Lungi dall’essere capolavoro poetico, il testo di Marcello tuttavia poteva offrire a Marchetti quanto meno un aspetto di rilievo, come sopra notato, vale a dire quello di poter interpretare la città di Verona come dramatis persona. La scrittu-ra del musicista tuttavia non pare volgersi a quella direzione: l’apertuscrittu-ra del
ba-canàl ripete il tópos della scena d’insieme non altrimenti connotato, già italiano
come del grand-opéra francese. Le potenzialità di paesaggio, ugualmente, non vengono sfruttate (il fiume Adige, le «torricelle», cioè le colline, pur presenti nei versi di impianto). Marchetti interpreta Romeo e Giulietta secondo la più diretta lettura della tragedia amorosa, basata su quattro personaggi di fondamento, cioè i due amanti, Frate Lorenzo e Paride, in quest’ultimo caso ottenendo un buon bilanciamento dei registri vocali, inserendo un baritono in ruolo intermedio cui dedicare spazio cospicuo, tra soprano e tenore protagonisti, affiancati dallo stru-mento (potenziale) della Grazia in registro di basso.
Ma lo scrupolo della «fotografia», di cui nell’«Avvertimento», è tuttavia ben presente a Marchetti, che con onesto mestiere, e una certa quale commendevole umiltà, provvede a musicare la tela tentando di osservare le esigenze intangibili del sacro testo da mettere in scena, pur con ripensamenti a distanza d’anni15. Da questo punto di vista, risulta più significativa la prima versione del 1865 rispetto alla revisione per La Fenice di Venezia, per quanto sia stata quest’ul-tima a cogliere quel successo notevole di pubblico che era mancato nei sette anni precedenti, e che aveva generato in Marchetti più d’una preoccupazione, nonché rammarico, per la «povera Giulietta»16. La versione di Trieste è la prima nella storia del teatro musicale italiano a non prevedere duetto nella scena finale,
15 Romeo e Giulietta ha due versioni: la prima del 1865, andata in scena al Teatro Comunale di Trieste il 25 ottobre di quell’anno, e la seconda che debuttò alla Fenice di Venezia il 10 marzo del 1872. La differenza più evidente consiste nel finale cambiato, laddove alla rispettosa sequenza del 1865, in cui Romeo muore prima del risveglio di Giulietta, si sostituisce nella versione ultima un duetto in limine mortis, poco shakespeariano ma ben più adatto alla platea melodrammatica. Come da intenzione dichiarata nell’«Avvertimento», il libretto originale di Marcello non prevedeva il duetto tra Romeo e Giulietta, terminando l’opera con fedeltà al modello d’impianto: nello spar-tito del 1865, infatti, dopo che Giulietta ha ringraziato Dio, Romeo «si caccia le mani nei capelli e cade morto», esclamando «io moro!». Giulietta, alla vista dell’amato morto, si pugnala. Solo per la versione del 1872 Marchetti rielabora il testo, convinto della necessità melodrammatica di soddi-sfare l’orizzonte d’attesa del pubblico con un ultimo incontro e un pateticissimo duetto conclusivo. Storia, varianti e ricezione dell’opera sono analizzate nel dettaglio in L. Lugli, A.R. Severini, Tentato
da Shakespeare: “Romeo e Giulietta”, in Filippo Marchetti. Nuovi studi per la prima rappresentazione in epoca moderna di “Romeo e Giulietta” (Festival della Valle d’Itria), a cura di L. Lugli, Libreria
Musicale Italiana, Lucca 2005, pp. 69-133.
16 Cfr. in particolare la corrispondenza del Marchetti con Leone Giraldoni, Eugenio Tornaghi, Francesco Lucca, Francesco Florimo consultabile in F. Marchetti, Epistolario, a cura di L. Lugli, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2004, passim.
coerentemente con il testo shakespeariano, laddove Giulietta si risveglia subito dopo la morte di Romeo: sia Foppa-Zingarelli nel 1796, che Romani per Vaccai nel 1825 e per Bellini nel 1830 optano invece per un’estrema caratterizzazione lirico-elegiaca maggiormente spettacolare, tuttavia certo meno espediente ai fini dell’incisività tragica.
Veniamo ai rilievi generali. Marcello aveva condensato i cinque atti di Shake-speare in quattro, con corrispondenza rispetto alla fonte I-I; II-II e III, 2; III-III, 5 e IV; IV-V. Per uniformare il plot in chiave di «dramma lirico» vengono espunti sia i tre musicisti che Mercuzio, in modo da non deviare mai verso il contrasto comico-drammatico, e mantenere dunque il racconto il più austero possibile, con massimo rilievo al personaggio di Frate Lorenzo quale figura dell’azione frustrata, nella sintesi tragica (ancora una volta: diversa dalle tre versioni mu-sicali italiane precedenti) in cui la dimensione di conflitto sociale è pressoché assente, in favore della messa in testo esclusiva del quesito metafisico sul tema amore-morte-destino.
Un ruolo centrale, dal punto di vista della forma drammaturgica, assumono i preludi strumentali dei quattro atti. Il primo è suddiviso in tre movimenti,
Andante mosso, Larghetto e I tempo17. Il brano principia con la figura musicale fondamentale dell’intera opera, un tremolo in Fa minore sul quale si innesta un intervallo di ottava ascendente intonato dai violini18 [es. 1].
L’inciso è impiegato nel corso dei quattro atti per sette volte, e si può quindi considerare un elemento di reminiscenza semplice, en bloc in quanto non subisce significative trasformazioni à la manière wagneriana, e tuttavia è un indicatore di presenza espressivo fondamentale, in quanto figura a un tempo dello slancio amoroso come del levarsi del pugnale che pone fine alla vita di Giulietta19. L’ot-tava, questa volta discendente, è poi utilizzata nella climax delle ultime parole di Giulietta dell’atto IV, significativamente sulla parola «muoja» [es. 2].
Nel medesimo Preludio, nel Larghetto, è possibile notare una sequenza mo-dulante in crescendo: passando da Fa a Si@, La, Re, La@, Sol@, Fa, Mi@, sug-gerisce lo sviluppo a un tempo tortuoso ma irresistibile della passione, in un
continuum virtualmente senza fine che viene arrestato da un altro tremolo di
17 Il Preludio I richiede l’impiego di tutta l’orchestra. Nella revisione della partitura curata da Lamberto Lugli, l’organico è così composto: Ott., 2 Fl., 2 Ob. (2° anche Cr. ingl.), 2 Cl., 2 Fg., 4 Cr., 2 Trb., 3 Trb.ni, Tu., Tp., G.C., Camp., A., Org., Archi, Banda (Cfr. F. Marchetti, Romeo e
Giulietta, Bmg Ricordi, Milano 2005).
18 Gli estratti dallo spartito canto e pianoforte sono tratti da Romeoe Giulietta / drAmmAliri
-coinQuAttroAtti / di / m. mArcello / musicAdi / F. mArchetti / milAno F. luccA, s.d., messo gentilmente a disposizione dalla Biblioteca “Gianni Milner”, Fondazione “Ugo e Olga Levi” di Venezia, dove il volume è allogato con segnatura C. 187.
19 Cfr. F. Bissoli, A.R. Severini, Romeo e Giulietta, in Filippo Marchetti. L’uomo, il musicista, a cura di F. Bissoli, Bongiovanni, Bologna 2002, p. 56.
spiccata drammaticità. Il I tempo ha conduzione più serena, in quanto apre alla prima scena, che rappresenta la festa di Carnevale per le vie di Verona, e tuttavia ribadisce ancora la medesima figurazione d’inizio [es. 3].
Il preludio all’atto II è ugualmente aperto da un tremolo, ora però in Fa maggiore e in pp: prepara la «scena al balcone», e dunque la stimmung ne risulta lirico-estatica, prima del duetto. Allo stesso modo, il preludio all’atto III, con indicazioni d’espressione continue verso il lirismo più deliquescente (sensibile,
Es. 1. F. Marchetti, Romeo e Giulietta, Preludio I, Andante mosso, attacco
amoroso, dolcissimo), è in un Do maggiore ancora una volta preparatorio della
scena nell’alcova, dopo il matrimonio e la notte d’amore. Ancora Bissoli e Seve-rini notano assai opportunamente come la tonalità sia la dominante del Fa mino-re tragico d’apertura, e dunque come quest’ultima tonalità sia in certo qual mo-do implicita, proiettanmo-do la sua «ombra di morte»20 su tutta la scena successiva.
Con simmetria vagamente didascalica, Marchetti propone nell’ultimo pre-ludio, quello all’atto IV, un esordio in tutto eguale al Preludio I: dieci battute con le quali la tragedia viene così incorniciata, e in seguito rilevata al massimo grado da un Larghetto metamorfosato in marcia funebre, scandita dalla tromba sullo sfondo degli archi, ancora in Fa minore. Subito dopo, a partire dalla ven-tiquattresima misura, in sequenza viole e contrabbassi, e poi clarinetti e fagotti, propongono un nuovo inciso melodico, che verrà ripreso da Romeo nella sua
monodia di chiusura. Si tratta di una breve melodia che «esprime la rabbia di
Romeo per la perdita dell’amata e si contrappone alla delicata discesa in legato di crome che indica il pianto»21.
Dalla sintesi di cui sopra, risulta come Marchetti abbia inteso mettere a fuoco il più possibile l’elemento spiccato di austerità tragica, sottolineandolo a partire dal libretto di Marcello, di cui condivide la tensione verso la depurazione mas-sima da ogni costituente leggero, comico o triviale. In questo senso, come già notato, il Romeo e Giulietta di Marchetti punta con decisione al sublime, o per meglio dire alla sua versione popolare ottocentesca, il melodrammatico, gestendo l’esclusione di Mercuzio o la definizione “epurata” della nutrice in vista di una riscrittura in cui solo l’emozione, il sentimento survoltato, il patetico e l’estatico siano gli attori interiori della rappresentazione. Una soluzione
drammaturgica-20 Ivi, pp. 62-63.
21 Ivi, p. 65.
Es. 3. F. Marchetti, Romeo e Giulietta, Preludio I, I tempo, finale.
mente significativa, per esempio, è possibile rilevare nel corso di I, 7, ovvero al momento del primo incontro e duetto tra i protagonisti. Forte dell’esperienza verdiana nello sfruttare le potenzialità dell’incrocio diegetico-extradiegetico, Marchetti interpreta tutto l’episodio narrativamente centrale, vale a dire l’inna-moramento, nello sfasamento del fuoco della rappresentazione drammaturgico-musicale tra il ritmo festoso della musica on stage, un ballabile leggero in 6/8 ap-punto ad accompagnare l’allegria della mascherata, e l’estasi del riconoscimento amoroso tra i due giovani, in cui le parole pronunciate sono ben più roventi della spensierata gaiezza della musique de fosse. Il tempo ne risulta come sospeso, in un’interpretazione precisa della fonte shakespeariana che ugualmente prevede musica in scena, per la festa, mentre Romeo e Giulietta si scambiano la prima dichiarazione d’amore.
Ma non ci sono, nell’opera, i taglienti scarti di registro che giustappongono le scurrili considerazioni sul sesso di Mercuzio alle accensioni liriche di Romeo, né i doppi sensi volgari della nutrice alla purezza stupita di Giulietta, così come si presentano con inaudita potenza puramente umana nella tragedia di Shake-speare. Quello che resta, però, non pare davvero in grado di plasmare figure au-tenticamente tragiche, né di affiancare il miglior melodramma italiano dell’epoca dal punto di vista del realismo scenico, dello scavo psicologico, dell’efficacia drammaturgica, la qual cosa risulta evidente a dar uno sguardo pur veloce alla caratterizzazione vocale dei personaggi.
La scelta del registro di tenore per Romeo rappresenta una novità, nell’am-bito del teatro musicale italiano (sopranista per Zingarelli, mezzosoprano per Vaccai e Bellini). Al proposito, Giancarlo Landini osserva come la parte del pro-tagonista presenti «tutti gli elementi della vocalità romantica: il canto legato, l’a-riosità agogica, la presenza di melismi chiamati ad increspare la linea e a renderla aggraziata», rilevando altresì, nel duetto con Paride in I, 4, una «tessitura [...] caratteristica degli innamorati verdiani alla maniera del Duca di Mantova e di Riccardo, con una tendenza [...] a cantare sul passaggio e a prevedere una serie di gradazioni dinamiche che comprendono anche il canto a fior di labbro»22. È poi soprattutto nella «monodia e catastrofe» dell’atto IV che Marchetti riesce a infondere al personaggio tratti di una certa autenticità drammatica, alternando declamato – Larghetto – declamato – Larghetto, variandoli in stile parlante, Lyric
form, cantabile e finale vorticoso rapidissimo: in questo senso riuscendo a
resti-tuire, quanto meno quale schema, il delirio suicida del protagonista.
Meno up-to-date, e anzi piuttosto rigida e liricamente convenzionale, appare la scrittura per il ruolo di Giulietta, in cui abbondano scansioni giambiche in funzione fatica elementare e a cui è dedicata una cabaletta drammaturgicamente
alquanto incongrua al termine di III, 4, dopo che la giovane ha ricevuto l’ampol-la con il finto veleno, conoscendo il piano di Frate Lorenzo23 [es. 4].
La scrittura giubilante e virtuosistica, che vorrebbe dar conto della speranza della protagonista in una possibile salvezza, risulta ridondante e completamente fuori dalla necessaria concentrazione tragica del momento: concessione eviden-te alla plaeviden-tea, distrugge la eviden-tensione solo parzialmeneviden-te recuperata in chiusura di scena, con il pianissimo dei violini a riprendere il motivo lirico dell’invocazione alla Vergine con cui la scena aveva principiato.
Una simile scrittura convenzionale è possibile notare anche in un altro mo-mento forte della drammaturgia, cioè nel duetto che apre l’atto II, che apre in Fa maggiore con un tremolo in pianissimo che richiama il Preludio I: la risonan-za, anche dal punto di vista timbrico, suona suggestiva anche se, come detto, manca di sfruttare la potenzialità di setting prevista dal testo di Marcello («Riva dell’Adige. [...] È notte: e il silenzio è interrotto solo dal rumore dell’onda e dallo stormire delle foglie agitate dal vento notturno. [...]»). Ne sortisce dunque una sorta di tappeto sonoro quale indicatore di attesa, ma quando ha inizio la «scena al balcone» l’accompagnamento orchestrale si scioglie in un tipicissimo 3/4 dattilico nell’Andantino, che fa letteralmente a pezzi le immagini della poesia
23 Esempio tratto da Lugli, Severini, Tentato da Shakespeare cit., p. 97. Es. 4. F. Marchetti, Romeo e Giulietta, III, 4, cabaletta di Giulietta.
shakespeariana tradotta con una certa fedeltà da Marcello: affidate alle quarti-ne di decasillabi anapestici con quarto verso tronco, sommandosi al 3/4 scelto da Marchetti, le parole scandiscono un tactus concitato ma disomogeneo, poco adatto all’aura erotico-estatica della scena.
Detto di un Frate Lorenzo convenzionale, che entra in scena in II, 4 con un declamato parlante su prevalenza di ieratici endecasillabi (al modo dell’intona-zione recitativa liturgica), e che tale fissità mantiene per gran parte della vicenda, degno di nota risulta il ruolo di Paride, che nella riscrittura di Marcello compa-re sin dall’inizio amico di Romeo e suo difensocompa-re, così che nell’opera manca il duello finale tra i due. Paride, in III, 7, intona con espansione mélo-sentimentale un’aria dal profilo elegiaco assai distante dal tragico enfatico shakespeariano
Beguil’d, divorcèd, wrongèd, spited, slain! Most detestable Death, by thee beguil’d, By cruel cruel thee quite overthrown!
O love! O life! Not life, but love in death!24
e invece assai prossima a quella che, pur in altro contesto, Marco Beghelli defi-nisce, a causa dell’insistente utilizzo della diminuzione ritmica in terzine su im-pulso binario, «sublimazione sensoriale», quale «metafora dell’estasi sonora»25 [es. 5].
Non dilaniato compianto funebre, dunque, ma contemplazione elegiaca edulcorata. Appare dunque un po’ goffo il termine di scena e di atto con Paride il quale prima sta per pugnalarsi e poi viene fermato da Frate Lorenzo, con tanto di campane in sottofondo, che lo invita a pregare: la buona idea di plasmare un ruolo baritonale, quarto personaggio realistico tra gli ideali assoluti dell’amore-morte, rappresentato dai due amanti, e della Grazia impossibile incarnata in Frate Lorenzo, finisce in un’eleganza soave drammaturgicamente incongrua.
Ingenua, insomma, come può dirsi globalmente di questa volonterosa ma un po’ sfocata “fotografia” di Romeo e Giulietta.
24 Romeo and Juliet, IV, 4, 55-58. Così traduce Salvatore Quasimodo: «Tradito, allontanato, ingannato, offeso, assassinato! / Tradito da te, odiosissima morte, da te, crudele, / crudele, e ormai distrutto! O amore! O vita! / Non più vita, ma amore nella morte!» (in W. Shakespeare, Le tragedie, a cura di G. Melchiori, Mondadori, Milano 2000, p. 221).
25 M. Beghelli, La retorica del rituale nel melodramma ottocentesco, Istituto nazionale di studi verdiani, Parma 2003, p. 178.