Tradizionalmente, il trattamento neoadiuvante per il tumore alla mammella era riservato alle forme localmente avanzate (stadio IIIB, IIIC e carcinoma infiammatorio), con lo scopo di convertire il carcinoma da inoperabile a resecabile chirurgicamente. Negli anni recenti, la terapia primaria è diventata un’opzione accettata anche per le forme tumorali più precoci nell’ottica di incrementare il numero di trattamenti conservativi (BCT: breast conserving therapy) e di ridurre l’impatto della chirurgia.
Una metanalisi di Mauri e coll. condotta su 3946 pazienti, ha evidenziato che la terapia primaria non presenta rispetto alla terapia adiuvante alcuna differenza statisticamente significativa in termini di mortalità, progressione di malattia e progressione a distanza. Rispetto al trattamento adiuvante classico, l’approccio pre-operatorio consente inoltre di monitorare la risposta durante il trattamento, interromperla in caso di mancata risposta, aumentare il numero di interventi conservativi sulla mammella, ottenere un downsizing dei tumori originariamente non operabili e valutare il residual cancer burden per una stratificazione prognostica.
In particolare, nel carcinoma mammario HER-2 positivo l’approccio pre-operatorio ha condotto a grandi successi. L’iperespressione/amplificazione del gene HER-2 si verifica in circa il 15-20% dei carcinomi mammari ed è stata originariamente identificata come un marcatore di prognosi peggiore e di andamento maggiormente aggressivo della malattia. Tuttavia, l’avvento della terapia anti-HER2 e in particolare l’utilizzo di Trastuzumab, ha significativamente migliorato la storia naturale di questa malattia. Ad oggi infatti, il trattamento sistemico primario basato sull’associazione di chemioterapia e trastuzumab è riconosciuto come opzione standard. Tale approccio è giustificato in virtù del più alto tasso di risposte patologiche complete riscontrato con l’aggiunta di trastuzumab (40%) alla chemioterapia (51).
95 La risposta patologica completa definita come assenza di residuo invasivo su mammella e/o su linfonodi con residuo non invasivo ammesso (ypT0/is ypN0), rappresenta generalmente l’end-point primario dei grandi studi randomizzati sulla terapia neoadiuvante, dal momento che i pazienti che raggiungono la pCR mostrano un miglioramento significativo nella prognosi rispetto a coloro che non la ottengono. Questo è particolarmente vero nei pazienti ER-negativi/HER2-positivi, nei quali la pCR può ragionevolmente rappresentare un surrogato per la prognosi a lungo termine.
Un numero significativo di pazienti comunque non risponde alla terapia iniziale con trastuzumab. Si stima che circa il 40% dei trattati sviluppino resistenza primaria o secondaria al farmaco (76). Queste osservazioni hanno condotto ricercatori e clinici a cercare di identificare i meccanismi alla base della resistenza al trastuzumab, per riuscire a sviluppare una corretta selezione delle pazienti oppure proporre strategie terapeutiche alternative. Ottimizzare l’utilizzo dell’anticorpo avrebbe importanti risvolti sia clinici, in quanto consentirebbe di evitare inutili effetti tossici soprattutto a livello cardiaco, sia economici.
Ad oggi sono stati individuati diversi meccanismi molecolari (ad esempio il pathway PI3K, l’espressione di p95 o i polimorfismi coinvolti nella citotossicità anticorpo-mediata) che potrebbero rappresentare fattori predittivi di risposta a trastuzumab. Nonostante qualche trend sia emerso dai dati retrospettivi e dalle analisi dei biomarkers effettuate negli studi clinici randomizzati, nessuno di questi fattori è ancora stato validato nella pratica clinica. Le diverse metodiche di laboratorio utilizzate e l’assenza di cut-off prestabiliti hanno probabilmente contribuito a generare dati discrepanti.
Negli ultimi anni si è diffuso l’utilizzo del sequenziamento di nuova generazione, il quale rappresenta uno strumento ideale per la caratterizzazione dei carcinomi della mammella a un livello genomico, trascrittomico ed epigenetico. Esso infatti ci consente di catalogare tutte le mutazioni puntiformi, le alterazioni del numero di copie geniche e i riarrangiamenti
96 somatici nella stessa sessione di lavoro. Grazie a ciò, è possibile tracciare uno spettro mutazionale dei diversi sottogruppi di malattia, seguire la sua evoluzione nel tempo, identificare con sensibilità e precisione le mutazioni somatiche all’interno di un tessuto eterogeneo come quello tumorale o ancora identificare le mutazioni secondarie indotte dalla terapia.
Sulla base di queste considerazioni, in questo studio pilota retrospettivo a carattere esplorativo è stata effettuata una correlazione tra il profilo esomico di campioni tumorali di pazienti HER-2 positivi e l’outcome clinico di tali pazienti (in termini di risposta patologica completa alla terapia). Inoltre, confrontando i campioni pre e post trattamento dei pazienti responsivi con quelli di coloro che avevano risposto solo parzialmente, si è cercato di descrivere eventuali fattori molecolari predittivi di risposta al trattamento neoadiuvante, sia confermando meccanismi noti in letteratura sia valutando l’emergere di pathway non ancora descritti.
I campioni analizzati sono stati estratti da una casistica di 65 pazienti con diagnosi istologica di carcinoma mammario HER-2 positivo consecutivamente trattate con chemioterapia neoadiuvante e trastuzumab dal 2010 al 2014 presso l’U.O. di Oncologia Medica ed il Centro Senologico dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana e di cui fossero disponibili i preparati istologici bioptici del campione tumorale e/o quelli ottenuti durante l’intervento. Tale coorte di pazienti presentava un età mediana alla diagnosi pari a 50 anni e il 58% di esse si trovava in uno stato pre-menopausale. Circa il 58% delle pazienti mostrava un quadro localmente avanzato di malattia. Il 60% di loro presentava recettori ormonali positivi all’immunoistochimica mentre l’89% aveva un alto grado di proliferazione cellulare (MIB-1 > 15%). Tranne due casi, tutte le pazienti avevano ricevuto un regime chemioterapico a base di antracicline e taxani, con trastuzumab somministrato concomitante ai taxani. Dal momento che le pazienti sottoposte a trastuzumab possono presentare alterazione del profilo di funzionalità cardiaca, era stato valutato l’andamento
97 della frazione di eiezione del ventricolo sinistro ed era stato riportato che 2 pazienti avevano dovuto interrompere il trattamento precocemente per un grado 3 di tossicità.
Le 65 pazienti coinvolte nello studio avevano ricevuto un trattamento chirurgico al termine della terapia sistemica, presso il Centro Senologico dell’AOUP. In particolare il 69% dei pazienti (45/65) era stato sottoposto a intervento di mastectomia, mentre il 31% (20/65) a una chirurgia di tipo conservativo. Pertanto, il tasso di conversione era risultato del 29%.
Dallo studio dei preparati istologici tumorali ottenuti durante l’intervento è emerso che il 48% circa delle pazienti (31/65) avevano ottenuto una risposta patologica completa (ypT0/is ypN0) e questo risultato è in linea con i dati più recenti della letteratura. Infatti nello studio di Von Minckwitz e coll. è stato dimostrato che l’aggiunta di trastuzumab ai regimi di chemioterapia è in grado di indurre un aumento del tasso di risposte patoligche complete fino a valori superiori al 40% rispetto al 17% ottenuto con la chemioterapia da sola (51). Le pazienti che non avevano ottenuto la risposta patologica completa erano state invece il 51% (33/65) e in un caso (1%) si era raggiunta addirittura una progressione di malattia. Nel sottogruppo di pazienti HR-positive/HER2-positive la percentuale di pCR era risultata del 44% rispetto al 54% riscontrato nel sottogruppo HR-negativo. L’analisi statistica tuttavia non ha rivelato una correlazione significativa tra lo stato dei recettori ormonali e la risposta patologica (pvalue=0.57). In merito al grado di proliferazione delle cellule neoplastiche, tra le pazienti con Mib-1>15% valutato sul campione bioptico preoperatorio, il 49% presentava una pCR all’istologico definitivo, mentre tra le pazienti con Mib-1<15% il tasso di risposte patologiche complete era del 43%. Anche in questo caso non è stata osservata una differenza statisticamente significativa (p=0,68), probabilmente a causa dell’esigua numerosità campionaria. Tali risultati infatti non risultano in linea con precedenti analisi condotte su ampie casistiche retrospettive di pazienti trattate con trastuzumab nel setting pre-operatorio, nelle quali veniva evidenziata una significativa correlazione tra la negatività per i recettori ormonali, l’alto indice di proliferazione cellulare e la risposta completa patologica, indicando quindi un potenziale
98 ruolo prognostico. Una delle esperienze pubblicate in merito da Guarneri e coll. ha messo in evidenza come la percentuale di pCR sia significativamente più alta in caso di HR- negatività (p=0.022) (138). Anche Zhang e coll. hanno mostrato che i pazienti con alto indice di Ki-67 e contemporaneamente HR-negativi hanno un tasso di pCR più alto (69.2%), rispetto a quelli HR-positivi e con alto indice di proliferazione cellulare (HR= 7.071; p=0.001).
Dalla casistica suddetta, sono stati selezionati i campioni tumorali sui quali è stato condotto il sequenziamento di nuova generazione per la valutazione del profilo esomico. Il sequenziamento è stato condotto tramite sequenziatore Ion Proton (Ion Torrent, Life Technologies, Grand Island, NY) e i dati sono stati analizzati con supporti bioinformatici.
Tale analisi preliminare è stata eseguita su un totale di 4 pazienti. Sono stati selezionati pazienti con forme localmente avanzate di malattie e risultati negativi per i recettori ormonali. Sono stati analizzati 3 pazienti con risposta patologica completa (full responder, FR) di cui era disponibile il campione bioptico. E’ stato inoltre analizzato 1 paziente che non ha ottenuto risposta completa (partial responder, PR), confrontando il campione bioptico ottenuto prima della terapia (before therapy, bt) con quello ottenuto durante l’intervento chirurgico al termine della terapia (after therapy, at).
Lo studio, a carattere esplorativo, si è concentrato, almeno inizialmente, sull’individuazione di mutazioni puntiformi e di inserzioni/delezioni. L’intero spettro mutazionale è stato dapprima valutato all’interno di ogni campione in termini di singole varianti e poi in termini di geni coinvolti; sono stati quindi confrontati i diversi esomi fra loro per individuare mutazioni comuni e mutazioni esclusive di singoli campioni. Dal momento che ogni tumore presenta migliaia di mutazioni somatiche, i risultati ottenuti sono stati selezionati sulla base della qualità del processo ed inoltre sono state prese in considerazione solo le mutazioni missenso, le frameshit e quelle non-senso. I dati grezzi
99 sono stati ulteriormente filtrati confrontandoli con il Cosmic Database, il Driver Database e infine l’Herceptin Resistance Database.
Per quanto concerne i pazienti full responder, sono state raccolti 4287 geni mutati in comune. Filtrando questi risultati sulla base dei dati del Cosmic Database si è ottenuta una lista di mutazioni in comune piuttosto interessante (SENP6, ZNF106, DHDDS, PLCB4, ATAD5, ZNF717, LAMA2, MUC16, BIRC6, JAK2, KIF2A, APC), il cui ruolo andrà chiarito in futuro effettuando un confronto con i pazienti partial responder per capire se queste mutazioni rappresentino dei comuni meccanismi di cancerogenesi oppure se possano indurre una maggiore sensibilità alla terapia.
Il profilo mutazionale del paziente partial responder before therapy è stato quindi confrontato con quello after therapy per verificare eventuali variazioni avvenute durante la terapia. E’ stato osservato che mutazioni sui geni NOTCH2NL, TPTE, EYS, FUCA2, sono presenti in entrambi i campioni indifferentemente. Per MTO e BIRC8 addirittura si osserva un incremento della frequenza dell’allele raro. Quest’ultime potrebbero quindi rappresentare nuovi fattori di resistenza alla terapia, dal momento che sono assenti nei 3 campioni full responder. In particolare, NOTCH2NL sembra codificare per una componente della via del segnale di Notch, chiamata in causa da Han e coll. (137) che hanno ipotizzato un suo ruolo nella mancata risposta a trastuzumab, dal momento che l’utilizzo dell’anticorpo si è mostrato in grado di ripristinare il pathway Notch nelle linee cellulari SK-BR3 trattate in vitro.
Viceversa, per altri geni è stato riscontrata una diminuzione della frequenza dell’allele raro (CEP350, KMT2C). In certi casi l’allele mutato è proprio scomparso nell’after therapy (es. FLG, SF3B1, FLNB, COL14A1, PLCE1, CDH1, NCOR1, MAP3K4, AHNAK, TLN1 e ancora EPS15, PRKDC, NBPF10, CACNA1E, NEB, RIMS1, SYNE1, AKAP9, NID1, PRKDC, RP1, KCNB2, GAD2, PLCE1, RRM1, CDH1, ZNF266, BCAS1). Per questi geni è quindi ipotizzabile un ruolo nella sensibilità a trastuzumab. Per confermare tale ipotesi si
100 è andati a ricercare la presenza di questi geni mutati anche nei full responder. Ad esempio è emersa dall’analisi una mutazione in comune sul gene NID-1, il quale codifica per una glicoproteina della membrana basale coinvolta nelle interazioni della cellula con la matrice extracellulare. Altre mutazioni interessanti in tal senso, cioè condivise dai campioni full e da quello partial ma assenti dopo la terapia, sono state ritrovate sui geni NBPF10, NEB, AHNAK e NCOR1. Il ruolo di tali varianti andrà pertanto rivalutato una volta ampliata la casistica a disposizione.
Analizzando infine solo le mutazioni ricavate dall’Herceptin Resistance Database (una lista di biomarcatori identificati in pregressi studi come predittivi di resistenza a trastuzumab) per due geni (MAP3K1, che codifica per una MAP-chinasi implicata nella cascata del segnale innescata da HER-2, e CD44) si è osservato un aumento della frequenza dell’allele raro dopo la terapia. E’ quindi ipotizzabile un loro ruolo nella resistenza alla terapia, anche se questi risultati potrebbero essere inficiati dall’esigua numerosità del campione e dalla qualità di qualche processo di sequenziamento. Ad ogni modo, nel campione partial responder before therapy sono state evidenziate diverse mutazioni predette deleterie nei geni coinvolti nella resistenza alla terapia tra cui PIK3CA, MAP3K1, MET, CD44, RB1. La mutazione presente su PIK3CA peraltro permane anche dopo aver aumentato il quality score (>30) e il suo ruolo di fattore predittivo può essere ulterioremente avvalorato dal fatto che tale mutazione è assente nei 2 campioni full responder analizzati.
Il nostro studio esplorativo, effettuato su una casistica di pazienti le cui caratteristiche cliniche sono in linea con i dati presenti in letteratura (in termini di percentuali di pCR ottenute), seppur limitato dall’esiguità campionaria e dall’assenza di una validazione finale, ha portato alla luce ancora una volta l’eterogeneità molecolare del carcinoma mammario pur all’interno dello stesso sottogruppo di malattia (nel nostro caso HER2- enriched). Inoltre ha permesso di correlare il profilo esomico dei singoli campioni tumorali con l’outcome clinico inteso in termini di risposta patologica completa. Sono emerse
101 differenze importanti nello spettro mutazionale tra i pazienti full responder e il paziente partial responder.
Alcune considerazioni, come quelle relative al ruolo di PIK3CA, costituiscono una conferma di quanto già noto in letteratura. Infatti, Loibl e coll. (100) hanno studiato le mutazioni di PIK3CA nel setting neoadiuvante in 504 campioni tumorali ottenuti dai partecipanti agli studi GeparQuattro, GeparQuinto e GeparSixto, utilizzando il sequenziamento classico di Sanger sull’esone 9 e sull’esone 20. Il 21,4% dei pazienti ha presentato una mutazione di PIK3CA e queste sono risultate associate con una percentuale minore di pCR (19.4% nei mutati vs 32.8% nei pazienti wild-type; OR 0.49, CI 0.29-0.83; p=0.008).
Allo stesso tempo, una volta ampliato il campione di studio, potrebbero emergere nuovi pathway implicati nella risposta alla terapia. Il confronto before therapy/after therapy effettuato nel paziente partial responder ci permette di effettuare già qualche speculazione: ad esempio, sarà interessante andare ad indagare il ruolo della mutazione sul gene NOTCH2NL, presente indifferentemente nei due campioni del paziente partial responder e assente nei full responder e quella sul gene NID1 che invece scompare dopo la terapia ed è contemporaneamente presente nei campioni full responder.
Alla luce di quanto detto, i nostri risultati ci inducono ad ampliare la casistica analizzata e a focalizzare la nostra attenzione su eventuali nuovi pathway individuati e implicati nella resistenza alla terapia. Le potenzialità del sequenziamento di nuova generazione sono inoltre molte, e tale strumento potrà permettere in futuro anche di ricercare nei campioni analizzati riarrangiamenti somatici e alterazioni del numero di copie geniche.
Oltre ai risultati ottenuti, il nostro studio enfatizza l’importanza della ricerca traslazionale nel perseguire miglioramenti in ambito oncologico. L’obiettivo è quello di poter introdurre un giorno nella pratica clinica nuovi biomarcatori in grado di condurre il clinico a scelte
102 sempre più appropriate, ottimizzate secondo le risorse disponibili e di offrire alle pazienti un trattamento sempre più personalizzato.
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