcuni dei più importanti decentramenti produttivi operati negli ultimi anni dalle imprese italiane: (i) il trasferimento del ramo d’azienda “back-office” da Banca Monte dei Paschi di Siena a Fruendo; (ii) il trasferimento dell’intero complesso aziendale di Alitalia-Linee Aeree Italiane (Alitalia-LAI) ad Alitalia- Compagnia Area Italiana (Alitalia-CAI); e (iii) la partnership tra Alitalia-Compagnia Area Italiana (Alitalia-CAI) e la compagnia aerea degli Emirati Arabi Etihad Airways con il conseguente trasferimento

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del complesso aziendale di Alitalia-Compagnia Area Italiana (Alitalia- CAI) ad Alitalia-Società Area Italiana (Alitalia-SAI).

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CAPITOLO I – IL TRASFERIMENTO D’AZIENDA E DI RAMO D’AZIENDA

SOMMARIO: 1. Una breve panoramica sull’art. 2112 c.c.; 2. Le direttive dell’Unione Europea sul trasferimento d’azienda; 3. L’evoluzione normativa dell’art. 2112 c.c.;

4. Il trasferimento d’azienda; 5. La nozione giuslavoristica di ramo d’azienda; 5.1.

L’autonomia funzionale del ramo d’azienda; 5.2. La preesistenza del ramo d’azienda; 6. Il trasferimento del ramo d’azienda “back-office” da Monte dei Paschi di Siena a Fruendo; 6.1. La giurisprudenza sul trasferimento del ramo d’azienda

“back-office” da Monte dei Paschi di Siena a Fruendo.

1. UNA BREVE PANORAMICA SULLART. 2112C.C.

La disciplina dei rapporti di lavoro in caso di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda è stabilita dall’art. 2112 c.c. rubricato

«mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda».

Nella versione attuale, il primo comma dell’art. 2112 c.c. sancisce il principio secondo cui, in caso in caso di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, il rapporto di lavoro continua senza soluzioni di continuità con il cessionario.

Nell’ipotesi di trasferimento d’azienda o di ramo si realizza pertanto una modifica soggettiva del rapporto di lavoro, e cioè, una successione a titolo particolare del cessionario nel rapporto di lavoro.

Il cessionario subentra nella titolarità dei rapporti di lavoro per legge, sostituendosi automaticamente all’originario datore di lavoro, senza che assuma alcuna rilevanza il consenso dei lavoratori interessati al trasferimento o il loro eventuale dissenso a passare alle dipendenze del cessionario2.

2Tale principio introduce una significativa deroga alla disciplina di cui all’art. 1406 c.c. secondo cui la cessione di un contratto richiede sempre il preventivo consenso

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Come si avrà modo di analizzare più in dettaglio, l’art. 2112 c.c. è stato oggetto di numerose modifiche in ragione della necessità di adeguare la normativa nazionale a quella europea, anche tenendo conto dei sempre più frequenti processi di decentramento produttivo che da diversi anni hanno determinato una profonda razionalizzazione della struttura organizzativa dell’impresa.

Le modifiche legislative hanno radicalmente cambiato la ratio ispiratrice dell’art. 2112 c.c., introdotto con l’entrata in vigore del codice civile e rimasto immutato fino al 1990, e dunque per quasi cinquant’anni.

Se la ratio originaria dell’art. 2112 c.c. era essenzialmente la salvaguardia dell’integrità funzionale dell’impresa, a seguito dei numero interventi legislativi, la ratio della norma ora pare volta anche a garantire la salvaguardia dei diritti dei lavoratori coinvolti nel trasferimento d’azienda.

L’art. 2112 c.c., nella sua originaria formulazione del 1942, prevedeva che «in caso di trasferimento dell’azienda, se l’alienante non ha dato disdetta in tempo utile, il contratto di lavoro continua con l’acquirente, e il prestatore di lavoro conserva i diritti derivanti dall’anzianità raggiunta anteriormente al trasferimento».

In sostanza, già nel 1942 l’art. 2112 c.c. sanciva l’automatico trasferimento dei rapporti di lavoro in capo al cessionario ma, in considerazione del principio della libera recedibilità dal rapporto di lavoro all’epoca vigente, al cedente era espressamente attribuita la facoltà di recedere dal rapporto di lavoro impedendo il trasferimento di alcuni o tutti i rapporti di lavoro al cessionario. Analoga facoltà era ovviamente attribuita anche al cessionario a seguito del trasferimento

derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l’altra parte vi consenta»).

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d’azienda o di ramo d’azienda.

Lo scopo principale della norma era dunque quello di garantire che al cessionario fosse trasferita un’azienda, e cioè un complesso di beni e di persone, autonomo e funzionante, ferma restando la libera recedibilità dal rapporto di lavoro in favore del cedente e del cessionario.

L’unica garanzia in favore dei lavoratori era sancita dal secondo comma dell’art. 2112 c.c. che prevedeva un regime di solidarietà tra cedente e cessionario per tutti i crediti che i lavoratori avevano al momento del trasferimento (ivi quelli connessi al licenziamento), purché di tali crediti il cessionario ne avesse avuto conoscenza o comunque risultassero dalle scritture contabili o dai libri del lavoro.

Tale garanzia, come si avrà modo di vedere, era ben inferiore rispetto a quella attualmente prevista dall’art. 2112 c.c. laddove, invece, il cessionario è solidalmente responsabile per tutti i crediti di lavoro, a prescindere dal fatto che ne sia a conoscenza al momento del trasferimento o che tali crediti risultino da scritture contabili o libri del lavoro.

È solo negli anni 60, con l’entrata in vigore della Legge 15 luglio 1966, n. 604 sulla disciplina dei licenziamenti individuali che ha introdotto il principio di giustificazione del licenziamento3, che anche la ratio dell’art. 2112 c.c. è mutata diventando maggiormente protettiva nei confronti dei lavoratori. Pertanto, il mero trasferimento d’azienda o di ramo, come poi la giurisprudenza4ha avuto modo di

3La regola della libertà di recesso è stata abbandonata con l’emanazione di tale legge che ha rappresentato il primo intervento legislativo volto a definire un’organica disciplina limitativa dei licenziamenti. Il nucleo centrale di tale disciplina è rappresentato dalla previsione per cui la legittimità del licenziamento è subordinata alla ricorrenza di una giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o di un giustificato motivo (oggettivo o soggettivo).

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affermare e il legislatore di recepire, non possono costituire motivo di licenziamento di per sé dei lavoratori coinvolti nel trasferimento.

La salvaguardia dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda è stato poi successivamente potenziata grazie all’intervento del legislatore comunitario (oggi europeo) che, come si avrà modo di analizzare di seguito, ha emanato tre direttive sul tema: la Direttiva n.

187 del 1977, la Direttiva n. 50 del 1998 e poi, per finire, la Direttiva n. 23 del 2001.

È proprio grazie all’introduzione della Legge n. 604/1966 e poi della Legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei Lavoratori) in tema di licenziamenti individuali, e sotto la spinta del legislatore comunitario che, tanto la dottrina che la giurisprudenza, hanno per molto tempo (e cioè fino alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18 che ha attuato la Direttiva n. 50 del 1998) sopperito alle mancanze del legislatore, tentando di risolvere problematiche estremamente complesse connesse al trasferimento d’azienda e all’individuazione del ramo d’azienda, anche tenendo conto del fatto che l’art. 2112 c.c.

doveva applicarsi ad un contesto storico ed economico ben diverso da quello del 1942, dove i processi di esternalizzazione dell’impresa non

testo vigente prima dell'entrata in vigore dell'art. 47 l. 29 dicembre 1990 n. 428), qualora il datore di lavoro abbia intimato al lavoratore la disdetta "in tempo utile" - e cioè nel termine previsto da altre disposizioni, eventualmente anche di carattere pattizio - si realizza una ipotesi di licenziamento soggetto alla disciplina di cui alle leggi 15 luglio 1966 n. 604 e 20 maggio 1970 n. 300, licenziamento che, ai sensi dell'art. 1 della legge n. 604 del 1966 cit. deve essere fondato su un giustificato motivo (quale può essere quello dell'impossibilità di alienare l'azienda senza licenziare tutti o una parte dei dipendenti) e che deve essere impugnato ai sensi dell'art. 6 della legge da ultimo citata; nel caso in cui la disdetta sia stata intimata senza rispettare il termine suddetto, si realizza invece una prosecuzione automatica del rapporto di lavoro, con successione dell'acquirente dell'azienda all'alienante nella posizione di datore di lavoro; in tale ipotesi, non trovando applicazione la citata normativa sui licenziamenti individuali, non sussiste alcun onere di impugnazione a carico del lavoratore il quale può, in caso di contestazione, ottenere dal giudice, previa disapplicazione dell'atto di disdetta invalido, la declaratoria del proprio diritto alla permanenza nel posto di lavoro e l'eventuale condanna del datore di lavoro acquirente al pagamento delle retribuzioni non corrisposte».

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erano più fenomeni isolati, bensì fenomeni necessari derivanti dalle mutate esigenze di un mercato pressoché globalizzato.

2. LE DIRETTIVE DELL’UNIONE EUROPEA SUL TRASFERIMENTO DAZIENDA

La prima Direttiva sul «mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, stabilimenti e di parti di stabilimenti»

risale al 14 febbraio 1977 (Direttiva 77/187/CEE) e trova fondamento nell’art. 100 del Trattato di Roma (oggi art. 115 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea5).

La Direttiva, come si legge nel preambolo, viene adottata per

«proteggere i lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore, in particolare per assicurare il mantenimento dei loro diritti» e perché le diverse discipline previste dagli Stati membri «per quanto riguarda l’entità della protezione dei lavoratori (…) possono ripercuotersi direttamente sul funzionamento del mercato comune».

L’obiettivo del legislatore comunitario è di prevedere maggiori garanzie in favore dei lavoratori coinvolti in un trasferimento d’azienda, ma al tempo stesso, evitare i possibili fenomeni di dumping sociale e tutelare uno dei pilastri più importanti dell’ordinamento comunitario, vale a dire la concorrenza6.

5 L’art. 115 prevede che «il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale, stabilisce direttive volte al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che abbiano un'incidenza diretta sull'instaurazione o sul funzionamento del mercato interno».

6Peraltro l’obiettivo della Comunità Economica Europea (oggi Unione Europea), come ripetuto a più riprese della Corte di Giustizia è quello di «impedire che la ristrutturazione nell’ambito del mercato comune si effettui a danno dei lavoratori delle imprese coinvolte» (così, Corte di Giustizia, 7 febbraio 1985, C-135/83 (Abels), e di «garantire la salvaguardia dei diritti dei lavoratori in caso di cambiamento di datore di lavoro, consentendo loro di rimanere alle dipendenze del cessionario nella stessa situazione convenuta con il cedente» (così Corte di

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La Direttiva n. 187 del 1977 è stata rivisitata dalla successiva Direttiva del 29 giugno 1998 (Direttiva 98/50/CE)7 e poi abrogata dalla Direttiva del 12 marzo 2001 (Direttiva 2001/23/CE) che ha riorganizzato l’intera disciplina.

I principi fondamentali dettati dall’attuale Direttiva che verranno più approfondimenti analizzati nei paragrafi e capitoli successivi sono principalmente i seguenti:

(i) in ordine al campo di applicazione (art. 1), la Direttiva si applica ai trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parte di imprese o di stabilimenti ad un nuovo imprenditore, a seguito di cessione o fusione contrattuale. Soggette alla Direttiva sono tutte le imprese, private o pubbliche, che esercitano un’attività economica a prescindere dal perseguimento di uno scopo di lucro. L’oggetto del trasferimento deve essere «un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria8»;

(ii) sul piano individuale, le norma cardine è quella di cui all’art. 3

7Rilevante è il richiamo del considerando (1) della Direttiva alla carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori adottata il 9 dicembre 1989 che nei punti 7, 17 e 18 dispone che «la realizzazione del mercato interno deve portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella Comunità Europea». Inoltre, nel considerando (3) è specificato che l’obiettivo della Direttiva è di rivedere la Direttiva 77/187/CEE alla luce dell’impatto del mercato interno, delle tendenze legislative degli Stati membri per quanto riguardo il salvataggio delle imprese in difficoltà economiche, della giurisprudenza della Corte di Giustizia.

8L’art. 1 della Direttiva 77/187/CEE si limitava a stabilire che la Direttiva doveva applicarsi ai trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti ad un nuovo imprenditore, a seguito di cessione contrattuale o fusione.

In considerazione delle diverse interpretazioni fornite alla nozione giuridica di trasferimento d’azienda la Direttiva 98/50/CE ha voluto definire dettagliatamente l’oggetto del trasferimento («considerando che la sicurezza e la trasparenza giuridiche esigono un chiarimento della nozione giuridica di trasferimento alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia; che tale chiarimento non modifica la sfera di applicazione della Direttiva 77/187 quale interpretata dalla Corte di Giustizia», cfr. considerando (4) della Direttiva).

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che prevede che il trasferimento di impresa comporta il trasferimento, ipso iure, dal cedente al cessionario delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro, vale a dire la continuazione dei rapporti di lavoro con il cessionario. Altre norme fondamentali riguardano la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti che i lavoratori avevano alla data del trasferimento (art. 3), o il principio secondo cui il trasferimento d’azienda non può costituire di per sé motivo di licenziamento (art. 4);

(iii) sul piano collettivo, va segnalata soprattutto la procedura di informazione e consultazione sindacale (art. 7) quale strumento di tutela concorrente delle posizioni dei lavoratori coinvolti nel trasferimento. La Direttiva prevede, infatti, l’obbligo per il cedente e il cessionario d’informare in tempo utile i rappresentanti dei rispettivi lavoratori fornendo una serie di informazioni circa il trasferimento d’azienda ipotizzato (i.e.

la data e il motivo del trasferimento, le conseguenze giuridiche ed economiche derivanti dal trasferimento per i lavoratori);

(iv) sul piano statale, la possibilità degli Stati membri di non applicare gli artt. 3 e 4 della Direttiva e dunque di derogare in particolare all’importante principio dell’automatica continuazione dei rapporti di lavoro nel caso in cui il cedente sia soggetto ad un procedura concorsuale con finalità liquidatoria (art. 5)9.

9Tale disciplina è stata introdotta dalla Direttiva 98/50/CE (il considerando (7) dispone che «al fine di garantire la sopravvivenza di imprese insolventi, gli Stati membri dovrebbero essere autorizzati espressamente a non applicare gli artt. 3 e 4 della Direttiva 77/187/CEE ai trasferimenti effettuati nell’ambito di una procedura di liquidazione, e che talune deroghe alle disposizioni della suddetta attività dovrebbero essere autorizzate in caso di trasferimenti effettuati nell’ambito di

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La suddette direttive, come si avrà modo di vedere, sono state oggetto nel corso degli anni di interpretazioni tutt’altro che uniformi, anche da parte del legislatore e della giurisprudenza italiana, soprattutto quando si è trattato di specificare e delimitare il relativo campo di applicazione. In tal senso, ha avuto un ruolo fondamentale la giurisprudenza della Corte di Giustizia che, in certi casi, ha elaborato principi che sono stati solo successivamente recepiti dal legislatore comunitario.

3. L’EVOLUZIONE NORMATIVA DELLART. 2112C.C.

Per quasi cinquant’anni (1942-1990) la disciplina prevista dall’art.

2112 c.c. è rimasta immutata.

È solo a seguito di una condanna da parte della Corte di Giustizia10 che il legislatore italiano ha recepito (con ben 13 anni di ritardo) la Direttiva 77/87/CEE sul mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento.

Con l’art. 47 della Legge 29 dicembre 1990, n. 428 il legislatore italiano ha innanzitutto codificato l’orientamento giurisprudenziale italiano - già previsto anche nella Direttiva - secondo cui il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento11.

La solidarietà tra cedente e cessionario si estende a tutti i crediti dei lavoratori al momento del trasferimento, e dunque a prescindere dal fatto tali crediti risultino dalle scrittura contabili del cedente o che cessionario ne sia a conoscenza al momento del trasferimento. È peraltro espressamente prevista la possibilità di liberare il cedente dalle obbligazioni derivante dal rapporto di lavoro sottoscrivendo una

10Cfr. Corte di Giustizia, 10 luglio 1986, n. 235, C-235/84.

11Per un’analisi dell’influenza della Direttiva 77/187/CEE nelle more della sua tardiva attuazione da parte dell’Italia, si veda V. BUONAJUTO, Il trasferimento d’azienda e del lavoratore, Cedam, 1993.

(17)

transazione presso le sedi protette identificate dagli artt. 410 e 411 c.p.c.

Viene introdotta anche una procedura di informazione e consultazione sindacale da esperire prima del trasferimento d’azienda, così come viene data la possibilità al cedente, al cessionario e alla rappresentanze sindacali di poter disporre delle tutele di cui all’art. 2112 c.c. nel caso in cui la società cedente sia oggetto di una procedura concorsuale.

L’obiettivo della nuova disciplina è dunque di tutelare i lavoratori non sul piano individuale ma anche su quello collettivo, posto che le organizzazioni sindacali sono chiamate ad esercitare un controllo sull’operazione di trasferimento e sulle conseguenze che tale operazione comporta nei confronti dei lavoratori.

Anche sulla disciplina del rapporto di lavoro, il legislatore prescrive l’obbligo di mantenere in forza i contratti collettivi applicati dal cedente fino alla loro scadenza, salvo che non siano sostituti dai contratti collettivi applicati dal cessionario.

Complessivamente il legislatore italiano, nel recepire la Direttiva e gli orientamenti della giurisprudenza e della dottrina, appresta tutta una serie di garanzie nei confronti dei lavoratori interessati al trasferimento d’azienda.

L’unico punto lasciato scoperto dalla normativa del 1990 riguarda invece la definizione del trasferimento d’azienda e di ramo d’azienda:

anche in questo caso, come nel passato, è stato determinante il contributo della giurisprudenza e la dottrina che, anche in base agli orientamenti della Corte di Giustizia, hanno contribuito a colmare il vuoto.

L’art. 2112 c.c. è stato successivamente novellato a seguire dell’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18 che ha dato attuazione alla Direttiva 98/50/CE.

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c.c.: se fino al 1990 l’art. 2112 c.c. è rubricato “trasferimento d’azienda”, con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 18/2001, la rubrica diventa “mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda12”.

Il D.Lgs. n. 18/2001 introduce poi per la prima volta la nozione di trasferimento d’azienda che viene definita come «qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento é attuato, ivi compresi l'usufrutto o l'affitto d'azienda».

Altra novità rilevante è stata quella di specificare che tutta la disciplina del trasferimento d’azienda e le relative garanzie in favore dei lavoratori devono applicarsi anche «al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata (…), preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità».

Il legislatore dunque recepisce gli orientamenti della giurisprudenza secondo cui la disciplina dell’art. 2112 c.c. trova applicazione anche nell’ipotesi in cui l’oggetto del trasferimento non è l’intero complesso aziendale ma solo una parte di esso.

Il D.Lgs. n. 18/2001 ha inoltre precisato che la sostituzione dei contratti collettivi applicati dal cedente con quelli applicati dal cessionario può avvenire solo tra contratti dello stesso livello.

12La modifica della rubrica dell’art. 2112 c.c. è dovuta all’influenza del legislatore comunitario: la Direttiva 98/50/CE è infatti rubricata “Direttiva 98/50/CE del Consiglio del 29 giugno 1998 che modifica la Direttiva 77/187/CEE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti”.

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Il legislatore ha poi attribuito ai lavoratori le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, la facoltà di rassegnare le dimissioni ai sensi dell’art. 2119 c.c., e dunque per giusta causa.

Successivamente, con il D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. Legge Biagi), il legislatore è intervenuto nuovamente sull’art. 2112 c.c.

La vera novità introdotta dal legislatore italiano non è frutto delle direttive comunitarie ma è la risposta alle varie istanze provenienti dal mondo imprenditoriale che chiedevano una maggiore flessibilizzazione dello strumento. Proprio per tale ragione, nella nozione di ramo d’azienda viene eliminato il requisito della

“preesistenza”. Il ramo d’azienda è ancora oggi definito come

«articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

Come si avrà modo di vedere più avanti, è proprio sui requisiti necessari per la configurabilità del ramo d’azienda che si sono concentrata sia la dottrina che la giurisprudenza, arrivando a conclusioni non solo contrastanti ma anche non del tutto conformi ai principi della giurisprudenza europea.

Infine, il D.Lgs. n. 276/2003, aggiunge un ulteriore comma all’art.

2112 c.c. che disciplina il caso in cui a seguito della cessione di un ramo d’azienda venga successivamente stipulato tra cedente e cessionario un contratto d’appalto con cui il cedente reinternalizza i servizi oggetto della precedente cessione. In tal caso, il legislatore precisa che opera il regime di solidarietà tra cedente e cessionario previsto dall’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/200313.

13Il comma 2 del D.Lgs. n. 276/2003 prescrive che «in caso di appalto di opere o di

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4. IL TRASFERIMENTO DAZIENDA

Prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 18/2001 non esisteva una nozione di “azienda” ai sensi dell’art. 2112 c.c., e dottrina e giurisprudenza per individuare l’oggetto del trasferimento avevano fatto riferimento alla nozione contenuta nell’art. 2555 c.c.14e ai vari orientamenti della dottrina commercialistica dell’epoca. Occorre in ogni caso sottolineare che, sin dall’entrata in vigore del codice civile nel 1942, sulla nozione di azienda e impresa sono state date interpretazioni diverse - persino contrastanti - che non hanno certamente aiutato la dottrina giuslavoristica ad individuare l’oggetto del trasferimento d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c. In particolare, secondo un primo orientamento, azienda e impresa sono due elementi inseparabili e imprescindibili15, il primo oggettivo e statico, il secondo soggettivo e dinamico, ma in ogni caso entrambi necessari ai fini

l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento».

14L’art. 2555 c.c. dispone che «l'azienda è il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa».

15L. MOSSA, Sulle nuove posizioni del diritto commerciale, Riv. dir. comm., 1992, F.

SANTORO PASSARELLI, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Riv. dir.

comm., 1942, G. SANTORO PASSARELLI, Diritto e Processo del lavoro e della previdenza sociale, UTET, 2017, G. SANTORO PASSARELLI, Trasferimento d’azienda e rapporto di lavoro, Giappichelli, 2004, secondo cui «nelle vicende del trasferimento le due componenti fondamentali dell’azienda-impresa, attività e organizzazione, devono necessariamente coesistere. Ne discende, come corollario di questa tesi che il trasferimento d’azienda comporta necessariamente la sostituzione nell’esercizio dell’impresa dell’acquirente all’alienante, e perciò la continuazione presso il cessionario dell’attività economica esercitata dal cedente. Il secondo orientamento, invece, tiene nettamente distinte impresa e azienda, esercizio dell’attività economica da organizzazione dei beni costituenti l’azienda:

conseguentemente, ammette l’esistenza dell’azienda senza impresa, perciò il trasferimento dell’azienda senza la successione del cessionario nell’impresa del cedente, cioè il trasferimento dell’azienda inerte, ossia del complesso dei beni idonei all’esercizio dell’impresa».

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dell’art. 2082 c.c.16. Secondo un altro orientamento, invece, l’azienda può essere concepita separatamente dall’impresa17.

A seguito delle varie direttive europee e delle modifiche legislative introdotte si è giunti alla conclusione che l’art. 2112 c.c. accoglie una nozione di azienda squisitamente giuslavoristica («ai fini e per gli effetti dell’art. 2112 c.c.»), con l’ovvio corollario che le nozioni di azienda e di trasferimento devono essere interpretate alla luce della ratio e delle finalità perseguite all’art. 2112 c.c., e cioè il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda. L’art. 2112 c.c. può dunque considerarsi come una disposizione sufficientemente autonoma, che non deve essere interpretata in base agli artt. 2082 c.c. o 2555 c.c.18.

Ciò che invece può essere evidenziato che è la Direttiva 98/50/CE (così come la successiva 2001/23/CE) definisce l’azienda come

“entità economica”, intesa «come mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia esse essenziale o necessaria».

Diversamente, l’art. 2112 c.c. definisce l’azienda quale «attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità».

Tre gli elementi che contraddistinguono il trasferimento d’azienda: (ii) l’esistenza di “un’attività economica organizzata”; (ii) l’irrilevanza della presenza o meno di uno scopo di lucro; (iii) la preesistenza del

16L’art. 2082 c.c definisce l’imprenditore come chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi

17G. SANTORO PASSARELLI, Diritto e Processo del lavoro e della previdenza sociale, op. cit., G. SANTORO PASSARELLI, Trasferimento d’azienda e rapporto di lavoro, op. cit., A. ASQUINI, Sulle nuove concezioni del diritto commerciale, Riv.

dir. comm., 1942, F. GALGANO, L’imprenditore, Zanichelli, 1994, G.E. COLOMBO, L’azienda e il suo trasferimento, Tratt. Galgano, Padova, 1979.

18Cfr. R. DE LUCA TAMAJO - M. T. SALIMBENI, Il trasferimento d’azienda, in Tratt.

di diritto del lavoro (diretto da M. Persiani e F. Carinci), Il mercato del lavoro, (a

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trasferimento e la conservazione dell’identità dopo l’operazione di cessione.

Sulla differenza terminologica tra “entità economica” e “attività economica organizzata” sono stati registrati in dottrina e giurisprudenza due orientamenti diversi. Per il primo orientamento, il legislatore italiano utilizza la nozione di “attività economica organizzata” con la precisa volontà di «escludere proprio la rilevanza di ciò che, invece, caratterizza la nozione di tale entità, vale a dire la sussistenza di un insieme di mezzi19».

L’altro orientamento invece attribuisce alla differenza terminologica un’importanza marginale, l’art. 2112 c.c. presupporrebbe in ogni caso il passaggio di un complesso di beni organizzati, escludendo che tale disciplina possa ritenersi applicabile nel caso di un insieme di rapporti di lavoro funzionalmente collegati alla realizzazione di un’attività produttiva20.

A tal fine, assume particolare importanza la giurisprudenza della Corte di Giustizia che, come si avrà modo di analizzare più approfonditamente nei paragrafi che seguono, ha affermato a più riprese che il trasferimento d’azienda si configura anche quando l’attività esercitata del cedente e oggetto di cessione non abbia un substrato materiale ma bensì un gruppo di lavoratori, organizzati al fine di esercitare una determinata attività.

In conclusione, potrebbe ritenersi che, alla differenza terminologica tra la Direttiva e l’art. 2112 c.c. in merito all’oggetto del trasferimento, non corrisponda una sostanziale differenza di significato, dal momento che tanto il diritto interno che quello europeo

19 Cfr. A. MARESCA, Le “novità” del legislatore nazionale in materia di trasferimento d’azienda, Arg. dir. lav., 2001.

20 G. SANTORO PASSARELLI, La nozione di azienda trasferita tra disciplina comunitaria e nuova normativa nazionale, Arg. dir. lav, 2001.

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hanno accolto una nozione dematerializzata di azienda.

5. LA NOZIONE GIUSLAVORISTICA DI RAMO DAZIENDA

Come già è stato accennato, prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n.

18/2001, l’art. 2112 c.c. non conteneva alcun riferimento all’ipotesi di trasferimento di una sola parte dell’azienda.

Ciononostante, sia giurisprudenza che dottrina avevano da sempre ritenuto pacifica la configurabilità di un trasferimento anche di una singola porzione dell’azienda.

La distinzione tra azienda e ramo d’azienda veniva ricercata nella diversa ampiezza delle due nozioni che aveva dunque natura squisitamente quantitativa: il ramo d’azienda doveva possedere, seppur in scala minore, tutte le caratteristiche dell’azienda, e cioè doveva essere «una sorta di piccola azienda in grado di funzionare in modo autonomo e non rappresenti, al contrario, il prodotto dello smembramento di frazioni non autosufficienti e non coordinate tra loro, né una mera espulsione di ciò che si riveli essere pura eccedenza di personale21».

Elementi costitutivi del ramo d’azienda, secondo l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, erano allora considerati la sua

«autonomia organizzativa e funzionale e la sua capacità di realizzare un risultato produttivo e comunque economicamente valutabile, ma separabile dal risultato produttivo dell’azienda; si richiedeva, in altre parole, l’esistenza di una piccola azienda, con autonomia gestionale e amministrativa unita ad indipendenza economico-commerciale ed autonomia del risultato produttivo, escludendosi che l’individuazione

21Cass., 25 ottobre 2002, n. 15105, Cass., 18 maggio 1995, n. 5483, Cass., 17 marzo 1993, n. 3148, Cass., 5 agosto 1998, n. 4845, Cass., 21 novembre 1984, n. 5971, Trib. Genova, 4 novembre 1999, Trib. Genova, 7 settembre 1999. In dottrina, G.

PERA, Movimenti del capitale e libertà dei lavoratori, Riv. it. dir. lav. 1998, S.

CIUCCIOVINO, La nozione di azienda trasferita alla luce dei recenti sviluppi della

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del ramo potesse dipendere dalle determinazioni dell’alienante e dell’acquirente in assenza dei suddetti requisiti oggettivi22».

Secondo la giurisprudenza, la disciplina di cui all’art. 2112 c.c.

doveva ritenersi applicabile «anche nelle ipotesi di cessione di singole unità produttive, purché suscettibili di costituire idoneo e compiuto strumento di impresa», ciascuna dotata di autonomia rispetto alla originaria struttura unitaria, integrando così «gli estremi dell’azienda23».

Successivamente, con il recepimento della Direttiva 98/50/CE, l’art. 1 del D.Lgs. n. 18/2001 riscrivere l’art. 2112 c.c. introducendo una nuova definizione di trasferimento d’azienda ed estendendone espressamente la relativa disciplina anche al trasferimento di una

“parte dell’azienda”, che viene definita come «articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata (…) preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità24». I requisiti necessari per la configurabilità di un trasferimento di ramo di azienda erano: la

“autonomia funzionale” e la “preesistenza” dell’entità trasferita al trasferimento.

Come peraltro sottolineato dalla giurisprudenza, lo scopo dell’introduzione di questi due requisiti era quello di evitare la creazione di rami d’azienda ad hoc, e cioè di rami confezionati al momento del trasferimento e solo in funzione di esso, quale strumento per espellere indirettamente i lavoratori dall’organizzazione del

22Cfr. L. MENEGHINI, L’attuale nozione di ramo d’azienda, in Lav. giur., 2005.

23Cass., 14 dicembre 1998, n. 12554, Cass., 17 marzo 1993, 3148.

24Questa definizione di ramo d’azienda ha suscitato un grande interesse da parte della dottrina e della giurisprudenza proprio in ragione del fatto che la nozione di ramo d’azienda è strettamente connessa con il più ampio fenomeno del decentramento produttivo che nella prassi avviene quasi sempre mediante il trasferimento di ramo d’azienda.

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cedente prescindendo dal consenso25.

All’indomani dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 18/2001, il mondo imprenditoriale riteneva troppo rigida la definizione di ramo d’azienda rispetto all’esigenza di favorire più agilmente la circolazione delle imprese.

Per tale ragione, due anni dopo, il legislatore italiano, in attuazione della Direttiva n. 2001/23/CE, tornava nuovamente sulla definizione di ramo d’azienda, incidendo in modo significativo sulla formulazione letterale della norma.

L’art. 32 della Legge Biagi, infatti, modifica ulteriormente l’art. 2112 c.c., introducendo l’attuale definizione di ramo d’azienda come

«articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

In merito alla modifica appartata dal legislatore, la Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante attuazione delle

25Cass., 4 dicembre 2002, n. 17207 secondo cui «il D. Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, di attuazione della Direttiva n. 98-50, nell’estendere espressamente la disciplina dell’art. 2112 c.c. al trasferimento di “parte dell’azienda” ha dato di quest’ultima una definizione sostanzialmente in linea con i risultati cui era pervenuta la giurisprudenza nazionale. Infatti, “parte di azienda” è, innanzi tutto, una

“articolazione funzionalmente autonoma” dell’attività economica organizzata (in sostanza, un’unità produttiva), dove l’autonomia funzionale riassume le condizioni - di carattere produttivo, gestionale e organizzativo - perché la parte o “ramo” di azienda possa avere una “vita” sua e sia, così, separabile dal complesso aziendale generale. All’autonomia funzionale il legislatore delegato ha poi aggiunto, quale necessario completamento, il requisito della preesistenza del ramo, come tale, nonché quello della conservazione, nel trasferimento della sua identità. Ne resta dunque, confermato il generale principio giurisprudenziale dell’assimilazione tra azienda e parte di azienda, differenziate solo, come ovvio, sotto il profilo quantitativo, sicché resta escluso che un ramo di azienda possa essere disegnato e identificato solo al momento del trasferimento e in esclusiva funzione di esso, con un’operazione strumentale indirizzata all’espulsione, per questa via indiretta, di lavoratori eccedenti, consegnati ad un cessionario che, strettamente legato all’impresa cedente - ancorché vero imprenditore e non semplice interposto di mano d'opera - sarebbe posto in condizione di modificare liberamente le preesistenti condizioni di lavoro (contratti collettivi, condizioni di stabilità del posto di lavoro,

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deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla Legge 14 febbraio 2003, n. 30, specifica che «il riferimento alla necessaria preesistenza del requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda - requisito non previsto dalle fonti comunitarie - richiedendosi semplicemente che tale autonomia - intesa come conservazione, in capo al ramo ceduto, di un minimo di mezzi necessari allo svolgimento dell’attività, sia essa essenziale o accessoria - sia valutata dal cedente e dal cessionario al momento stesso del trasferimento».

Nella stessa Relazione veniva altresì opportunamente precisato che

«con riguardo ai profili di tutela dei lavoratori coinvolti (…)» non avrebbero dovuto avere «(…) ragione di esistere timori di elusione delle tutele» essendo, al contrario, intento del legislatore delegato, quello di «estendere le garanzie di continuità occupazionale a tutti quei casi in cui sarebbe estremamente facile per l’impresa svuotare attraverso le normali procedure di licenziamento i rami non trasferibili in quanto non preventivamente dotati di autonomia funzionale».

Stando dunque alla versione attuale dell’art. 2112 c.c., l’unico requisito indispensabile ai fini della configurabilità di un legittimo e genuino ramo d’azienda è la “autonomia funzionale”

dell’articolazione oggetto di cessione.

Non sembrerebbe invece necessario che il ramo d’azienda sia anche preesistente al trasferimento, potendo invece essere «identificato (…) dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

Come di avrà modo di vedere, nonostante il mutato contesto normativo, tuttavia, una parte - attualmente maggioritaria - della giurisprudenza continua a ritenere, invocando - forse non del tutto impropriamente - la Direttiva europea che il ramo non solo deve

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preesistente al momento del trasferimento, non ammettendo dunque la possibilità da parte di cedente e cessionario di identificare al momento del trasferimento un ramo d’azienda.

5.1. L’autonomia funzionale del ramo d’azienda

Il primo ed essenziale requisito per la configurabilità del ramo d’azienda è la c.d. “autonomia funzionale”. Tale requisito, introdotto dal D.Lgs. n. 18/2001 è rimasto immutato anche dopo le modifiche apportate all’art. 2112 c.c. dall’art. 32 della Legge Biagi.

L’esatta individuazione dei contorni dell’“autonomia funzionale”

costituisce uno degli aspetti più problematici dell’intera disciplina del trasferimento d’azienda.

Secondo un orientamento più rigoroso, un ramo d’azienda per essere genuino e cioè “funzionalmente autonomo” dovrebbe costituire «una sorta di piccola azienda in grado di funzionare in modo autonomo e non rappresentare, al contrario, il prodotto dello smembramento di frazioni non autosufficienti e non coordinate tra loro26».

Successivamente si è consolidato un orientamento più restrittivo del concetto di “piccola azienda” secondo cui «non può essere considerato requisito indispensabile che il ramo rappresenti un clone dell’azienda madre, contenente in piccolo l’intero DNA della generante27». Stando a tale orientamento il ramo d’azienda deve costituire insieme di elementi produttivi organizzati dall'imprenditore per l'esercizio di un'attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea

26Cfr. Cass., 6 aprile 2006, n. 8017, Cass. 25 ottobre 2002, n. 15105. Conforme Cass., 4 dicembre 2002, n. 17207, Corte App. Milano, 9 settembre 2003, Trib.

Catanzaro, 6 novembre 2013, n. 1218, Trib. Pistoia, 17 gennaio 2012, n. 589.

27Cass., 5 marzo 2008, n. 5932; cfr. anche Trib. Napoli, 7 aprile 2011, n. 10892, Trib. Napoli, 6 giugno 2012, n. 16677; Trib. Napoli, 31 gennaio 2012, n. 2823; Trib.

Napoli, 25 gennaio 2011, n. 1991; Trib. Napoli, 26 settembre 2011, n. 23196; Trib.

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al perseguimento dei fini dell'impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità, essendo irrilevante la «completezza materiale e l'autosufficienza del gruppo28».

Nel corso del tempo, e con il prezioso contributo della giurisprudenza europea, si è dunque assistito ad una vera e propria

“dematerializzazione” del ramo d’azienda, accompagnata da un crescente valorizzazione da parte della stessa giurisprudenza dell’elemento organizzativo.

La giurisprudenza europea ha infatti costantemente affermato che il trasferimento d’azienda può avere ad oggetto «qualsiasi entità economica organizzata stabilmente, a prescindere dallo status giuridico e dalle modalità di finanziamento della medesima.

Costituisce un'entità siffatta qualsiasi complesso di persone ed elementi che consenta lo svolgimento di un'attività economica che persegua un proprio obiettivo e che sia sufficientemente strutturata e autonoma29», precisando che anche «un complesso strutturato di lavoratori, malgrado la mancanza di significativi elementi patrimoniali, materiali o immateriali, può corrispondere a un'entità economica ai sensi della Direttiva 77/18730».

28Tale orientamento è soltanto in apparenza meno rigoroso, posto che, il ramo, per essere tale, deve comunque avere ad oggetto un insieme di mezzi organizzati, funzionalmente autonomi e capaci di tradursi nella realizzazione di beni o servizi ben individuabili.

29Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C-108/10 (Scattolon) che in motivazione richiama, le sentenze della Corte di Giustizia del 10 dicembre 1998, cause riunite C- 127/96, causa C-229/96 e C-74/97 (Hernández Vidal), Corte di Giustizia, 26 settembre 2000, causa C-175/99 (Mayeur).

30Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C-108/10 (Scattolon). Sul punto, tra le tante, si vedano anche le sentenze della Corte di Giustizia del 10 dicembre 1998, cause riunite C-127/96, causa C-229/96 e C-74/97 (Hernández Vidal), Corte di Giustizia, 20 marzo 2003, C-340/01 (Abler), in cui la Corte stabilisce che la Direttiva deve applicarsi anche «alla situazione in cui un committente, che aveva affidato con un contratto la completa gestione della ristorazione collettiva in un ospedale ad un primo imprenditore, pone fine a tale contratto e conclude, per l'esecuzione della stessa prestazione, un nuovo contratto con un secondo imprenditore, quando il

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I giudici comunitari identificano quindi l’autonomia funzionale «nei poteri organizzativi dei responsabili dell’entità trasferita, compresi quelli di impartire disposizioni e distribuire compiti ai lavoratori dipendenti, nonché di decidere sull’allocazione delle risorse messe a disposizione31».

Anche la giurisprudenza italiana, recependo l’orientamento europeo, in diverse occasioni, ha ritenuto che il mancato trasferimento di assets non è, di per sé, di ostacolo alla sussistenza del requisito

secondo imprenditore utilizza rilevanti elementi patrimoniali materiali di cui si è servito precedentemente il primo imprenditore e messi successivamente a loro disposizione dal committente, anche qualora il secondo imprenditore abbia manifestato l'intenzione di non riassumere i dipendenti del primo imprenditore».;

Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, C-458/05 (Jouni), Corte di Giustizia, 1 marzo 1997, C-13/95 (Suzen), secondo cui «per poter determinare se sussistano le caratteristiche di un trasferimento di un'entità, dev'essere preso in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l'operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano in particolare il tipo di impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno di elementi materiali, quali gli edifici e i beni mobili, il valore degli elementi immateriali al momento della cessione, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un'eventuale sospensione di tali attività. Tali elementi costituiscono tuttavia soltanto aspetti parziali della valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere considerati isolatamente (v., in particolare, le menzionate sentenze Spijkers e Redmond Stichting, rispettivamente punti 13 e 24), (…), «si deve anche rilevare che, se il trasferimento di elementi patrimoniali costituisce uno dei vari criteri che il giudice nazionale deve prendere in considerazione al fine di poter valutare l'effettiva sussistenza di un trasferimento di impresa, l'assenza di tali elementi non esclude necessariamente l'esistenza del trasferimento stesso (v. le sentenze Schmidt, citata, punto 16, e Merckx e Neuhuys, citata, punto 21)», Corte di Giustizia, 14 aprile 1994, C-392/92 (Schmidt), secondo cui « neanche l' argomento dei governi della Repubblica federale di Germania e del Regno Unito, relativo all' assenza di un trasferimento di elementi patrimoniali, non merita accoglimento. Il fatto che la giurisprudenza della Corte annoveri il trasferimento di tali elementi fra i vari criteri dei quali il giudice nazionale deve tener conto al fine di poter accertare, nell' ambito della valutazione globale di un' operazione complessa, l'effettiva sussistenza di un trasferimento di impresa non consente di concludere nel senso che l' assenza di tali elementi escluda l' esistenza di un trasferimento. Infatti, il mantenimento dei diritti dei lavoratori che costituisce lo scopo della Direttiva, come emerge dal suo stesso titolo, non può dipendere unicamente dalla rilevanza di un fattore in ordine al quale la Corte ha peraltro già affermato che non si tratta dell' unico elemento determinante (v. sentenza 18 marzo 1986, causa 24/85, Spijkers, Racc. pag. 1119, punto 12)».

31Corte di Giustizia, 29 luglio 2010, C-151/09 (Federacion de servicios publicos de

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dell’“autonomia funzionale”. Si dovrebbe dunque applicare l’art. 2112 c.c. anche quando si è in presenza di fattispecie il cui oggetto del trasferimento siano strutture c.d. “labour intensive” (o come, le definisce la giurisprudenza più recente, “dematerializzate”), e cioè gruppi di dipendenti che sono stabilmente organizzati e organizzati tra di loro, dove le strutture materiali assumono scarsa importanza in presenza dell’«elemento dell’organizzazione, intesa come legame funzionale che rende l’attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi individuabili32».

Requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall’art. 2112 c.c. viene, quindi, individuato

32Cass., 10 gennaio 2014, 206 che osserva come «in alcuni casi (…) l'autonomia organizzativa ed economica possa - in alcuni settori o aree produttive in cui le strutture materiali assumono scarsa se non nessuna rilevanza (strutture c.d. "labour intensive") - configurarsi, anche in presenza del trasferimento di sola manodopera e quindi di soli lavoratori, che, per essere stabilmente addetti ad un ramo dell'impresa, e per avere acquisito un complesso di nozioni e di esperienze, siano capaci di svolgere le loro funzioni presso il nuovo datore di lavoro, potendosi, appunto, la suddetta autonomia concretizzare non solo attraverso la natura e le caratteristiche della concreta attività spiegata, ma anche in ragione di altri significativi elementi, quali, ad esempio, la direzione e l'organizzazione del personale, il suo specifico inquadramento, le peculiari modalità di articolazione del lavoro e i relativi metodi di gestione. Ciò può, ad es., avvenire nel caso in cui l'oggetto del trasferimento sia costituito da un gruppo di dipendenti, stabilmente coordinati e organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere essi dotati di un particolare know how o, comunque, dall'utilizzo di copyright, brevetti, marchi ecc.". Posto che, continua la Cassazione: «in alcuni di questi casi l'assenza di beni è solo apparente, trattandosi di beni "immateriali", sicché può parlarsi ancora di ramo di azienda, secondo la nozione tradizionale fornita dall'art.

2555 c.c., ma in altri casi resta come requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall'art. 2112 c.c. proprio l'elemento dell'organizzazione, ovvero quel legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra loro e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili». La Corte di Cassazione inoltre riconosce che «può oggi ritenersi che l'autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto non coincida con la materialità dello stesso (quanto a strutture, beni strumentali ed attrezzature etc.) a possa consistere anche in un ramo "smaterializzato" o "leggero" costituito in prevalenza da rapporti di lavoro organizzati in modo idoneo, anche potenzialmente (...) allo svolgimento di un'attività economica». Così, ad esempio, Cass., 29 maggio 2014, n. 12103, Cass. 21 maggio 2014, n. 11237.

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