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Il diritto all’opacità

L’opposizione dello scrittore postcoloniale opera su due livelli: la prima trasformazione avviene a livello linguistico attraverso una manipolazione costante basata sulla risignificazione e risemantizzazione lessicale, la seconda a livello formale, servendosi di espedienti narrativi popolari diversi da quelle consueti nel romanzo. Anche se con presupposti e motivazioni storiche diverse l’istanza ideologica nazionalista, talvolta radicale, rimane una presenza pregnante nell’opera dello scrittore africano, così come lo è stata per lo scrittore europeo per tutto l’Ottocento e fino al principio del Novecento, di conseguenza, tanto il contenuto quanto la forma destano la diffidenza di chi teme contaminazioni culturali, unilaterali, provenienti dall’Occidente.

Lo scrittore post-coloniale “[…] è uno scrittore orientato verso un pubblico occidentale, che guarda alla sua terra, alla sua cultura, per raccontarla, con modalità occidentalizzanti, ad altre terre e culture), attitudine motivata da un mercato globale dove gli abitanti del proprio paese rappresentano appena una parte, spesso esigua, di un’ideale comunità planetaria di lettori. Un rischio al quale è possibile opporsi solo “reclamando per tutti il diritto all’opacità”.53

L’appiattimento è indotto dal canone occidentale che costringe il lettore della società postcoloniale ad una paradossale comprensione di “seconda mano”, uno sguardo dall’esterno che indugia sull’intellegibilità del testo sottraendo all’opera quel ruolo di consolidamento nazionale svolto dal romanzo in Europa. I luoghi e le specificità culturali raccontati nel romanzo occidentale conferivano all’opera un carattere transnazionale proprio perché mostravano l’universalità dei principi e dei valori nazionali (e nazionalisti). La globalizzazione ha limato queste “diversalità” in

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nome di un’universalità che obbliga alla confezione di un prodotto concepito per il consumo mondiale.

L’ibridazione del romanzo, così espressa, più che generare un processo teso ad acquisire e metabolizzare il genere fino a farlo proprio, comporta l’assimilazione passiva di un canone imposto dall’esterno, che riproduce, sotto mentite spoglie, tutti i segni dell’occidentalizzazione culturale. Un tratto evidente di questo circolo vizioso è l’esotismo, espediente narrativo che si compiace dell’esaltazione delle differenze per favorire l’esportazione del prodotto letterario fuori dai confini periferici nazionali. L’esotismo racconta una differenza che guarda al mercato più che all’affermazione identitaria, un contenitore vuoto che non esprime niente e che funziona solo in opposizione: esalta la diversità, in relazione al primo mondo, rendendola attraente e patinata. È evidente che questo discorso, lungi dall’essere una garanzia di trasversalità, contribuisce soltanto a rafforzare il punto di vista eurocentrico.

Un espediente largamente diffuso e praticato nella produzione letteraria post- coloniale è la “creolizzazione del linguaggio”54, strumento che permette la

riproduzione letteraria del patrimonio immaginario e fantastico delle culture periferiche. L’utilizzo delle lingue creole si fonda sull’idea che una lingu, oltre a riprodurre una realtà storica e sociale, possa servire anche a rappresentare l’immaginario fantastico di certe realtà postcoloniali. Tuttavia, tale espediente non costituisce affatto una garanzia di pluralità, in quanto il fine ultimo permane quello di creare un prodotto globale o meglio globalizzabile.

Il binomio letteratura-lingua, inoltre, non sempre regge, in quanto l’identità linguistica a volte non funziona come contrassegno di identità nazionale. Se da una parte le letterature riducono la loro capacità di rinviare agli stati nazionali, dall’altra le lingue perdono l’esclusiva territoriale e attraversano le letterature di più paesi, giacché la lingua non reca più i contrassegni imprescindibili di un’identità nazionale e culturale. Il portoghese, ad esempio, rappresenta oggi non solo la lingua della !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

letteratura lusitana, ma anche di quella africana e soprattutto brasiliana, così come accade con lo spagnolo, il francese o l’inglese.

Questa incapacità strutturale delle letterature nazionali di esprimere appieno l’identità nazionale e culturale di un popolo è drammaticamente evidente nell’opera degli autori postcoloniali, deprivati della loro lingua originaria e della loro storia culturale. Le lingue nazionali nelle realtà postcoloniali hanno, dunque, il merito di unire il paese, ma non definiscono la comunità. In paesi come il Mozambico, per intenderci, la lingua portoghese non può avere la stessa valenza identitaria che ha avuto la lingua italiana nell’unificazione di un paese dove lingua nazionale ha preceduto di alcuni secoli la costruzione dello stato unitario. Come più volte ho rimarcato, però, le lingue nazionali hanno ormai smarrito il loro legame con la terra e con il popolo che la abita, al punto da trasformare la letteratura nella cartina tornasole di questa ridotta funzione identitaria (basta pensare allo sterminato numero di opere scritte in lingue che non corrispondono alla patria dei loro autori). Se, insomma, l’affermazione della borghesia europea avveniva sotto il segno del nazionalismo e delle identità culturali nazionali, la borghesia contemporanea ha smesso di riconoscersi in questi valori. Questa inedita crisi delle identità nazionali e culturali, associata alla globalizzazione dell’industria culturale e alla diffusione delle culture multietniche sovrannazionali, ha messo in crisi la dimensione nazionale delle letterature a favore di una mondializzazione letteraria che fa del canone occidentale il suo modello, universale, di riferimento. Le stesse letterature comparate, tra le prime a cogliere le peculiarità dei nuovi fenomeni letterari mondiali, osservano le letterature “altre” dall’angolo privilegiato della letteratura di elezione, riproducendo, in fondo, uno schema egemonico.

Un'autentica "letteratura mondo" dovrebbe pretendere, invece, uno sradicamento dalla visione centrale per divenire policentrica, capace, pertanto, di produrre una forma in grado di compenetrarsi nello spazio che la genera e di opporsi, quindi, a un modello occidentale che tende ad esotizzare la periferia piuttosto che “raccontarla”. Lo scrittore africano probabilmente ha coscienza di

questo scarto che la forma del romanzo produce in uno spazio dove la tradizione orale si serve da sempre di estórias, ossia racconti, storie esemplari a scopo pedagogico che permettono di perpetuare la memoria culturale e cultuale del Paese. La estória racconta il Paese alla nazione e al mondo, spostando il peso della narrazione dalla mera questione di linguistico o tematico a quello di una più consentanea forma narrativa che sappia farsene carico. La forma breve si sottrae così alla canonizzazione occidentale, a cui è, per converso, naturalmente sottoposta la forma del romanzo, condannato alla delocalizzazione, alla surrogazione del locale e all’adeguamento al gusto mondiale.

Del resto, quello che meglio resiste all’imperativo della delocalizzazione e alla logica stilistica della traduzione è il linguaggio poetico, poiché si serve di immagini che travalicano, naturalmente, le zone di frontiera del pensiero, della lingua e della nazione. Queste zone di confine del pensiero sono presenti per tradizione anche nel racconto, una forma che necessita di espedienti narrativi destinati a compensare con il ritmo la minore dilatazione temporale delle storie, e con la caratterizzazione immediata la scarna descrizione di personaggi e luoghi.

Permane, nondimeno, il punto interrogativo sull’effettiva operazione di recupero delle tradizioni che riesce a mettere in atto l’uso di tale forma narrativa. Il ritorno alle radici non è mai un’operazione autentica: il confine tra ricerca, rimpianto e nostalgia è impercettibile e l’uso politico di questi sentimenti non di rado sfocia nel folcloristico. Sarebbe importante stabilire, a questo punto, se la globalizzazione letteraria abbia favorito un recupero e un rilancio delle differenze oppure un asservimento delle stesse a un ordine culturale, e politico, sovranazionale. Tentare di capire, insomma, se la globalizzazione dev’essere interpretata come un’integrazione delle differenze o come una crescita delle somiglianze. Il confine tra le due definizioni è labile ma, come è facile intuire, la differenza è enorme.

Il romanzo dei mondi terzi tende a privilegiare luoghi narrativi che esaltano la diversità e fanno della nostalgia e del rimpianto il loro humus narrativo, anche se

nella realtà, questi luoghi raramente sono veramente diversi perché difettano di specificità. La letteratura globalizzata è legata al concetto di consumo, che produce un livellamento dello standard qualitativo, non necessariamente verso il basso, anzi, ma che può trasformare il locale in esotico e condannare le tradizioni culturali alla metamorfosi folcloristica. Il luogo, più che espressione vera di una radice culturale diventa così un simulacro nostalgico, e quasi sempre posticcio, in quanto il rapporto con i loci storici, linguistici, sociali e nazionali è diventato problematico e soprattutto non più essenziale.