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5. Alcune forme d’integrazione

5.3 Il documentario di Massimo Graffeo

Massimo Graffeo è attore e regista, ma anche responsabile e docente del corso-scuola “Maschere d’Autore le magie della Scena” de l’associazione culturale: “La Scala di Afrodite” con sede a Caltanissetta. Ciò a cui, però, farò riferimento nel presente paragrafo è il documentario da lui prodotto e diretto nel 2010 a Marsala presso una comunità per minori.

Il documentario è stato realizzato nell'ambito di un progetto intitolato "vi racconto la mia vita". Il fine era quello di spingere i soggetti partecipanti a dare testimonianza diretta della propria esperienza di vita. Attraverso l'uso della telecamera e quindi della visibilità mediatica, essi hanno lanciato un messaggio, una speranza di riscatto di ricerca e di stabilità e miglioramento delle personali condizioni di vita. Hanno raccontato se stessi. Il progetto ha previsto il coinvolgimento sia di soggetti minorenni con limitazioni della libertà personale dovuta a reati commessi, sia di soggetti, sempre minorenni, extracomunitari sbarcati in Italia clandestinamente. Tale progetto ha coinvolto un numero di partecipanti pari a 15, la metà dei quali era extracomunitario proveniente, nella maggior parte dei casi, dal nord Africa e più precisamente dalla Tunisia, ma anche dal Marocco. I ragazzi erano in numero maggiore rispetto alle ragazze ed erano più propensi a prender parola a dispetto delle ragazze, più timide e riservate. La comunità per minori dove è stato realizzato il documentario si chiama "Il miglioramento", ha sede a Marsala e si occupa, appunto, di accogliere minori con disagi sociali, limitazioni della libertà personale e minori extracomunitari. Il progetto è stato svolto nel periodo di tempo che va tra gennaio 2010 e maggio 2010: sulle prime, il compito del maestro Graffeo è stato quello di educatore all'interno della comunità, quindi ha vissuto molto tempo con questi ragazzi, giorno e notte. Solo successivamente ha proposto agli stessi componenti del gruppo l'idea del documentario, che è stato accolto con entusiasmo e grande disponibilità sia dai ragazzi che dai responsabili della comunità.

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Dopo aver preso visione del documentario ho pensato di porre qualche domanda al maestro Graffeo circa la sua esperienza e il suo contatto diretto con il mondo nordafricano. Propongo, pertanto, qui di seguito, l’intervista integrale.

1) Maestro, cos’ha indotto un uomo di teatro a volgere lo sguardo verso l’utenza extracomunitaria ed, in particolare, verso gli immigrati nordafricani?

Come uomo di teatro la mia esperienza mi ha spesso condotto verso un confronto con colleghi extracomunitari attori e dopo una lunga esperienza di gestione di gruppi di adolescenti all’interno di istituzioni scolastiche e di comunità di recupero, ho ritenuto importante la necessità di coinvolgere minorenni immigrati nordafricani e non solo ma anche di altre etnie, per dar vita così, attraverso il racconto intimo della loro esperienza di vita, ad un processo di integrazione che come strumento fondamentale usa il teatro e la rappresentazione scenica, dando quindi a questi ragazzi, la possibilità concreta di esprimere le proprie difficoltà e le proprie speranze di vita. Rappresentare, raccontare se stessi come mezzo di comunicazione, come strumento per parlare al mondo, per testimoniare la loro esistenza per condividere le proprie idee, i propri usi e costumi. Quale miglior strumento se non il teatro per attuare tutto ciò.

2) Quale potrebbe essere, a suo avviso, la migliore delle ipotesi sociali di coesistenza ed integrazione, sulla base della sua esperienza professionale presso quella comunità?

Siamo noi adulti che dobbiamo dare l’esempio, una società che non sa accettare le diversità culturali e religiose non è una società fondata su valori democratici, una società che fin dai primi anni di scuola non insegna ai propri figli che l’integrazione con altre culture è fonte di grande ricchezza interiore, non è adeguata ai tempi che viviamo. La coesistenza e l’integrazione sono dei processi che necessitano di tempo e andrebbero a

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mio avviso inseriti in un contesto di un vero e proprio percorso pedagogico. La coesistenza e l’integrazione va insegnata, i bambini o un attore ai suoi primi passi per rappresentare qualcosa imita ciò che vede o sente, comportamenti o stati d’animo con il tempo, una volta scoperti ed interiorizzati, diventano bagaglio culturale e comportamentale.

3) Quali sono state le caratteristiche che hanno accomunato questi giovani che sono diventati protagonisti del documentario da lei realizzato?

La voglia di parlare di se, il desiderio di esprimere un disagio, un’emozione, che attraverso lo strumento video o lo strumento teatro, si amplifica e diventa speranza comunicativa.

4) Come si è manifestata la loro identità islamica all’interno della comunità?

Naturalmente, con la massima libertà di sentirsi islamici, nessuno degli operatori ha mai impedito a questi ragazzi di professare la propria fede, anzi attraverso dibatti e scambi di opinioni con gli altri elementi del gruppo, voluti per dare inizio al processo di integrazione, si è cercato di scoprire insieme le differenze tra fede islamica e cristianesimo. Se non comprendo la “diversità” come posso accettarla? Anche questo fa parte del percorso pedagogico.

5) Le pratiche religiose di questi giovani soggetti hanno influenzato il vostro rapporto didattico?

Assolutamente no, altrimenti che processo di integrazione sarebbe. I ragazzi durante la giornata avevano i loro spazi per dedicarsi, se volevano, alla loro religione in piena libertà.

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6) Lei ritiene che sia possibile un vero e proprio teatro dell’integrazione che accolga le istanze culturali di due popoli riportandole interamente sulla scena?

Perché no, il teatro è di per se luogo dell’integrazione, se chi insegna teatro riesce a far comprendere che le diversità culturali sono necessarie , se riesce a far comprendere che il linguaggio di un testo teatrale e della sua rappresentazione oltre al segno specifico dell’autore, e dell’epoca in cui è stato scritto debba anche portare l’eco del tempo storico e culturale in cui l’azione scenica si ambienta, allora si, le richieste si possono riportare sulla scena, le culture si fondono, dando vita a nuovi elementi di apprendimento.

7) Secondo lei, è possibile adottare il metodo Stanislavskij, che stabilisce una forte dialettica tra il mondo interiore della persona e quello scenico dell’attore, al fine di costruire un modello d’integrazione artistica ed intellettuale?

Penso che scrivere, fare, frequentare il teatro debba comportare il volersi misurare con le più svariate complessità del nostro essere abitatori del mondo. Il teatro deve insegnare a guardare negli occhi per cogliere il mistero, gli splendori e gli orrori della vita, deve insegnare che esiste un’anima in noi, presentificare il senso nascosto e renderlo tangibile. In questo caso credo di si, che il metodo Stanislavskij possa essere adottato per raggiungere tale scopo.

8) Quali differenze ha notato, sotto il profilo comportamentale, nella sua carriera di docente e regista, tra allievi o attori di cultura cristiana ed allievi o attori di cultura islamica?

Dal punto di vista comportamentale, ho potuto notare negli allievi di cultura islamica una maggiore propensione al rigore e al silenzio, ma sostanzialmente un allievo/attore a prescindere dalla cultura d’origine porta dentro se, in forme diverse gli stessi timori e le stesse speranze.

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9) C’è qualche episodio, nella sua esperienza presso la comunità, che le è particolarmente caro?

Ce ne sarebbero moltissimi, avere vissuto giorno e notte con questi ragazzi è stata per me un’esperienza di crescita importantissima, i loro sorrisi, i loro pianti sono dentro di me come un tesoro prezioso che mi ha arricchito e mi ha insegnato l’importanza della profondità dei rapporti personali, mi ha insegnato che tutto è effimero tranne l’amore che riesci a dare o che ricevi dagli altri.

10) Oggi, forte dell’esperienza, cosa pensa si possa fare per proporre dei modelli di conciliazione artistica ed intellettuale?

Io credo nella libertà di pensiero, credo che gli uomini di oggi debbano necessariamente confrontarsi con culture e credenze diverse dalle proprie e credo che questo confronto debba essere vissuto come fonte di assoluta crescita artistica e intellettuale. Ciò che credo può essere un modello? Non saprei ma è quello che penso ed è quello che voglio insegnare.

5.4 Un laboratorio esperienziale. Il Marocco berbero come