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Discriminazione verso i disabili

Capitolo III: Enhancement

12. Obiezioni

12.2 Discriminazione verso i disabili

Fra coloro che si oppongono all‟idea del biopotenziamento una paura diffusa è quella che, utilizzando forme di biopotenziamento e tecniche di riproduzione per evitare la disabilità e per avere figli migliori, si possa giungere a discriminare le persone disabili.

Un altro timore è che l‟esercizio di queste opzioni possa in qualche modo condurre a negare alle persone di avere figli non biopotenziati o anche con handicap.

Harris a questo proposito rimarca che una delle tesi che egli sostiene vuole che tutte le persone siano uguali, che nessun handicap o biopotenziamento possa portare una

166 persona ad essere più o meno importante rispetto alle altre. Egli sostiene cioè il principio di uguaglianza.

L'autore individua e cerca di svelare come tre fallacie emergano spesso nelle discussioni sul biopotenziamento e la libertà procreativa in riferimento all‟handicap:

scegliere di riparare disfunzioni o migliorare le funzioni implica che lo stato precedente sia inaccettabile, oppure che le persone in quello stato siano di minore valore, oppure che le persone in quello stato non abbiano una vita che vale la pena di vivere;

esercitare scelte procreative il cui risultato saranno bambini con meno disfunzioni, con una migliore salute, o con capacità superiori, viola il principio di uguaglianza;

la disabilità deve essere definita rispetto alle normali funzioni della specie o alle tipiche funzioni della specie216.

Harris indica come preliminare la distinzione fra due distinte domande: è sbagliato preferire una persone senza disabilità ad una disabile?

è sbagliato preferire di generare (o anche essere) una persona senza disabilità rispetto a una con disabilità?

Queste sono domande e questioni che vengono spesso confuse fra loro. La risposta alla prima domanda è un assoluto e categorico si. Della seconda occorre comprendere se una preferenza verso le persone non disabili violi il principio di uguaglianza.

Per Harris la preferenza a mettere al mondo persone non disabili non rappresenta una violazione rispetto a tale principio. Egli fa un elenco di casi in cui si chiede retoricamente quale dovrebbe essere il giusto corso d‟azione:

una donna che è consapevole dei rischi che può causare al feto l‟assunzione di alcol e sigarette e ciò nonostante persiste nel loro utilizzo;

una donna che attraverso l‟assunzione di una medicina potrebbe scongiurare disabilità nel feto ma che decide di non prenderla;

una donna di cui si sappia che allo stato attuale avrebbe un figlio disabile, ma dopo un periodo di trattamento avrebbe un figlio non disabile.

Per Harris il miglior corso d‟azione è sempre quello che mette al mondo persone non disabili, anche nell‟ultimo caso, dove la persona che nascerebbe dopo il periodo di

167 cura non sarebbe più la stessa ma un‟altra (e non più la stessa persona con o senza disabilità poiché il figlio che nascerà dopo il trattamento non sarà lo stesso che sarebbe nato prima).

Il motivo di questa preferenza è che la condizione di disabilità è non desiderabile, non è preferibile rispetto alla non disabilità e quindi la seconda è una condizione da preferire alla prima in quanto accresce il livello di felicità generale (e individuale)217.

Nella considerazione dell‟autore la disabilità è una condizione di danno per la quale si ha una preferenza razionale di non trovarsi a viverla. In quest‟ottica una condizione di danno è definita in relazione alla preferenza razionale della persona, e relativamente a condizioni che possono essere descritte come dannose218.

La disabilità non è quindi definita rispetto alla normalità o alla tipicità della specie, in quanto anche condizioni normali o tipiche possono risultare dannose o non razionalmente preferibili in determinate condizioni.

Harris riporta spesso qui l‟ipotesi esemplificativa di cosa accadrebbe se il buco dell‟ozono si allargasse sensibilmente e tutte le persone con la pelle chiara si trovassero ad avere seri problemi ad esporsi alla luce del sole. Pur rimanendo normali o tipiche le loro caratteristiche, loro si troverebbero in una situazione di danno provocata dal modo in cui sono, avrebbero una preferenza verso una pelle più scura, e quindi preferirebbero il colore della pelle alternativa alla loro, che è posseduta invece da altre persone.

La descrizione di Harris della disabilità non è fissa, è adattabile all‟evoluzione dei tempi: al giorno d‟oggi il non essere protetti contro il tetano può essere considerato una sorta di disabilità, pur non intaccando la normalità del soggetto, anzi ammalarsi e morire di tetano è molto tipico della nostra specie, ed è perciò che il concetto di disabilità, di come si desidera essere e di come non si desidera essere, andrebbe giustamente definito in base alle alternative possibili nel proprio tempo.

Il modo di concepire la disabilità da parte di Harris è stato oggetto di critica da parte di Jonathan Glover219. Glover definisce la disabilità come una limitazione delle funzioni, che in sé, o in combinazione con svantaggi sociali, impedisce il pieno

217 Ibid.

218 Harris, J. (2002). "One principle and a fourth fallacy of disability studies." Journal of medical ethics

28.

168 sviluppo delle capacità umane. Neanche la sua concezione deriva l‟idea della disabilità dal confronto con „normali‟ o „tipiche‟ funzioni della specie, quanto piuttosto dalle reali constatazioni di situazioni di svantaggio.

Il tutto è piuttosto in linea in effetti con l‟analisi di Harris, la divergenza e la critica nascono dalla differente considerazione del danno e della responsabilità del danno. Glover rileva, in modo critico, che l‟estensione della responsabilità dei genitori nella nascita di figli disabili, o in qualsiasi misura svantaggiati, è nella concezione di Harris troppo ampia, o meglio „tetra‟220.

La visione di Harris è molto netta, ma è anche chiara, e la critica ci appare ingenerosa, perché se è ovvio che la responsabilità della disabilità dei figli in un ragionamento crudo di causa ed effetto risiede nei genitori, in quanto li hanno generati, in Harris, si parla però di una responsabilità intesa come causa efficiente, assolutamente non morale.

Per Harris avere figli disabili è meglio che non averne affatto, purché la loro vita non sia contraddistinta da un dolore insopportabile, tale da rendere la loro vita non degna di essere vissuta. Il disabile non subisce un torto a nascere disabile, subisce un torto se sarebbe potuto nascere non disabile e a causa di negligenze o decisioni mirate dei genitori o altri, nasce invece danneggiato221.

Un‟altra questione su cui ci vogliamo soffermare (per completare l‟argomento riteniamo sia un chiarimento utile) è quello dell‟aborto o della selezione embrionale in ragione della disabilità. Secondo Harris l‟aborto di un feto disabile non costituisce una discriminazione contro i disabili come categoria, così come non è discriminante cercare di rimediare alla disabilità.

La ragione per cui si possono impiantare embrioni sani piuttosto che embrioni con difetti che risulteranno in disabilità, così come è possibile abortire un feto disabile, è evidentemente data dal fatto che non si assegna a embrioni e feti il medesimo status morale che si riserva alle persone.

A nessuno stadio embrioni e feti possiedono delle caratteristiche tali da differenziarli rispetto a molti animali (esseri ai quali non riserviamo particolari garanzie in virtù dello status morale) se non l‟appartenenza alla nostra spessa specie e la potenzialità

220 „Gloomy‟ nel testo originale.

221 Harris, J. (2007). Enhancing Evolution: The Ethical Case for Making Better People, Princeton

169 di divenire persone. Il fatto che appartengano alla nostra specie non può rappresentare un privilegio, perché sarebbe un pregiudizio il favorirli solo per questo, e la potenzialità non ha maggiore successo, come già visto, nell‟assicurare embrioni e feti.

Ciò che riteniamo veramente importante evidenziare in questo contesto, ed anche qui l‟analisi di Harris è estremamente d‟ausilio, è che se embrioni e feti con disabilità sono considerati a disposizione di chi ne voglia interrompere l‟esistenza è perché embrioni e feti non possiedono le caratteristiche apprezzabili di una persona, siano disabili o meno. Se un feto con malformazioni può essere abortito, la ragione è data dal suo essere feto, e non dalla disabilità.

In sintesi, le persone sono importanti e hanno valore in un modo che le non persone non sono e non hanno.

Se si può considerare sbagliato abortire un feto deformato, decisione a cui è permesso giungere perché il feto non è persona, e decisione che viene presa a causa della disabilità, per Harris non è mai perché si farebbe un danno al feto, il quale non è danneggiabile, ma perché potrebbe essere interpretato in maniera dolorosa dalle persone con disabilità, che potrebbero soffrirne e sentirsi svalutate nel vedere abortire chi potenzialmente avrà le loro stesse caratteristiche di disabilità.

Un‟obiezione così strutturata viene ammessa dall‟autore, ma la domanda che secondo lui ci dovremmo porre è se il tentativo di evitare la disabilità alle future generazioni debba piegarsi alle sensazioni e al volere di chi non vuole correre il rischio di ferire le persone disabili del presente, a prezzo di continuare a mantenere determinati deficit anche in un futuro in cui fossero eliminabili222.

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