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Due modelli a confronto: l’«antifascismo militante» e i Comitati unitar

La stagione della conflittualità sociale (1969-1973)

III.3 Due modelli a confronto: l’«antifascismo militante» e i Comitati unitar

Se, come ha scritto Ermanno Taviani, almeno fino al 1976 «il rapporto del PCI con la galassia politica e sociale creatasi alla sua sinistra ci fu, pur se contrastato», fu soprattutto sul terreno della mobilitazione antifascista che si registrarono alla periferia del partito significativi momenti di contatto tra i militanti del PCI e quelli della sinistra extraparlamentare238.

Si trattò sicuramente di un rapporto complesso e a tratti contraddittorio, in cui alla rigida contrapposizione delle linee politiche espresse tanto dai dirigenti del partito comunista che delle organizzazioni extraparlamentari andavano ad intrecciarsi sensibilità e modalità d’azione condivise dalle rispettive «basi».

Erano infatti comuni alla sinistra politica nel suo complesso i timori che si verificassero anche in Italia, così come era avvenuto in Grecia nel 1967 ‒ senza contare la dittatura franchista in Spagna e quella di Salazar in Portogallo ‒, svolte di tipo autoritario, preoccupazioni che oltretutto avevano trovato un riscontro oggettivo quando vennero alla luce i progetti golpisti del generale De Lorenzo. Non solo le forze estremiste, ma anche il PCI, almeno fino a quando si presentò l’emergenza della lotta armata alla fine degli anni Settanta, nutriva una certa diffidenza nei confronti delle strutture dello stato – da cui distingueva la repubblica che, al contrario, andava difesa – per il permanere di elementi di continuità con il passato fascista239.

Proprio questo aspetto sarebbe stato fonte di ulteriore tensione quando, nella primavera del 1969, si intensificarono le azioni violente da parte dell’estrema destra, con attentati e aggressioni che riproducevano il repertorio «squadrista».

In Lombardia, e in particolare a Milano, fra aprile e maggio si erano susseguiti attentati a sedi di partiti politici, dell’ANPI, a circoli di sinistra e alla «casa dello studente e del lavoratore», e atti vandalici a lapidi di partigiani, come denunciarono in un documento alcuni fra i soggetti colpiti sottolineando che «tale attività criminosa neofascista» si era «decisamente intensificata», e da «sporadica e occasionale» fosse «ormai diventata sistematica, programmata e applicata per settori e per territori, con modalità che senza alcun dubbio dimostrano la esistenza di un apparato organicamente strutturato e sempre già pronto all’azione». Alla denuncia di questi episodi alle autorità competenti non sarebbero seguiti provvedimenti nei confronti di mandanti e autori degli attentati, e questo a causa, secondo il documento, del fatto che «la struttura dello Stato, specialmente negli organi direzionali, non è stata rinnovata a sufficienza, anche per mancanza di una adeguata volontà politica, per cui il crisma della legalità delle pubbliche autorità non è affatto

238 E. Taviani, PCI, estremismo di sinistra e terrorismo cit., p. 241 239

162 costituito, come invece dovrebbe, dalla loro perfetta aderenza, nello spirito e nelle opere, agli ideali della Repubblica, nata come irreversibile conquista Resistenza». Dietro il mancato intervento da parte delle «Autorità» ci sarebbe dunque stato l’obiettivo di «intimidire l’opinione pubblica democratica per disarmare il suo spirito di lotta, per creare sfiducia e smarrimento attorno alle istituzioni democratiche», lasciando mano libera a chi «nell’ombra o con la forza» tramava «impossibili ritorni a sistemi, o regimi definitivamente condannati dalla Storia»240.

Le formazioni neofasciste non utilizzarono ordigni esplosivi soltanto per azioni mirate contro sedi di partiti, sindacati, associazioni e gruppi della sinistra extraparlamentare. Ancora a Milano, per il ventiquattresimo anniversario della Liberazione, esplose una bomba alla Fiera. La questura, secondo la ricostruzione di Crainz, nonostante avesse a disposizione informazioni che portavano in direzione della pista neofascista, si affrettò ad attribuire la responsabilità dell’attentato ad un gruppo di giovani anarchici, così come sarebbero state etichettate come «anarchiche» le bombe scoppiate su sette treni italiani in agosto e, più in generale, tutte le azioni riconducibili a questa nuova ondata di violenza che aveva investito molte province italiane241.

Accanto ai frequenti attentati alle sezioni del partito comunista, in quei mesi i suoi iscritti e simpatizzanti furono spesso vittima di aggressioni compiute da militanti dell’estrema destra, come era avvenuto a Catania, dove un dirigente locale era stato ferito gravemente242, o a Perugia, dove alcuni giovani antifascisti erano stati attaccati con «catene, pugni di ferro, bastoni e pugnali»243, o ancora in provincia di Cosenza, dove, contestualmente ad una manifestazione del Movimento sociale, c’erano state brutali aggressioni ai danni di giovani e lavoratori appartenenti a partiti e organizzazioni della sinistra244, oltre ad assalti in diversi licei romani conclusisi con il ferimento di studenti245, per citare solo alcuni esempi.

Furono proprio le aggressioni ai singoli a creare una nuova vicinanza fra militanti del PCI e dei gruppi della sinistra extraparlamentare. Uno degli episodi più significativi in questo senso si verificò in ottobre a Pisa, dove, dopo giornate di violenti scontri causati dall’assalto di neofascisti greci e italiani all’Istituto di Lingue, rimase ucciso uno studente universitario, Cesare Pardini, colpito a morte da un candelotto lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo dalla polizia.

240 Il documento, firmato da ANPI, ANPPIA, sindacati, ACLI, PCI, PSI, DC, PRI, e dalle rispettive federazioni giovanili, e allegato alla relazione del prefetto di Milano del 10 giugno 1969, è in ACS, MI, Dip. PS, 1944-1986, b. 312, f. Comitato antifascista per la difesa dell’ordine repubblicano, sf. Organizzazioni politiche e apolitiche

241 Cfr. G. Crainz, Il paese mancato cit., pp. 342-344 242

C.F., Misteriosi attentati. Dirigente comunista accoltellato da fascisti a Catania, «l’Unità», 27 aprile 1969 243 A Torino incendiata una sede del PCI. Tre accoltellati dai fascisti a Perugia, ivi, 23 maggio 1969

244 La reazione a quell’episodio da parte di militanti della sinistra aveva portato all’arresto di dodici persone, fra le quali figuravano noti dirigenti comunisti e socialisti e il segretario locale della UIL, Dodici antifascisti arrestati a Corigliano, ivi, 3 giugno 1969

245 Dopo il «Mamiani» al «Tasso». I fascisti aggrediscono gli studenti, ivi, 3 ottobre 1969; Aggressione fascista anche al «Virgilio». Adesso basta!, ivi, 7 ottobre 1969; Contro le aggressioni fasciste. Davanti ai ginnasi vigilano gli studenti, ivi, 8 ottobre 1969

163 Quegli scontri fecero emergere forti tensioni fra la base del partito da una parte e i funzionari locali e i dirigenti nazionali del PCI dall’altra. Dopo una prima manifestazione spontanea che si era svolta senza incidenti, le aggressioni compiute da alcuni neofascisti ne innescarono altre che al contrario degenerarono presto in scontri violentissimi sia per la partecipazione dei gruppi extraparlamentari sia a causa del duro intervento delle forze dell’ordine. Fin da subito, la federazione comunista di Pisa aveva cercato una mediazione con le altre forze politiche con l’obiettivo di organizzare una grande manifestazione unitaria che, raccogliendo l’adesione di tutte le autorità cittadine, fosse la dimostrazione di «forza e unità» basata sulla «riaffermazione dei valori dell’antifascismo», ma, allo stesso tempo, nel documento comune elaborato insieme alle altre organizzazioni, si oppose all’inserimento di espressioni che avrebbero rappresentato «una condanna inopportuna, in anticipo, verso i gruppetti estremisti».

Ad ogni modo, i funzionari pisani erano pienamente consapevoli del fatto che la sinistra extraparlamentare avrebbe cercato di sfruttare lo stato di alta tensione che si era ormai creato in città per radicalizzare gli scontri con neofascisti e polizia. Il timore che i gruppi trascinassero nei tafferugli i militanti del PCI si verificò effettivamente il 27 ottobre, quando gli incidenti scoppiati davanti alla locale sede del Movimento sociale trasformarono il centro della città in «un inferno», con il consistente lancio da parte della polizia di candelotti lacrimogeni, uno dei quali colpì, ferendolo mortalmente, Pardini. La diffusione della notizia fece precipitare definitivamente la situazione e, secondo la testimonianza della federazione, le forze dell’ordine colpirono violentemente e indiscriminatamente i manifestanti246.

La denuncia dei dirigenti pisani dell’«uso intollerabile della violenza poliziesca» fu ripresa anche da «l’Unità», che attribuì la responsabilità dei disordini tanto alle «provocazioni poliziesche» quanto ai neofascisti ‒ a cui, si scriveva, la polizia avrebbe assicurato l’impunità247

‒, arrivando ad accusare questi ultimi e la polizia di «unità d’azione»248.

Diventati ormai un caso nazionale249, i fatti di Pisa crearono divisioni all’interno degli organi dirigenti del PCI a causa delle diverse valutazioni maturate in merito agli scontri e soprattutto alla partecipazione della sinistra extraparlamentare. I contrasti furono infine risolti con l’intervento di Gerardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso della Direzione, che imposero una linea di ferma condanna nei confronti dei gruppi, il cui comportamento, caratterizzato da forme e metodi lotta

246 Relazione presentata dal compagno Giuseppe De Felice alla riunione congiunta del CF e del CFC, in IG, APC, 1969, Regioni e province, Toscana, Pisa, 3 novembre, mf. 0307, pp. 535-547

247 S. Mazzeschi, Morto un giovane studente colpito dalla polizia con una bomba lacrimogena, «l’Unità», 28 ottobre 1969

248 C. De Simone, Chi manovra le provocazioni squadristiche?, ivi, 29 ottobre 1969

249 Lo studente Cesare Pardini è stato ucciso. Comunisti, PSIUP, socialisti e sinistra indipendente respingono al Senato la versione del ministro Restivo, ibidem

164 estranei alla tradizione del movimento operaio, avrebbe prestato il fianco a strumentalizzazioni, facilitando così l’obiettivo delle forze reazionarie di creare divisioni nel movimento dei lavoratori250. La tensione ai vertici del PCI era alta, come dimostrano le parole di Pietro Ingrao ad una riunione della Direzione ai primi di novembre: «Ho la netta sensazione che a Pisa abbiamo corso un pericolo serio; ci siamo trovati di fronte a una situazione che ci poteva sfuggire di mano. Un certo colpo ce l’hanno dato, un prezzo lo abbiamo pagato»251.

La crescente preoccupazione per la violenza di piazza delle formazioni extraparlamentari spinse l’Ufficio politico del PCI ad emettere un comunicato di esplicita presa di distanza da certe modalità d’azione, nel quale venivano respinte senza mezzi termini le «posizioni settarie e avventuriste» che portavano a «cadere nella provocatoria trappola padronale e reazionaria» tesa a spingere la classe operaia verso l’isolamento attraverso un’immagine distorta del movimento che rappresentava «i lavoratori in lotta come protagonisti di gesti teppistici»252.

Quella presa di posizione, però, spiegava il segretario provinciale del PCI, Giuseppe De Felice, era stata respinta da buona parte della base, in particolare da quanti ‒ ed erano diverse centinaia ‒ avevano partecipato agli scontri insieme ai militanti delle formazioni extraparlamentari. «I compagni e i giovani» che avevano «combattuto contro la polizia» spinti dallo sdegno per l’uccisione di Pardini, veniva chiarito, si sentivano «offesi politicamente» dalle parole di condanna verso altri militanti insieme ai quali avevano condiviso quella «battaglia» e non si sarebbero affatto sentiti «trascinati» negli scontri dagli estremisti, ma, al contrario, rivendicavano la loro partecipazione a quegli incidenti253.

La vicenda aveva dunque riportato all’ordine del giorno una questione fondamentale: la capacità del partito di assolvere alla funzione di orientamento e direzione dei propri militanti, e di realizzare una «effettiva, concreta unità del partito». Lo stesso De Felice, riferendo a proposito delle riunioni interne che si erano tenute nei giorni successivi, sottolineava con una certa apprensione che ad essere messi in discussione erano stati in primo luogo proprio l’orientamento del partito e il rapporto tra i dirigenti e la base. Quelle giornate, insomma, avevano fatto emergere sia il «disorientamento di una parte del partito» sia la mancanza di «un rapporto reale con le nuove generazioni» e una presenza ancora troppo debole nelle lotte operaie, difficoltà all’interno delle quali cercarono di inserirsi proprio i gruppi della sinistra extraparlamentare che, sfruttando il «dissenso profondo di alcuni compagni» per le posizioni ufficiali della Federazione, sembravano

250 Relazione presentata dal compagno Giuseppe De Felice cit., p. 548. Cfr. anche Comunicato della Federazione comunista di Pisa, Punire i responsabili della morte del giovane Pardini, «l’Unità», 29 ottobre 1969

251

IG, APC, 1969, Direzione, 5 novembre, verbale n. 22, mf. 006, p. 2123

252 Comunicato dell’Ufficio politico del PCI del 28 ottobre 1969, Rispondere con l’unità alle provocazioni padronali e reazionarie, «l’Unità», 29 ottobre 1969

253

165 aver effettivamente stabilito dei contatti con alcuni iscritti, come avrebbero confermato una serie di riscontri sul territorio. A preoccupare era soprattutto il gruppo proveniente da «il Potere operaio», poi confluito in Lotta Continua, perché stava allargando la propria «base» ben oltre la componente studentesca, essendo «divenuto qualcosa di diverso»254.

In coincidenza con i disordini di Pisa usciva il primo numero di «Lotta Continua», che attaccava duramente la linea legalitaria e unitaria sostenuta dal partito comunista, accusato di aver fatto «azione di pompieraggio» nel tentativo, non riuscito, di contenere quella protesta dei «proletari» che si inseriva in un movimento più ampio, segno della «volontà di riportare lo scontro a livello politico nella sua forma più chiara, di renderlo sociale e generale» e, quindi, di ricondurlo a quella «lotta di classe» che si stava sviluppando a partire dalla mobilitazione nelle fabbriche255. «Lotta Continua» era inoltre a conoscenza dei contrasti emersi all’interno della Federazione comunista di Pisa fra la base e i funzionari locali, come emergeva chiaramente da un lungo articolo che descriveva i termini dello scontro con abbondanza di particolari. Quello di Pisa inoltre, secondo quanto sosteneva il giornale, non sarebbe stato un caso isolato: «in tutta la zona rossa compresa tra Firenze, Siena e Pisa» si sarebbero verificate analoghe contestazioni della base nei confronti dei dirigenti locali. In Toscana, insomma, il PCI iniziava a pagare, scriveva «Lotta Continua», «il prezzo della sua campagna contro l’estremismo»256

.

In quei mesi, sentimenti di paura e inquietudine erano sempre più diffusi nell’opinione pubblica. Il catastrofismo che si riscontrava nella stampa del periodo era alimentato dalla progressiva intensificazione di attentati ad opera di cellule terroristiche neofasciste milanesi e venete vicine ad Ordine Nuovo e supportate, come ha ricostruito Guido Panvini sulla base di alcune sentenze, da alcune cordate interne ai servizi segreti italiani e statunitensi. L’obiettivo comune a queste diverse organizzazioni sarebbe consistito nel creare un clima di tensione per arrestare l’avanzata del movimento operaio e del partito comunista, e impedire lo slittamento degli equilibri politici nazionali verso sinistra257.

Pur non essendo disponibili tutti gli elementi necessari ad un’analisi esauriente, pare piuttosto evidente, ha scritto, tra gli altri, Piero Craveri, che alla base della strategia di destabilizzazione del sistema politico-istituzionale italiano in funzione anticomunista ci fossero connessioni internazionali che passavano direttamente attraverso i rapporti di subordinazione o collaborazione tra la CIA e i nostri servizi, con la complicità di alcuni dei maggiori responsabili del comando delle forze armate italiane di orientamento «inequivocabilmente neofascista». Se questo fenomeno fu

254

Ivi, 557-576

255 Pisa: non è che l’inizio e Battaglia a Pisa, «Lotta Continua», 1 novembre 1969, numero unico

256 Pisa: dopo la battaglia. Il PCI alle strette sotto la critica delle masse, ivi, 7 novembre 1969, numero unico 257

166 presente soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, le prime attività e strategie volte ad alterare il quadro costituzionale e civile si erano manifestate fin dal 1958 con l’affacciarsi dell’apertura di governo a sinistra. Esse sarebbero poi proseguite nel decennio successivo attraverso la costruzione di una rete eversiva per mezzo della quale, dopo il 1968, sarebbero passati la maggioranza degli episodi riconducibili alla cosiddetta «strategia della tensione», che aveva i suoi terminali nelle organizzazioni neofasciste di Avanguardia Nazionale, di Ordine Nuovo e del Fronte Nazionale, a cui era direttamente collegata una galassia di sigle di matrice neofascista, e coperture politiche mai del tutto documentate258.

Nel corso del 1969 erano stati compiuti diversi attentati di grosso calibro contro tribunali, università, sedi istituzionali259, che andavano a sommarsi allo stillicidio di incendi contro sedi di partito e associazioni, come è già stato ricordato.

La tensione che si era dunque accumulata in quei mesi e che continuava a crescere ogni volta che esplodeva un ordigno o si registrava un falso allarme-bomba, episodi che contribuivano a diffondere una vera e propria «psicosi da attentato», toccò l’apice alla fine dell’anno, quando, a Milano, scoppiò una bomba all’interno della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana che provocò la morte di diciassette persone e il ferimento di altre ottantasei, mentre un altro ordigno fu trovato inesploso nei locali della Banca Commerciale Italiana. Quello stesso 12 dicembre, quasi contemporaneamente, a Roma scoppiarono una bomba nella sede della Banca Nazionale del Lavoro e due all’Altare della patria. Quello alla Banca nazionale dell’Agricoltura fu l’attentato terroristico più grave condotto contro civili in tempo di pace nel secondo dopoguerra260.

Gli attentati del 12 dicembre colpirono il paese in una fase di forte conflittualità sociale sorta attorno al rinnovo dei contratti nazionali e di particolare instabilità politica determinata dalla crisi di governo e dall’incertezza sulla prosecuzione o meno dell’esperienza del centro-sinistra. La ricostruzione di una maggioranza centrista, in quel momento l’unica alternativa parlamentare possibile, rivelava tutta la propria fragilità, in contrasto come era con quello che nel corso degli ultimi quindici anni aveva costituito il processo di allargamento delle basi politiche e sociali della democrazia italiana. Se l’attentato di piazza Fontana, che rappresentò il più forte tentativo di provocare condizioni di panico e di vuoto politico che favorissero una svolta a destra, ebbe l’effetto di accelerare la crisi del monocolore guidato da Mariano Rumor, tuttavia mancò l’obiettivo principale, soprattutto per l’atteggiamento composto e responsabile dei sindacati e del partito comunista che stroncò la possibilità di ogni ulteriore degenerazione e provocazione. Come sarebbe successo anche in seguito, in altre parole, la «strategia della tensione», afferma ancora Craveri,

258 P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., pp. 453-460 259 Cfr. A. Ventrone, “Vogliamo tutto” cit., pp. 147-148 260

167 avrebbe consolidato il processo opposto, ovvero il rafforzamento di una sempre più stretta unione difensiva fra le organizzazioni democratiche, restringendo ulteriormente gli spazi di manovra interni al sistema politico261.

La reazione immediata del PCI alle bombe del 12 dicembre fu effettivamente orientata alla ricerca di una risposta unitaria con tutte le forze democratiche, come si affrettò a precisare la Direzione la sera stessa degli attentati: «La Direzione del PCI invita tutte le organizzazioni ed i militanti comunisti alla vigilanza e alla iniziativa politica unitaria. Sono le masse operaie, gli antifascisti, tutte le forze democratiche che debbono dire basta alle provocazioni, alle macchinazioni, ai tentativi di gruppi fascisti e reazionari, italiani e stranieri; che debbono, con la più ampia unità democratica e popolare e nel sostegno delle istituzioni repubblicane, fermamente assicurare la difesa e lo sviluppo del regime democratico»262.

Perlomeno da quanto emerge dalle ricostruzioni basate sulla memorialistica, piazza Fontana condizionò i percorsi successivi di buona parte della sinistra extraparlamentare.

Tra queste organizzazioni, quella in cui le bombe a Milano e Roma lasciarono un segno indelebile fu senz’altro Lotta Continua, che mise subito in relazione l’estensione della mobilitazione operaia di quei mesi con la «scalata terroristica»263. La formula che indica il 12 dicembre come la data che segnò la «perdita dell’innocenza» fu coniata all’interno gruppo, come ha spiegato Luigi Manconi: «Facevamo politica da alcuni anni, ma nel nostro essere estremisti di sinistra e rivoluzionari eravamo ingenui. Innocenti, appunto. Il 12 dicembre segnò per noi la perdita dell’innocenza, perché avevamo sì creduto che quella fosse lotta di classe, scontro aspro, violento, ma ritenevamo che anche la battaglia di piazza stesse dentro un sistema di regole del gioco, una sorta di cerimoniale bellico accettato da entrambi i contendenti. Questo patto prevedeva il rispetto della vita umana, o il rischio che la vita umana potesse essere messa a repentaglio, ma non che diventasse l’obiettivo dello scontro»264.

Lotta Continua, attraverso il suo giornale, lanciò una campagna di controinformazione e un lungo lavoro di inchiesta, condotto anche insieme ad alcuni giornalisti, fra i quali Camilla Cederna, che ebbe come primo punto d’arrivo la pubblicazione di La strage di Stato265

, espressione che sarebbe ampiamente circolata negli anni successivi nell’opinione pubblica democratica, in cui si sosteneva che gli attentati di dicembre fossero il risultato di un complotto fra neofascisti e servizi segreti266. Il

261

P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 462

262 La Direzione del PCI, 12 dicembre 1969, Il comunicato della Direzione, «l’Unità», 13 dicembre 1969 263 Bombe, finestre e lotta di classe, «Lotta Continua», n. 5, 20 dicembre 1969

264 Testimonianza di Luigi Manconi in A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione cit., p. 90 265

La strage di Stato. Controinchiesta, Samonà e Savelli, Roma 1970