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Nell’ordinamento italiano il risarcimento del danno derivante dal reato è assicurato alle vittime, in via generale, dall’art. 185 c.p., che

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Cfr. art. 507 c.p.p. Per una lettura estensiva di detto articolo si veda l’intervento delle Sezioni unite della Cassazione (sentenza del 6 novembre 1992). Con tale sentenza si stabilisce che l’insussistenza di qualunque precedente attività istruttoria posta in essere dalle parti non può ritenersi preclusiva del potere- dovere attribuito al giudice di pronunciarsi sulla base di una piattaforma probatoria alla cui completezza lo stesso deve sovrintendere anche supplendo all’inerzia di accusa e difesa (così, anche, Cassazione n. 37546 del 2002).

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T.ARMENTA DEU – L.LUPÁRIA, Linee guida per la tutela processuale delle vittime

vulnerabili, cit., p. 18.

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non solo prevede il diritto alle restituzioni, cioè alla restituito in

integrum dello stato di fatto preesistente alla commissione del reato,

ma obbliga anche il colpevole (o i soggetti che civilisticamente debbano rispondere per lui) al risarcimento del danno, patrimoniale o non patrimoniale, causato alle vittime con la commissione del reato252.

Sul piano procedimentale, a tale scopo è funzionale la possibilità della vittima di costituirsi parte civile nel processo penale per poter esercitare in tale sede l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento dei danni (art. 74 c.p.p.). Com’è noto, la legittimazione alla costituzione di parte civile spetta al soggetto danneggiato dal reato, ovvero al soggetto – eventualmente anche diverso dal soggetto passivo titolare del bene giuridico direttamente leso dalla condotta illecita (cioè la vittima stricto sensu) – che comunque abbia sofferto un danno (anche solo morale) dalla commissione del reato.

Tuttavia, sussiste un problema circa l’effettività della soddisfazione dei diritti risarcitori delle vittime di reato quando i colpevoli non siano identificati o non siano solvibili rispetto alle obbligazioni civili derivanti dagli illeciti penali. Una risposta concreta a tale situazione è fornita dall’istituzione di una serie di “fondi di solidarietà”, predisposti dal legislatore nazionale – e talvolta da quelli regionali – allo scopo di garantire in ogni caso almeno un “indennizzo” alle vittime di determinati reati253.

Tuttavia, la limitatezza dei crimini in relazione ai quali operano i fondi di solidarietà fa sì che questo meccanismo di ristoro non costituisca una garanzia adeguata per la soddisfazione delle vittime “vulnerabili”, non considerate indennizzabili mai “in quanto tali”, ma

252

T.ARMENTA DEU – L.LUPÁRIA, Linee guida per la tutela processuale delle vittime

vulnerabili, cit., p. 87 ss.

253 Particolare importanza rivestono, ad esempio, quelli destinati alle vittime dei reati di terrorismo e di criminalità organizzata (cfr. L. n. 302 del 1990, L. n. 512 del 1999, L. e L. n. 206/2004) o a quelle dei reati di usura e di estorsione (L. n. 44 del 1999).

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solo in quanto soggetti passivi di determinate e limitate categorie di reati. Infatti, rimangono escluse le vittime dei “reati intenzionali violenti”, rispetto ai quali esiste una specifica direttiva comunitaria (n. 2004/80/CE) che impone agli Stati membri di garantire adeguati meccanismi indennitari per le vittime254. La direttiva in questione, benché formalmente attuata dal legislatore non ha trovato, in realtà, effettivo recepimento, poiché la legge si limita a disciplinare gli aspetti procedurali (relativi alle modalità di accesso all’indennizzo sia per le persone stabilmente residenti in Italia che siano vittime di un reato in un diverso Stato membro, sia per le persone residenti in un altro Stato membro che siano vittime di reato in Italia), ma non prevede nessuna elencazione dei reati indennizzabili, né individua altre circostanze che dovrebbero legittimare l’accesso al risarcimento pubblico (neppure sono individuati i criteri di determinazione della equità ed adeguatezza dell’indennizzo).

Infine, occorre sottolineare come la tutela risarcitoria delle vittime di reato sia ulteriormente e gravemente compromessa dalla eccessiva durata dei processi penali (ma anche di quelli civili) nell’ordinamento italiano.

6.1 Gli istituti premiali di incentivo al risarcimento del danno da reato

Nel codice penale il danno e la sua riparazione non rilevano solamente nell’ipotesi contemplata dall’art. 185 c.p., ma anche a fini diversi, e, cioè, “premiali” e “clemenziali” a favore del reo.

In questa sede si possono ricordare, sinteticamente, le seguenti previsioni normative:

254 Tale direttiva istituisce un sistema di cooperazione volto a facilitare per le vittime di reati l’accesso all’indennizzo in situazioni transfrontaliere e intende assicurare che se un reato intenzionale violento è stato commesso in uno Stato diverso da quello in cui la vittima risiede abitualmente, quest’ultima sia indennizzata dal primo Stato. Cfr. V.BONINI, L’attuazione della direttiva in tema di

indennizzo delle vittime di reato e le perduranti inadempienze dello Stato italiano (d. lgs. 9.11.2007 n. 204), in LP, Torino, Utet, 2008, p. 1 ss.

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a) l’art. 133, comma 2, n. 3, c.p., ai fini della commisurazione della pena, prescrive al giudice di tenere conto della condotta del reo susseguente al reato, nella quale può senz’altro rientrare la riparazione del danno mediante le restituzioni o il risarcimento255;

b) l’art. 62, comma 1 n. 6, c.p., che prevede una circostanza attenuante comune in tutti i casi in cui il colpevole, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso e, quando possibile, mediante le restituzioni; o anche solo quando il colpevole si sia adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato; c) l’art. 164, comma 4, c.p., che subordina necessariamente

la sospensione condizionale c.d. “breve” alla riparazione integrale del danno attraverso il risarcimento dello stesso e, quando possibile, attraverso le restituzioni;

d) l’art. 165 c.p., che prevede, inoltre, la generale possibilità di subordinare la concessione della sospensione condizionale (ordinaria) all’adempimento dell’obbligo di restituzioni; al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso; alla pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno (ex art. 186 c.p.); nonché, alla eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato;

e) l’art. 176, comma 4, c.p., che subordina la concessione della liberazione condizionale all’adempimento delle obbligazioni derivanti da reato (ex art. 185 c.p.), salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di

255 F.M

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adempierle; ciò vale anche quanto alla possibilità di usufruire della riabilitazione ex art. 179 c.p.p.;

f) l’art. 28 del D.P.R. n. 444 del 1988 che, nel diritto penale minorile, prevede la misura della “messa alla prova” del minore, in base alla quale il giudice può disporre la sospensione del processo, affidando il minore ai servizi minorili, e con l’ordinanza di sospensione può “impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato, e promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato”;

g) l’art. 35 del D. Lgs. 28 agosto 2000 n. 274, che, nei reati attribuiti alla competenza del giudice penale di pace, prevede una particolare causa di estinzione del reato “quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato”, precisando inoltre che la sentenza di estinzione è pronunciata solo se il giudice “ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione”.

Il fatto di legare in taluni casi l’operatività di istituti premiali e clemenziali all’adempimento di prestazioni a favore della vittima, come ad esempio l’adempimento delle obbligazioni civili da reato, può senz’altro fungere da strumento per incentivare la riparazione del danno da parte del reo256.

Dalle ipotesi sopra citate risulta evidente che la riparazione del danno non assurga mai a sanzione con funzione identica a quella della pena

256

Cfr. G.CASAROLI, La Convenzione europea sul risarcimento alle vittime dei reati

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e sostitutiva della stessa: infatti, da un lato essa – come nell’ipotesi di cui all’art. 62, comma 1, n. 6, parte prima – svolge una funzione del tutto autonoma, pur incidendo sull’entità della sanzione penale, poiché è unicamente rivolta al ripristino dello status quo ante ovvero alla riparazione del danno; dall’altro lato – come nell’ipotesi di cui all’art. 62, comma 1, n. 6, parte seconda, consistente nella condotta di adoperarsi spontaneamente per elidere od attenuare le condizioni dannose o pericolose, e in quelle condotte che rappresentano una condizione per poter beneficiare della sospensione condizionale della pena o della liberazione condizionale – sebbene mantenga sempre una propria autonomia, viene inserita in un contesto che gli consente di perseguire finalità che si integrano con quelle della pena, come ad esempio la funzione specialpreventiva257.

Comunque, il fatto che la riparazione del danno mantenga sempre una propria autonomia e non divenga mai una sanzione sostitutiva della pena è sintomatico di una concezione fortemente influenzata da istanze retribuzionistiche, secondo cui la sanzione penale deve avere una ineliminabile componente afflittiva, volta alla soddisfazione dei “bisogni di pena” sorti a seguito della commissione del fatto.