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Drammaturgo di didascalie

di Franco Ruffini Franco Perrelli W I L L I A M B L O C H LA REGIA E LA MUSICA DELLA VITA pp. 200, € 14,50, Led, Milano 2001

W

illiam Bloch fu "istrut-tore di scena" al Teatro Reale di Copenaghen dal 1881 al 1909, con qualche an-no d'interruzione in mezzo. La qualifica di "istruttore" non ha valenza pedagogica; sta per coordinatore e guida nella costruzione dello spettaco-lo: cioè, diremmo oggi, sta per regista.

Erede di un facoltoso commer-ciante di tessuti, William Bloch non arriva al teatro come figlio d'arte, in ciò riproponendo la si-tuazione di più celebrati maestri del Novecento. Con l'amico Ni-colai Bogh e in proprio scrive, negli anni settanta, commedie che si segnalano per la precisione e l'abbondanza invasiva delle di-dascalie. "Drammaturgo di dida-scalie" lo definisce Perrelli. Chia-mato al Teatro Reale, dà avvio con il direttore Edvard Morten Fallesen a una ricca stagione di

allestimenti, in cui il prestigioso teatro seppe conciliare istanze istituzionali e sensibilità al nuo-vo. Importanti furono le messe in scena dei drammi di Ibsen, da

Un nemico del popolo, con ben

32 prove e circa 500 pagine di note, ali 'Anitra selvatica alla

Donna del mare, sempre

all'inse-gna di una grande cura dei detta-gli e di rispetto per le indicazioni contenute nel testo. Del

Costrut-tore Solness, Perrelli pubblica in

appendice un'accurata ricostru-zione documentaria della mes-sinscena del 1893, completando una serie di contributi su questo dramma prodotti nell'ambiente del Dams di Torino, in cui Per-relli insegna.

A

parte gli allestimenti, tra i quali quelli di Holberg co-stituirono una vera e propria "reinvenzione" del grande dram-maturgo scandinavo, vanno ri-cordati gli interventi teorici, sia sulla messa in scena sia sull'arte dell'attore. Una querelle del 1901 con Emil Poulsen, attore del Tea-tro Reale, permise a Bloch di esprimere le proprie opinioni sui compiti dell'"istruttore di sce-na", contro la prospettiva che li voleva già compresi in quelli di un buon primo attore. Pochi an-ni prima, aveva pubblicato due lunghi saggi sulla recitazione. Su questi scritti opportunamente si sofferma Perrelli, indicandovi si-gnificative e consistenti analogie con Stanislavskij. E un secondo livello del suo studio, in cui la vi-cenda di Bloch si svincola dal

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ricordia-mo, lo stesso Bloch si era pro-dotto), istruzione di scena, re-gia: è questa la catena ininter-rotta che Perrelli propone, con l'avallo indiretto di un maestro riconosciuto come Stanislavskij.

Ma Stanislavskij è un nome per diverse realtà: e lo stesso vale per la regia. Le regie cechoviane, coi relativi quaderni, sono proprio quelle che Stanislavskij rifiuterà, ascrivendole alla tradizione "ot-tocentesca" del regista dittatore alla Meininger, e rivendicando di contro una nuova concezione della regia. Lo preannuncia nella voce L'arte dell'attore e l'arte del

regista per l'Encyclopedia

Bri-tannica; lo dichiara esplicitamen-te in una letesplicitamen-tera a proposito del-la messinscena del Gabbiano-, e infine basta mettere a confronto il quaderno di regia di Tre

sorel-le, ad esempio, con quello di Otello. In tutt'e tre i casi siamo

alla fine degli anni venti, a quasi un trentennio di distanza dalle prove cechoviane.

L

'"istruzione" non è il primo passo della nuova regia; è l'ultimo passo della vecchia dire-zione di scena. E tra quell'ultimo e il primo passo a venire c'è solu-zione di continuità. In questo "salto", la (nuova) regia delinea la propria identità, recuperando tutta una sapienza che viene dal prima ma metabolizzandola per un dopo che non vede più nel-l'allestimento - nella mise en

scè-ne di un testo - il compito unico

della regia, e nemmeno il compi-to prioritario. Nella ricordata vo-ce per l'Encyclopedia Britannica, Stanislavskij definisce così il compito del regista: "agevolare la creatività degli attori, sorvegliarla e integrarla, vigilando che si svi-luppi naturalmente e solo dal ve-ro nucleo artistico del dramma". Qui le didascalie dei livrets

scéni-ques c'entrano poco; c'entra

po-co il proposito di prefissare la messa in scena. C'entra invece la creatività dell'attore, come lunga e cosciente autodisciplina per stanare la "verità" sotto la crosta di manierismi e clichés e inerte memoria dei muscoli.

Anche Bloch parla di verità contro la recita di maniera, è ve-ro; anche Bloch chiede agli atto-ri di "sentire", facendo atto-ricorso alle proprie esperienze di vita. Ma per Bloch è una nostalgia, può essere persino la corda se-greta del suo talento pedagogi-co. Per Stanislavskij fu una

"scientia": che vuole tempo e

lunga pazienza. Passano dai ven-ti ai trent'anni dalle prime accese professioni di fede nella revivi-scenza basata sui sentimenti, alle raccomandazioni di non fidarsi dei sentimenti e basarsi, invece, sulle più umili ma affidabili "azioni fisiche". Ancora un tren-tennio. Qui il salto sta nel fatto che, a differenza di Bloch, Stani-slavskij mise a punto le articola-zioni di un lavoro da durare una vita, mirato proprio a "diventare (organicamente) un altro".

Quanto più la regia si imba-stardisce in una pratica corriva in cui tutto e niente è regia, tanto più crediamo che spetti alla cul-tura del teatro rivendicarne la ca-rica rivoluzionaria. E lo stesso, quanto più il lavoro dell'attore si imbastardisce tra accademia e tivù e new age, tanto più credia-mo che spetti alla cultura del tea-tro rivendicarne la vocazione tra-scendente di "lavoro su di sé", che però solo il tempo e la lunga pazienza di Stanislavskij sono in

grado di riconoscervi. • ruffini@uniroma3.it

Meravigliose

inesistenze

di Antonio P a n e Ruggero Jacobbi LE RONDINI DI S P O L E T O

introà. di Anna Dolfi, pp. 300, €20,66, La Finestra, Trento 2001

R

uggero Jacobbi era un uomo di molti talenti. Non se ne dolse ("la taccia di poligrafo non mi spaventa"), intrigato in un secolo che ri-chiedeva, per esser compreso,

"uomini enciclopedici, multi-glotti, onnivori", forte del suo strano statuto di "veneto-pu-gliese, siculo-savoiardo e

ligure-brasileiro". Lo attraversò "con

inavvertita irruenza e reale

non-chalance" (Anna Dolfi),

sondan-done per ogni dove il senso. Ma al centro delle sue passioni vi furono il teatro e la poesia. Alla poesia confidò il pudore, il suo lato d'om-bra: il sogno di sopravvivere; nel teatro riversò la sua parte spavalda e luminosa: il bisogno di vivere. Da poeta, visse come un'autorive-lazione il girotondo onomastico di Fernando Pessoa. Nel teatro non si risparmiò nessun ruolo: attore, regista, critico, autore, impresario, traduttore, insegnante, divulgato-re. Questa straordinaria circola-zione di esperienze giustifica la vi-talità di titoli come Teatro in

Brasi-le (Cappelli, 1961), Teatro da ieri a domani (La Nuova Italia, 1972) e

soprattutto Le rondini di Spoleto.

I

l libro, stampato per la prima volta a Samedan, in Engadina (Munt Press, 1977), e presto an-nesso all'archivio delle occasioni perdute, è ora riproposto, in ana-statica, da un giovane, coraggioso e lungimirante editore, Marco Al-bertazzi (che può già vantare un miracolo: l'offerta dell'intero ciclo esoterico di Arturo Onofri), con l'aggiunta di una appassionata quanto lucida introduzione di Anna Dolfi e di un Cd-Rom cura-to da Francesca Polidori, che con-segna agli studiosi due formidabi-li strumenti di lavoro: una bibformidabi-lio- biblio-grafia pressoché esaustiva degli scritti di e su Jacobbi e un inven-tario del Fondo Ruggero Jacobbi (costituito presso l'Archivio con-temporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieusseux).

I testi raccolti nelle Rondini di

Spoleto - una minima antologia

delle centinaia e centinaia di inter-venti sul teatro che Jacobbi pro-dusse a partire dal 1960 - sono percorsi da una fedeltà carnale, da una simbiosi che li spinge a farsi a loro volta autentiche messinscene. Dell'evento scenico queste scrit-ture conservano le esclamazioni, il colore, gli "improvvisi", con un impeto che trova i suoi contrappe-si nell'impegno civile, nella con-cretezza storica; sempre volto al punto in cui l'etico si incontra con l'estetico, l'individuale con il so-ciale; sempre in cerca di quel mondo condivisibile che ha nel "moto drammatico, il solo uguale alla vita, a tutti i segreti della vita", nella "meravigliosa inesistenza" del palcoscenico, la

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