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Immagine e racconto: ritagli di storia

I margini della rappresentazione e la forza dell’esiguità Nuove estórias de Mozambico e linguaggi fotografici.

2. Immagine e racconto: ritagli di storia

Non bisogna sottovalutare la necessaria lacunosità dell’ immagine “se le imponiamo di dirci più di quello che non può […] saremo presto delusi le immagini non sono che lembi strappati, pezzi di pellicola. Esse sono dunque inadeguate: ciò che noi vediamo è davvero poco rispetto a quello che noi sappiamo”161

Hubermann nel suo ragionamento fa ovviamente riferimento alla fotografia, malgrado tutto se lo applichiamo alla rappresentazione letteraria nella narrativa breve il principio rimane sostanzialmente lo stesso. Per quanto l’accostamento di due linguaggi così diversi come la scrittura e l’immagine possa in un primo momento sorprendere, è evidente che entrambi si fondino essenzialmente sulla capacità di essere brevi, coincisi e incisivi. Altro elemento in comune è l’esaltazione del particolare che viene estrapolato da una realtà in perenne movimento per essere trasformato in “immobilità funebre”162. Questa rappresentazione basata su “una parte per il tutto”163 li rende evidentemente non intercambiabili, soprattutto se parliamo di archivio e ricostruzione storica. Il racconto e la fotografia sono rappresentazioni di istanti, appunto istantanee, in quanto tali non ci diranno mai tutto.

La perenne necessità di integrazione delle immagini “carica di responsabilità lo storico, che raccoglie la loro «supplica ad essere guardate» e le coglie non come un velo ma come uno «strappo» sulla realtà, come «un sintomo, un disagio» nei confronti della tradizione interpretativa (per dirla con le parole di Walter Benjamin), cioè come un’irripetibile occasione di conoscenza”164.

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161 Georges Didi–Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano, 2005, pag. 52

162 È la dialettica del ricordo che si condensa nell’immagine fotografica: chi rammemora tenta di istituire un dialogo con

il mondo dei morti. (Barthes, pag. 9)

163 Virno, 2005

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164 Gianmario Guidarelli, Lo sguardo di Perseo, Engramma- numero 64, Aprile – Maggio 2008,

L’immagine fotografica estrapola il soggetto dal suo tempo e dalla sua dimensione per produrre un invito alla fruizione che non è mai casuale, ma conseguenza della scelta dell’operator. Il racconto a sua volta, come dice Hemingway, ci mostra solo la punta dell’iceberg165 lasciando il lettore con brama di conoscenza: una descrizione più dettagliata dei luoghi, la condizione psicologica dei personaggi, la loro biografia, l’evoluzione della storia, etc. Questo perché lo scrittore di racconti narra solo uno dei tanti episodi che possono avvenire nell’esistenza di un individuo, un click che mobilita empaticamente l’attenzione del lettore e lo invita a terminare la lettura in “una sola seduta”166.

In entrambi i casi viene applicato il procedimento della di cornice, che nella sua essenza altro non è che il potere di inclusione, e di esclusione, che il fotografo e lo scrittore di aneddoti e racconti esercitano sul soggetto rappresentato. L’atto di “incorniciare” un dettaglio crea un dentro e un fuori, quindi, naturalmente, l’inclusione di un soggetto comporterà l’esclusione di altri. La macchina fotografica inquadra un dettaglio, anche se ci serviamo di obiettivi particolarmente performanti che ci permettono di abbracciare panorami ogni volta più vasti, quello che entra nell’obiettivo sarà sempre e comunque solo un pezzo di mondo, un solo momento che si trasforma in “immobilità viva”167.

La scelta del soggetto come quella del “momento” è decisa dall’operator con uno scopo ben preciso, sia che si tratti di una foto di famiglia che di un reportage di guerra, isola un dettaglio non per rappresentare la realtà ma una parte di essa, quella che a lui più interessa. La storia raccontata dalle immagini è infatti sempre frammentaria, pretendere che ci racconti tutta la storia significa richiedere alla foto quello che non ci può dare.

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165 Per Hemingway in un racconto ben scritto l’importante è quel che non si vede. I sette ottavi devono rimanere sempre sommersi, è materiale utile e lo scrittore di racconti lo deve conoscere ma può rimanere anche sott’acqua, anzi, è meglio, così l’iceberg sarà sempre più solido. Se uno scrittore però omette qualcosa perché ne è all’oscuro, allora le lacune si noteranno.

Ricardo Piglia, “Tesis sobre el cuento” in Formas breves, Editorial Anagrama, Buenos Aires, 1986, VI 166 Poe, Op. cit.

167 In sostanza la fotografia nel certificare che qualcuno “è stato”, ci ribadisce costantemente il concetto di morte.

Paradigmatici in tal senso sono i quattro fotogrammi che un membro del

Sonderkommando nascosto nel Crematorio V riuscì a scattare nell’agosto del 1944

all’interno di Birkenau, usciti poi da Auschwitz grazie alla Resistenza polacca e sopravvissuti fino a noi. La testimonianza fornita da quegli scatti ha un valore ontologico inestimabile ma, come dice Didi-Huberman, non bisogna sottovalutare la necessaria lacunosità dell’immagine: a volte le “domandano troppo” e sappiamo che alla foto non si può chiedere più di quello che può dire.

Le foto sono ritagli di realtà, non possono raccontare “tutta la verità” perché “l’immagine è impotente a trasmettere tutto il reale”168. Il grande valore storico dei quattro fotogrammi scampati alla distruzione risiede nella loro natura di resti archeologici 169 , delle tracce da cui partire per rendere rappresentabile l’irrapresentabile. Non bisogna andare però oltre il loro valoro di “indizi di verità”, in quanto tali complementari al valore testimoniale dei racconti dei sopravvissuti.

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168 Didi-Huberman, pag. 82

169Iconic Photos, The Sonderkommando Photos