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Donne, guerra e Resistenza

Cristiana

3.1 Donne, guerra e Resistenza

«Molte, pur non avendo una precisa idea politica si schierarono a fianco di chi combatteva per la libertà, per sconfiggere i nazifascismi. Tutti corremmo gli stessi pericoli, rischiammo la vita non per meschini interessi personali, ma per tutti, per la pace, per un avvenire migliore nel quale speravamo con tanta forza »1

Prima ancora di addentrarci a ragionare in merito al protagonismo femminile durante il periodo resistenziale, credo sia opportuno precisare cosa si intende e cosa non si intende quando si utilizza il termine ormai sovra inflazionato di Resistenza. Di fatto la storiografia attuale è pressoché concorde nel considerare che non è possibile parlare di Resistenza al singolare quasi a voler considerare un fenomeno unico e compatto, ma piuttosto che si debba in realtà parlare di Resistenze e Liberazioni al plurale2 o, come meglio sostiene Francesco Traniello, di un: «crogiolo storico, in cui vennero a fondersi, senza confondersi o disperdersi, gli itinerari personali, esistenziali e interiori, di uomini e donne provenienti dalle più diverse storie, anche lontanissime»3. La Resistenza, o meglio le Resistenze, vanno analizzate come un processo «segnato in profondità da una collettiva, ma non uniforme ricerca di senso»4. Si deve dunque sgomberare il campo dai paradigmi che tendono ad incapsulare questo periodo storico in una schema univoco e rigido perché non fu affatto così.

Solo recuperando le storie personali dei protagonisti e i loro percorsi interiori, simili per certi aspetti, ma anche lontanissimi per altri, si può ridare un senso compiuto a un processo così complesso della nostra storia nazionale. Si può, cioè, in questo modo, tentare di cogliere l’ampiezza dei suoi significati e analizzare nell’insieme la variegata collettività che vi ha preso parte.

Inoltre ritornando ai protagonisti, uomini e donne, per lo più appartenenti al mondo comune, si disperde quell’alone eroico e mitologico che per anni è stato riferito alla

1 Testimonianza di Onorina Brambilla Pesce, in E. Ardenti, La Resistenza rimossa. Storie di donne lombarde, CGIL-SPI, Editore Mimosa, Milano, 2004, p. 20

2 Si veda in particolare la presentazione di F.Thébaud, Résistances et Libérations, in «Clio. Histoire, Femmes et Sociétés», n. 1, 1995, pp. 11-19

3 F. Traniello, Guerra e Religione, in G. De Rosa ( a cura di), Cattolici, Chiesa, Resistenza, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 54

Resistenza, per ritornare a considerare il processo nella sua dimensione reale e concreta. Ancora, parlare dei protagonisti ci permette di recuperare il vissuto quotidiano di quei lunghi mesi di lotta e soprattutto ci impone di dare una giusta considerazione ai singoli protagonisti siano essi uomini o donne. Fortunatamente infatti certi schematismi politico-ideologici sono caduti. Forse oggi la Resistenza appare meno “eroica” rispetto a quella mostrataci per anni dalla storiografia per lo più di sinistra5. A quasi 65 anni dalla fine della guerra si è verificato un processo di demitizzazione della Resistenza che, da una parte ha permesso un approccio storiografico più scientifico, ma dall’altra sta portando anche ad una sua delegittimazione pericolosa e fuorviante. La storiografia attuale ha finalmente accantonato il grande racconto unitario della guerra di Liberazione per porgere il suo orecchio alla portata innovativa della memoria dei protagonisti, siano essi uomini, ma soprattutto donne. In questa nuova ottica si è accettato di comprendere, tra il crogiolo dei protagonisti, anche le donne considerandole parte integrante di questo processo e non solo mero “contributo”, come per anni si è sentito dire. Per decenni, infatti, si è letto che le donne, con il loro ruolo subalterno e secondario, hanno svolto un compito sussidiario di assistenza e di aiuto alle bande partigiane. In questa considerazione il loro protagonismo veniva ripiegato in un compito assai più piccolo e di minore importanza. Le donne cioè avevano contribuito, in parte, alla Liberazione attuata e compiuta dagli uomini. Oggi invece si è concordi nel riconoscere il valore del lavoro femminile e di attribuire anche ad esse il merito e gli onori riconosciuti ai partigiani uomini. E questo è stato possibile grazie al lavoro di scavo e di ricerca compiuto, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, perlopiù dalle storiche.

Grazie, cioè, al recupero delle vite delle singole protagoniste e alla riscoperta delle loro azioni, delle loro scelte e del loro ruolo attivo. A favorire questa inversione di tendenza sono state alcuni nuovi elementi metodologici apportati dalle storiche:

l’utilizzo diffuso delle fonti orali e lo slittamento dalla focalizzazione sull’esperienza della Resistenza al complesso evento bellico6. Considerare cioè la seconda guerra mondiale come una guerra totale nella sua complessità e nella sua tragicità. Un

5 Cfr. G. De Rosa, Introduzione. La Resistenza attraverso la molteplicità del «vissuto religioso», in G.

De Rosa ( a cura di), Cattolici, Chiesa, Resistenza, cit., pp. 14-15

6 Cfr. M. Salvati, Riflessioni e ricerche per una geografia della storia delle donne e della guerra, in

conflitto cioè che ha scardinato ogni confine tra pubblico e privato; tra campagna e città; tra partecipazione militare e sostegno di retrovia; tra fronte interno ed esterno.

Molti storici ritengono che nella seconda guerra mondiale, di fronte ad una posta in gioco totale, non sia esistita una reale possibilità di sopravvivenza per una “zona grigia” che poteva chiamarsi fuori da ogni scontro7. Perché ogni energia della nazione era convogliata nello sforzo bellico, ma soprattutto perché ogni luogo diventava fronte di guerra. Ma non si può non considerare che la guerra raccontata e vissuta dagli uomini è diversissima rispetto quella narrata e subita dalle donne.

Questo anche perché, focalizzare lo sguardo sulla guerra e la violenza conduce, ancora una volta, all’emersione altre storie e porta a galla la categoria del dolore e della sofferenza e insieme il problema del non-detto, del trauma, del taciuto8. Non a caso le storiche sono concordi nell’affermare che: «analizzata nei soggetti femminili e con sguardo di donna, la guerra emerge innanzitutto come violenza»9. È la violenza della morte di massa, la violenza dei bombardamenti, delle stragi, delle distruzioni.

La violenza della perdita dei propri cari, ma anche la violenza degli stupri, delle torture, delle vendette. La stessa casa, da sempre considerato rifugio “sicuro” diventa un luogo pubblico. I soldati tedeschi, così come i fascisti o i partigiani possono entrare in casa in qualsiasi momento per nascondersi, per rubare, per incendiare, per catturare, per stuprare, oppure per uccidere. In questo contesto nessuno può più sentirsi al sicuro, nessuno è escluso dalla quotidianità del conflitto. Ed è proprio in questo contesto che le donne sentono la necessità di agire in prima persona, di non restare passive a subire la violenza che, in qualsiasi momento può arrivare dai tanti attori esterni tutti coinvolti nella guerra. Le donne dichiarano guerra alla guerra, con le armi e senza le armi, per affermare la vita contro la morte. E dunque necessita ora dare una nuova definizione anche della partecipazione alla guerra e alla Resistenza.

Partecipare non significa più solo imbracciare un fucile e andare a combattere al fronte, oppure in montagna. Certo la lotta armata è quella predominante in una guerra, ma esistono anche altri tipi di lotta e altre forme di resistenza che,

7 Ibidem, p. 15

8 Su queste riflessioni si vedano due saggi di D. Gagliani: La guerra come perdita e sofferenza. Un vagabondaggio negli evi e nelle rilevanze storiografiche, in «Parole Chiave», 1999, 20-21, pp. 187-209; D. Gagliani, La guerra totale e civile: il contesto, la violenza e il nodo della politica, in D.

Gagliani – E. Guerra – L. Mariani – F. Tarozzi Donne guerra politica, cit., pp. 21-43.

9 D. Gagliani – E. Guerra – L. Mariani – F. Tarozzi, Premessa, in D. Gagliani – E. Guerra – L.

nell’insieme, ci permettono di ricostruire quel fenomeno complesso che fu la guerra totale e la lotta di Liberazione. A partire dalla categoria di “Resistenza civile”

introdotta da Jacques Sémelin10, si è compreso che le pratiche inermi non furono il contraltare della lotta armata, il braccio disarmato del movimento partigiano o un sottoprodotto dei partiti, un limbo inorganizzato e impolitico. Ma furono una risposta corale ad una guerra che stava lacerando e distruggendo tutti. Dunque da questo di deve probabilmente partire per comprendere a pieno il desiderio di azione di tante donne. Donne contadine, montanare, cittadine animate da un sostrato comune che probabilmente non lo si può identificare solo nell’antifascismo. Come giustamente fa notare Anna Bravo

Ci sono ragioni e emozioni complesse e poco visibili alle categorie della politica, dal maternage alla stanchezza della guerra, all’orgoglio individuale e di comunità – penso a molti episodi di protezione degli ebrei, a ribellioni improvvise – […]. Leggere ogni gesto in chiave politica è stato una sorta di imperialismo retrospettivo11

Molte donne scelgono di partecipare in prima persona senza un reale impulso

antifascista, senza una precisa formazione politica, ma piuttosto come risposta ad una guerra che ormai durava da troppo e che doveva necessariamente finire.

Per questo il registro del materno sul quale Anna Bravo12 ha tanto insistito, quale orizzonte culturale in cui si sono confinati i gesti delle donne, diventa una chiave di lettura importante per comprendere le azioni femminili. Certo non potrà essere l’unica, ma indubbiamente potrebbe essere il nostro punto di partenza per analizzare le tante e nuove figure femminili che si delinearono nell’arco della guerra e della Resistenza.

10 J. Sémelin, Senz’armi di fronte ad Hitler. La Resistenza civile in Europa (1939-1945), Editore Sonda, Casale Monferrato, 1993

11 A. Bravo, Prefazione, in A. Guasco (a cura di), La guerra alla guerra. Storie di donne a Torino e in Piemonte tra il 1940 e il 1945, Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea “Giorgio Agosti”, Edizioni SEB 27, Torino, 2007, p. 6

12 A. Bravo – A.M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Laterza, Roma-Bari, 1995; A. Bravo, Maternage, Resistenza civile, politica, in D. Gagliani – E. Guerra – L. Mariani – F.

Ancora prima però di parlare del maternage e dei compiti delle donne, è bene apportare un’ultima, importante, precisazione. Non si può parlare del vissuto femminile senza tenere ben in considerazione le profonde differenze esistenti nell’Italia divisa del dopo 8 settembre 1943. La questione della geografia dell’esperienza femminile e della memoria è centrale, come bene individuò Ersilia Alessandrone Perona13, e si deve procedere in tale direzione per comprendere cosa è comune e cosa è diverso nelle storie delle donne e soprattutto per cercare cosa rende comune esperienze apparentemente assai diverse tra loro. Utilizzando il paradigma geografico si può anche capire più dettagliatamente la questione spinosa dell’autorevolezza o non autorevolezza della Resistenza. Si può cioè meglio comprendere dove e perché la popolazione fu solidale con i partigiani e dove e perché si sentì invece braccata tra partigiani, tedeschi e fascisti senza compiere una precisa distinzioni tra essi. Ma si può, in questo modo, anche individuare una cartina nuova dell’Italia caratterizzata dall’impegno delle donne nella vita politica immediatamente dopo la Liberazione. Infatti non in tutte le regioni italiane le donne si “innamorarono” della politica e questo andò di pari passo con la partecipazione, più o meno consapevole, alla Resistenza civile. Certo per l’Emilia Romagna si parla di una passione politica che investì le donne già all’indomani dell’otto settembre, ma in regioni come il Molise, oppure l’Abruzzo o la Basilicata o ancora in Puglia tale passione non sfociò con lo stesso impeto tumultuoso, come giustamente ha ribadito più volte nei suoi studi Sara Follacchio: «dalla Resistenza civile, realizzata all’interno di un universo contadino abituato a contare su energie e capacità femminili naturalmente e infinitamente moltiplicabili, non scaturì alcuna passione politica»14. Laddove cioè le donne parteciparono alla Resistenza come prova dovuta, come fatto naturale e spontaneo, e non spinte da una convinzione antifascista maturata durante il ventennio, dove cioè si spesero in prima persona senza dare il giusto peso ai rischi corsi, la passione per la politica fu molto più annacquata e meno condivisa.

13 E. Alessandrone Perona, Introduzione a, Le donne nella seconda guerra mondiale, in «Italia contemporanea», n. 195, giugno 1994, pp. 363-366

14 S. Follacchio, Esistenze femminili tra guerra e dopoguerra. Il caso dell’Abruzzo, in D. Gagliani – E.

Guerra – L. Mariani – F. Tarozzi, Premessa, in D. Gagliani – E. Guerra – L. Mariani – F. Tarozzi

Ma anche queste differenze appartengono al nostro processo di liberazione e di unità nazionale.

Del resto non si può affatto prescindere dalle diverse realtà esistenti in Italia. In un’Italia del sud già liberata esistono problematiche e vissuti diametralmente opposti rispetto al nord. Non solo, la stessa lotta di Liberazione assume significati profondamente diversi. Tra chi lotta per liberare l’Italia e chi per liberare le proprie terre dalla violenza dei tedeschi e delle camicie nere. Tra chi conosce la durezza dell’occupazione tedesca solo per poche settimane e chi visse assediato per più di venti mesi. Tra chi si ritrovò sotto il Regno del Sud e chi dovette rispondere alla ferocia della Repubblica di Salò. Esistono dunque molte Italie. Esistono zone dove è forte la tradizione politica e organizzativa, come ad esempio l’Emilia Romagna dove si può parlare di una Resistenza molto più politicizzata, oppure la Toscana o l’Umbria e altre zone dove questa tradizione è pressoché nulla. Zone dove più forte è il peso della Chiesa cattolica, come ad esempio nel Veneto, in alcune parti del Piemonte contadino o del sud e altre dove ancora è pregnante la fede monarchica.

Con questi tasselli il puzzle che si può ricomporre è eterogeneo e disomogeneo e non permette quindi di poter fare un discorso omologato quando si parla de protagonismo femminile nella Resistenza.

Ma cosa fecero dunque le donne?

Le donne fecero tanto, e in modo tanto diverso. Furono madri, staffette, partigiane armate, organizzarono i soccorsi, la raccolta di armi, di munizioni, di documenti falsi, di cibo, di vestiti e medicine, si ingegnarono per nascondere perseguitati ed ebrei, ma ognuno di questi compiti fu svolto diversamente a seconda delle zone in cui esse militarono.

Detto questo è opportuno fornire una descrizione, per quanto non esaustiva, dei compiti svolti dalle donne durante la guerra e in particolare la Resistenza.

Se per decenni l’unica Resistenza riconosciuta dalla storiografia fu quella armata, anche noi, nel nostro excursus possiamo cominciare con il ricordare quelle donne che parteciparono alla lotta armata, scegliendo la strada della clandestinità e la vita di brigata. Salire in montagna, indossare vestiti maschili, imbracciare le armi rappresentò per esse un cambiamento rivoluzionario, come bene sintetizza in poche righe una partigiana reggiana:

«Sono stata su nove mesi, sono andata su in agosto e sono venuta giù il venticinque aprile.

Quando sono tornata giù ero una persona diversa. Arrivi e il comandante ci interroga e dice: “Da questo momento tu sei un partigiano, perciò qui non esiste differenza tra uomo e donna, tu mangi con noi, dormi con noi»15

Molte delle testimoni insistettero proprio sui rapporti paritari esistenti nella brigata partigiana, quasi a voler ribadire con forza il cambiamento epocale che esse vissero come italiane, ma prima ancora come donne. A questo proposito ad esempio Diana Sabbi affermò con forma: «io in brigata non ho mai fatto la cuoca!»16, oppure Elsa Oliva, la quale dichiarò: «al primo combattimento ho dimostrato che sapevo combattere come loro e che l’arma non la tenevo solo per bellezza, ma per mirare e per colpire»17. Vi furono dunque donne “eroiche” che combatterono con le armi affrontando i nemici in battaglia come Marisa Musu o Carla Capponi che entrarono a far parte dei GAP e parteciparono a molte azioni di guerriglia, a sabotaggi e ad attentati tragici quale quello di via Rasella e furono poi decorate rispettivamente con la medaglia d’argento e quella d’oro al valore militare18.

Ma anche molte partigiane che ammisero, al contrario, di aver avuto un rapporto controverso con le armi. Molte, pur costrette a girare armate per difendersi da ogni pericolo, confidarono felici di non averle mai usate, altre ancora ingenuamente confessarono di non avere mai imparato nemmeno ad azionarle. La stessa Marisa Rodano, nel raccontare la sua esperienza di clandestinità e di lotta, ammise di non aver mai utilizzato armi: «non mi è nemmeno mai venuto in mente di esserne capace,

15 A. Malavasi, Storia di una donna nel ‘900. la fatica della libertà, cit., p. 52

16 Cfr. D. Gagliani, La guerra totale e civile: il contesto, la violenza e il nodo della politica, in D.

Gagliani – E. Guerra – L. Mariani – F. Tarozzi Donne guerra politica, cit., p. 41.

17 Intervista di Elsa Oliva, in A.M. Bruzzone – R. Farina (a cura di), La Resistenza taciuta, cit., pp. 56

18 Carla Capponi, vice comandante di una formazione di GAP romana, ha partecipato all’attacco in via Rasella del 24 marzo 1944, decorata con medaglia d’oro al valore militare. Per conoscere meglio la sua storia si veda, C. Capponi, Con cuore di donna, Il Saggiatore, Milano, 2000; M. Alloisio – C.

Capponi – B. Galassi Beria – M. Pastorini (a cura di), Mille volte no! Testimonianze di donne della Resistenza, Unione Donne Italiane, Roma, 1965;

Marisa Musu, gappista, insieme a Carla Capponi, Franco Calamandrei, Lucia Ottobrini, Luigi Pintor partecipò all’attacco in via Rasella del 24 marzo 1944, decorata con medaglia d’argento al valore militare. Dopo la Liberazione ha fatto parte del comitato centrale del Pci ed è stata giornalista a « Paese Sera » e a « L’Unità ». Ha scritto due libri, M. Musu, La ragazza di via Orazio. Vita di una comunista irrequieta, Mursia, Milano, 1997; M. Musu – E. Polito, Roma ribelle. La Resistenza nella

ma non so come mi sarei potuta comportare se me lo avessero chiesto. Lo stato di necessità non lasciava molto spazio alle opzioni personali»19.

Ma nemmeno i compagni di certe brigate non lasciavano alle donne spazio per le loro opzioni personali. Capitava spesso, infatti, che le partigiane si sentissero rifiutare l’utilizzo delle armi proprio dagli stessi compagni, per colpa di retaggi culturali radicati. Questo racconta, ad esempio, Angelica Casile, partigiana bresciana:

«Per essere accettata sono stata messa alla prova e ho partecipato a un “disarmo”:

l’azione consisteva appunto, nel disarmare i fascisti […]. Sono andata con Tino alla stazione delle Valli, Tino aveva la pistola, a me diede una pipa dicendomi: “Tu gliela punti alla schiena” […]. Di questi disarmi ne ho fatti tanti, ma sempre con la pipa, mai con un’arma vera»20. Simile è pure il racconto di Rosetta Solari, partigiana parmense. Dopo aver partecipato ad un’azione di guerriglia, nella quale venne catturato e disarmato un fascista, Rosetta così si sentì apostrofare dal suo comandante: «Il fucile del prigioniero fascista lo porti tu, mica possiamo lasciarlo al fascista. Lo porti tu, ma non farti delle idee strane…tanto è anche scarico»21. Poi lo stesso comandante seriamente ammette davanti a lei che una donna in brigata è una seccatura. Rosetta riporta questo episodio sul suo diario:

«Uomini attorno ad un tavolo hanno deciso: “una ragazza al campo è una seccatura, un guaio”. Forse fin dall’inizio lo hanno pensato, fin dalla prima marcia […]. I libri di studio…sono tutti propaganda, il posto della donna, tutti uguali, compagni, compagne tutti uguali, tutti impegnati, tutti responsabili, il posto della donna, il peso di un’intera cultura, il vecchio tabù, vecchio come la specie. […] Parole, parole vuote, la promessa non mantenuta, parole vuote, niente è cambiato…il posto della donna…»22

Ma forse ancora più significativo è quanto pubblicato, nell’agosto 1944, su la

«Gioventù liberale» di Torino, organo giovanile del partito liberale:

19 Intervista di Marisa Rodano rilasciata telefonicamente ad Elisabetta Salvini il 26 novembre 2007, si veda anche Centro Italiano Femminile, Memorie di donne a cinquanta anni dalla Costituzione, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Roma – Pisa, 1995, pp. 9-18; M. Rodano, Del mutare dei tempi, Volume Primo, L’età dell’inconsapevolezza il tempo della speranza 1921-1948, Memori, Roma, 2008

20 Testimonianza di Angelica Casile, in E. Ardenti, La Resistenza rimossa. Storie di donne lombarde, cit., p. 44

È perfettamente inutile rivestire ragazze isteriche con tute mimetizzate, por loro a spalla fucili mitragliatori, inghirlandar loro la vita con bombe a mano, in quanto che il solo gesto di paragonar la donna all’uomo fa perdere a questa ogni prerogativa di femminilità23

La paura per le armi e il loro rigetto, per molte, deve essere letto come un rifiuto della violenza. Sparare significava uccidere e per tanti partigiani - donne e uomini - specialmente per i cattolici, questo poneva un problema etico e morale di assoluta gravità. Tina Anselmi, nel raccontarsi con generosità e intelligenza ammette che:

«ancora oggi mi reputo fortunata per non aver dovuto uccidere. Ricordo che uno de primi problemi che mi posi partecipando alla lotta armata fu: se mi prendono, se la mia vita dovesse dipendere chi mi ferma, potrei uccidere?»24.

Il sentirsi o meno legittimati a dare la morte: questo è il problema morale. E un problema che è tutto altro che privato, perché, come sostiene Sergio Cotta: «non c’è nulla di meno privato, nella deliberante coscienza personale e nel suo agire, dell’atto di dare la morte»25.

Tale riflessione appartenne a molte protagoniste della lotta armata e ognuna cercò nel suo intimo di trovare una propria risposta al proprio agire quotidiano. Chi con maggiore difficoltà, chi forte della motivazione finale. Per molte cioè il fine giustificò i mezzi e la Liberazione venne prima delle stesse questioni morali.

Inoltre non si deve dimenticare che tale questione fu più o meno presente anche in funzione del carattere stesso delle partigiane. Sempre Anita Malavasi, ad esempio, confessa la sua emozione nei confronti delle armi:

«Questa è la prima emozione. Di giorno ti insegnano ad adoperare le armi, perché io ero combattente. Mia cugina no, lei dopo è andata a scrivere a macchina, è andata impiegata. Lei aveva anche un altro carattere.

23 Cfr. La stampa clandestina liberale 1943-1945, I, in, La stampa periodica, Reggio Emilia, 1968, pagine non numerate

24 T. Anselmi – A. Vinci, Storia di una passione politica. La gioia condivisa nell’impegno, Sperling &

Kupfer, Milano, 2006, p. 32

25 S. Cotta, La Resistenza armata: la questione morale, in G. De Rosa ( a cura di), Cattolici, Chiesa,

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