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Le lotte sociali fuori dalla fabbrica

La stagione della conflittualità sociale (1969-1973)

III.2 Le lotte sociali fuori dalla fabbrica

All’inizio degli anni Settanta, il sindacato si pose sempre più come un soggetto politico capace di esercitare una funzione di cerniera tra le rivendicazioni contrattuali e le istanze di riforme sociali. Il sindacalismo ufficiale, infatti, fece propria e sviluppò la vasta tematica della protesta operaia che era esplosa in forme spontanee e la tradusse in un programma di grandi riforme che non solo dette alle centrali sindacali quella capacità di pressione e quella credibilità che i partiti politici avevano perduto, diventando così il centro propulsore di tutte quelle riforme che il centro-sinistra non era riuscito a realizzare, ma, ha scritto Giuseppe Mammarella, permise anche loro di contenere le spinte più estreme e radicali dello spontaneismo operaio alimentato dai gruppi extraparlamentari148.

La capacità di tenuta di CGIL, CISL e UIL tra le masse, ha evidenziato anche Simona Colarizi, si misurò proprio a partire da questo momento, quando, al delinearsi della possibilità di una «pericolosa confluenza tra i giovani arrabbiati delle università e delle fabbriche», il movimento operaio seppe riaffermare il proprio esclusivo monopolio sulle lotte149. Tuttavia, nel corso degli anni Settanta, i sindacati furono costretti a confrontarsi con il fatto che sulla «massa operaia sindacalizzata e combattiva» continuassero ad esercitare «una certa influenza le fasce più radicali, simpatizzanti per la nuova sinistra»150.

Il riformismo sociale del sindacato confederale contribuì in maniera significativa a promuovere la realizzazione di un più moderno Welfare State universale in un paese che, a differenza del resto dell’Europa occidentale, non lo aveva ancora adeguatamente realizzato151

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Negli stessi anni, anche in Gran Bretagna, Francia e Germania, il risorgere del conflitto industriale, le contestazioni delle nuove generazioni e poi la crisi economica internazionale del 1973, da una parte, spinsero i sindacati ad allargare il proprio campo di interesse, e, dall’altra, fu proprio il nuovo contesto sociale ed economico a rendere le organizzazioni sindacali uno degli attori sociali chiamati a partecipare a livello istituzionale nelle decisioni di politica economica. Al di là dei differenti esiti prodotti da questi fenomeni nei singoli paesi, il riconoscimento di nuove prerogative, il maggior coinvolgimento nelle scelte statuali e l’influenza che riuscirono in alcuni casi ad esercitare nelle decisioni di politica economico-sociale dei rispettivi governi, dilatarono indubbiamente il ruolo dei sindacati152.

148 Cfr. G. Mammarella, L’Italia contemporanea cit., p. 345 149 S. Colarizi, Storia del Novecento italiano cit., pp. 407-408 150

Ivi, p. 442

151 C. Ghezzi, Introduzione a Id. (a cura di), Autunno caldo, quarant’anni dopo cit., pp. 10-11

152 A. Maiello, Sindacati in Europa. Storia, modelli, culture a confronto, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, pp. 377- 379

145 Per quanto il grado di integrazione sindacale fosse minore rispetto a quello di questi paesi, anche in Italia il movimento sindacale acquisì un’importanza e un peso politico nella società senza precedenti. Di fronte ad un sistema politico che non riusciva ad incanalare le nuove esigenze che provenivano dalla società in una densa stagione di riforme e in un avanzamento e allargamento del sistema democratico, esso, sostiene Giancarlo Pellegrini, riscosse progressivamente più consenso dei partiti e riuscì a porsi come un’istituzione capace di dare risposte più concrete e puntuali alle attese dei lavoratori153.

Anche secondo Marco Ravaglia, nel clima di profonda divisione partitica e di scarso slancio della formula governativa di centro-sinistra, il sindacato seppe cogliere l’opportunità di estendere la propria influenza proponendosi sempre più come interlocutore politico nei confronti del governo e dei partiti. L’azione delle Confederazioni fu quindi indirizzata a questioni di carattere generale che non avevano una stretta attinenza con i problemi sindacali ma riguardavano piuttosto la promozione delle riforme ritenute urgenti per migliorare le condizioni dei lavoratori fuori dai luoghi di lavoro154. La proposta politica del sindacato si articolò così lungo la direttrice dello spostamento delle lotte dei lavoratori dalla fabbrica alla società, nel quadro della «programmazione democratica»155. Le rivendicazioni economiche, infatti, non riguardavano solamente le condizioni di lavoro in fabbrica, ma la vita dei lavoratori in generale, poiché andavano ad intrecciarsi all’ampio spettro di problemi causati da uno sviluppo economico pieno di contraddizioni e non governato, come aveva sottolineato a suo tempo Silvio Lanaro156: casa, trasporti, scuola, sanità. In linea generale, questa nuova strategia fu vissuta con una certa insofferenza negli ambienti politici, tanto che si cominciò a parlare di «pansindacalismo»: di fronte ad un sindacato che andava irrobustendosi e al quale corrispondeva invece un insieme di partiti, dentro e fuori del governo, in forte crisi, l’attivismo sindacale era vissuto come un’invasione di campo su un terreno squisitamente politico157

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Nel rivendicare la politica delle riforme a tutto campo, in definitiva, il sindacato usciva dalla fabbrica e si rendeva interprete di rivendicazioni dal carattere tipicamente politico.

Oltretutto, questo tipo di intervento rappresentò un terreno fertile per sviluppare il percorso di unità sindacale promosso da tempo da alcune sue componenti.

Perlomeno dalla fine del 1968, infatti, il processo di unità sindacale era diventato l’obiettivo principale delle federazioni dei metalmeccanici, che, ormai da anni, avevano assunto il ruolo di

153 G. Pellegrini, L’«autunno caldo» del 1969: suggestioni e contraddizioni delle relazioni di lavoro, in A. Ciampani, G. Pellegrini (a cura di), L’autunno sindacale del 1969 cit., pp. 207-210

154 Cfr. M. Ravaglia, Il sindacato e l’autonomia dai partiti. Dalla CGIL unitaria alla federazione CGIL CISL UIL, Ediesse, Roma 2009, p. 258 e sgg.

155 M. Ridolfi (a cura di), Luciano Lama cit., p. 38 156 S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana cit., p. 330 157

146 guida del movimento operaio italiano158. L’avvicinamento tra le tre federazioni di categoria si era sviluppato attraverso una serie di incontri a livello sia nazionale che locale, avendo Milano come centro propulsore159. Quando, soprattutto per effetto delle spinte provenienti da FIOM e FIM, le segreterie delle tre confederazioni iniziarono a convergere su posizioni unitarie, dimostrarono una combattività e una capacità di ripresa dell’attività, ha scritto Roberto Bruno, sia sul fronte della politica che su quello dei rapporti con il padronato, che consentì loro di riconquistare fiducia e consensi presso i lavoratori e di legittimarsi come un interlocutore nei confronti dello stato160. La nuova vitalità mostrata dai sindacati avrebbe completamente riformulato i tradizionali rapporti tra organizzazioni sindacali e partiti politici. Il progetto di unità sindacale, infatti, presupponeva la piena autonomia dai partiti. Pertanto, una delle condizioni fondamentali dell’accordo prevedeva l’incompatibilità tra cariche di direzione sindacale e incarichi politici e parlamentari, una decisione messa in pratica dai dirigenti delle tre federazioni che rinunciarono ai doppi ruoli fino ad allora esercitati161.

Tuttavia, si trattò di un esito affatto scontato in un primo momento, soprattutto per le resistenze mostrate dalle componenti più tradizionali della CGIL, meno disponibili ad accettare l’incompatibilità delle cariche. Lo scontro che si consumò al congresso di Livorno del 1969, fondamentalmente tutto interno ai comunisti, vide infine emergere una posizione mediana, vista con favore anche dai vertici del PCI, che era disposta a concedere le incompatibilità in nome dell’unità162

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A partire dal 1969, quindi, il movimento unitario appariva ormai irreversibile e sufficientemente avanzato. Le organizzazioni sindacali, nei congressi della prima metà di quell’anno, ribadirono in vario modo la prospettiva unitaria e l’autonomia dai partiti, ripercorrendo quindi a ritroso il cammino percorso dal 1948 in poi, quando sviluppi politici interni e internazionali avevano determinato la rottura dell’unità sindacale e creato le condizioni per un rapporto sempre più stretto tra i tre tronconi del movimento sindacale e i rispettivi partiti di riferimento163.

Tuttavia, per quanto sembrasse avviato a concludersi rapidamente, il processo di unità sindacale mancò l’obiettivo dell’unità organica e si arrestò alla formula del patto federativo siglato tra CGIL, CISL e UIL nell’estate del 1972, all’interno del quale l’esperienza che segnò la maggiore

158 F. Loreto, L’unità sindacale cit., p. 97 159

Id., L’«anima bella» del sindacato cit., p. 77 e sgg.

160 Cfr. R. Bruno, Breve storia del sindacato in Italia cit., pp. 177-178 161 A. Accornero, La parabola del sindacato cit., p. 48

162 Per la ricostruzione delle differenti posizioni emerse al congresso si rimanda a M. L. Righi, Gli anni dell’azione diretta cit., pp. 128-133. Sulla disponibilità del partito comunista all’operazione federativa Problemi dell’unità sindacale (relatore Di Giulio) in IG, APC, 1971, Direzione, Verbale della riunione di Direzione del 6 dicembre, verbale n. 21, m. 017, p. 1723 e sgg.

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147 integrazione a livello categoriale fu rappresentata dalla FLM, la Federazione Lavoratori Metalmeccanici nata a Genova pochi mesi più tardi164.

Nei primi anni Settanta, dunque, le organizzazioni sindacali indissero una serie di scioperi per impegnare i lavoratori in una mobilitazione politica finalizzata a spingere il governo a rinnovare le istituzioni e, soprattutto, ad intervenire sui principali squilibri sociali del paese. L’«autunno caldo», ha osservato Craveri, aveva infatti determinato un clima sociale e politico nuovo, trasferendo in larga parte della società quel moto di protesta che la sola contestazione studentesca non sarebbe stata capace di propagare165.

La «politica delle riforme» promossa dalle organizzazioni dei lavoratori, però, incontrò fin da subito notevoli difficoltà, sia perché il governo non era disposto a permettere che il sindacato si ritagliasse realmente un ruolo politico, sia perché le tre confederazioni non riuscirono a trovare un’unità reale e dovettero rivedere la propria strategia a causa della crisi economica e delle conseguenti trasformazioni del mondo del lavoro, sia, infine, per la scarsa partecipazione dei lavoratori agli scioperi regionali e provinciali166.

Nonostante l’apertura mostrata dal ministro Donat Cattin verso le istanze emerse dalla conflittualità operaia di cui si erano fatti portavoce i movimenti sindacali, questi ultimi non trovarono una risposta adeguata nel sistema politico, che «rimase tenacemente arroccato su se stesso senza costruire un rapporto stabile di concertazione, fondato sull’autonomia dei reciproci ruoli tra soggetti sociali e politici. Il baricentro della mediazione sociale rimase distinto da quello della gestione politica e sussultoriamente furono trovati di volta in volta i punti di raccordo»167.

Tutti i settori verso cui il sindacato aveva concentrato i propri sforzi, scuola, università, urbanistica, assistenza e sanità, pubblica amministrazione, e che erano stati investiti da quella «ventata del nuovo» alimentata dalla sempre maggiore richiesta di partecipazione civile168, «rimasero senza riforma». E le riforme, prosegue Craveri, furono sostituite da «un sapiente bricolage che tamponava gli effetti di uno sviluppo senza guida, preminentemente volto a soddisfare domande particolari, con la gestione clientelare del potere, il compromesso tra élites tradizionali ed interessi speculativi e parassitari, l’uso spregiudicato della spesa pubblica […] la feudalizzazione partitica dell’industria a partecipazione statale, degli enti statali con funzione economica, di larga parte del sistema creditizio e infine l’espansione incontrollata della burocrazia»169

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164 Per una esauriente ricostruzione si rimanda a F. Loreto, L’unità sindacale cit., pp. 203-341 165 P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 373

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A. Sangiovanni, Tute blu cit., pp. 233-234

167 P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 372 168 S. Colarizi, Storia del Novecento italiano cit., p. 421 169

148 Nel complesso, quindi, le istanze di rinnovamento avanzate dai sindacati non trovarono un pieno riscontro perché una volta approvati, nel 1970, una nuova legislazione pensionistica, l’ordinamento regionale, la legge sul referendum popolare e quella sul divorzio170, le iniziative riformatrici si arrestarono.

Se questo era il quadro generale, non bisogna comunque dimenticare che almeno su un punto i sindacati riuscirono ad ottenere una importante conquista: la legislazione sul lavoro. Nel maggio 1970, infatti, il parlamento approvò lo Statuto dei lavoratori, con il quale venivano poste una serie di garanzie a difesa e protezione del lavoratore che modificavano in senso democratico i rapporti di lavoro interni alle aziende171. La Costituzione, si disse allora, «entrava» in fabbrica172.

Per le novità che introduceva sia in tema di diritti sindacali sui luoghi di lavoro sia riguardo alla possibilità di interventi giudiziari, la legge rappresentava uno dei lasciti più duraturi dell’«autunno caldo» poiché, ha scritto Maria Luisa Righi, segnava «il passaggio da un trattamento repressivo, o sedicente neutrale, dei conflitti di lavoro a un trattamento preventivo e “orientato”, attraverso la promozione di spazi di potere e di libertà collettive dei lavoratori in azienda; e al tempo stesso una valorizzazione del meccanismo giudiziale di composizione del conflitto e un ampliamento dei margini di elasticità e discrezionalità dell’opera della magistratura»173.

Per quanto la legge tutelasse la libertà e la dignità del lavoratore, riconoscendogli ad esempio la libertà di opinione e la tutela della salute, e riconoscesse i principali diritti sindacali, dal diritto di associazione a quello di assemblea, nella votazione finale in parlamento il partito comunista si astenne per il limite di applicazione della legge alle sole aziende con più di 15 addetti, limite che era stato abbassato dai 30 originari proprio per cercare il consenso del PCI174.

Fu proprio il riconoscimento dello Statuto dei Lavoratori a elevare il movimento sindacale a protagonista di primo piano del processo di ricostruzione e affermazione dello stato repubblicano, «sia all’interno di una dialettica democratica, quale soggetto sociale emancipato dai partiti politici, sia all’interno di una economia di mercato che deve garantire allo stesso tempo evoluzione dell’impresa e giustizia sociale»175

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170 Il referendum sul divorzio, che si sarebbe svolto nel 1974, era stato promosso da alcuni ambienti cattolici subito dopo l’entrata in vigore, nel dicembre 1970, della legge Fortuna-Baslini che aveva largamente liberalizzato l’istituto del divorzio fino ad allora limitato a casi eccezionali. Cfr. ad es. G. Mammarella, L’Italia contemporanea cit., p. 397 171 Cfr. ad es. R. Bruno, Breve storia del sindacato in Italia cit., p. 179 e sgg.

172 G. Arfé, La Costituzione entra in fabbrica, «l’Avanti!», 15 maggio 1970 173

M. L. Righi, Gli anni dell’azione diretta cit., p. 159

174 Ibidem. Si astenne anche il PSIUP, i cui sindacalisti, a cominciare da Vittoria Foa, avevano apertamente espresso la propria contrarietà allo Statuto, cfr. A. Agosti, Il partito provvisorio cit., p. 229

175

149 L’idea di uno «statuto dei lavoratori», per dirla con Craveri, «veniva da lontano»176

, e più precisamente dalla proposta formulata da Giuseppe Di Vittorio ad un congresso della CGIL nel 1952. La questione centrale era «rendere operanti nei rapporti di lavoro quei diritti di libertà, che la costituzione repubblicana aveva introdotto nei rapporti tra i cittadini e lo Stato, individuando le prassi che erano ad essi di ostacolo e prevedendo le opportune sanzioni»177.

Tuttavia, nel clima dei primi anni Cinquanta, la fase di maggiore debolezza delle organizzazioni sindacali, quando la repressione nei loro confronti era particolarmente dura, la proposta di Di Vittorio passò praticamente sotto silenzio, per poi essere ripresa prima da Giovanni Pieraccini e poi, soprattutto, da un altro socialista, Giacomo Brodolini, che, da ministro del Lavoro, dette un significativo contributo all’accelerazione dell’iter parlamentare del disegno di legge, a cui, alla fine degli anni Sessanta, lavorò insieme a Carlo Donat Cattin ˗ che gli sarebbe succeduto dopo la sua morte ˗, e a un gruppo di esperti, primo su tutti il giurista Gino Giugni178

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Nella sinistra extraparlamentare le reazioni allo Statuto dei lavoratori erano state fin da subito molto dure. Già nel corso dell’iter parlamentare, ad esempio, Lotta Continua vi aveva visto niente altro che un insieme di «grossi privilegi» concessi ai sindacati e ai loro rappresentanti, mentre ai lavoratori in fabbrica lo Statuto avrebbe portato soltanto «leggeri miglioramenti». Come in altri episodi che riguardavano la conflittualità industriale di quei mesi, Lotta Continua, al pari degli altri gruppi di matrice operaista, affermava che il principale obiettivo della legge fosse quello di «reprimere le lotte operaie e rafforzare il sindacato»179.

Ad ogni modo, la condotta del sindacato, che, come si è visto, aveva accolto molte delle richieste provenienti dalla base operaia nei contratti firmati alla fine del 1969 e riconosciuto la figura del delegato, aveva tolto spazio alle organizzazioni della sinistra extraparlamentare. Con il recupero del sindacato nelle fabbriche, infatti, i gruppi di matrice operaista avevano perso capacità attrattiva nei confronti dei lavoratori industriali.

Pur non mettendo mai in discussione la centralità operaia, essi decisero quindi di spostare il baricentro della propria azione politica dalla fabbrica al territorio180. Questo passaggio, tuttavia, non implicava l’abbandono della prospettiva «rivoluzionaria». Al contrario, sosteneva la propaganda militante, gli accordi firmati dai sindacati non avrebbero determinato la fine della conflittualità e, di conseguenza, la persistenza delle tensioni sociali sarebbe stata all’origine di nuove e sempre più

176 P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 376 177 Ibidem

178 R. Bruno, Breve storia del sindacato in Italia cit., pp. 179-180 179

Il regalo di Natale della borghesia, in «Lotta Continua», 6 dicembre 1969

180 Cfr. ad es. il volantino di Avanguardia Operaia del 20 ottobre 1971 Nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, estendiamo e generalizziamo le lotte per combattere l'offensiva borghese, in Archivio Fondazione Basso, fondo Saponaro, f. C3

150 radicali «lotte». La ridefinizione della propria pratica politica, in altre parole, non avrebbe scalfito in alcun modo la prospettiva «rivoluzionaria», che restava l’orizzonte all’interno del quale queste formazioni continuavano a collocarsi all’inizio degli anni Settanta181

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In realtà, questo «riposizionamento strategico» parrebbe dettato soprattutto da una presa d’atto della propria sconfitta in fabbrica e dalla necessità di trovare nuovi terreni d’intervento per portare avanti l’attività politica. Che questo cambio di rotta fosse presentato sulla stampa della sinistra extraparlamentare come il frutto di una rigorosa rielaborazione della linea politica, non toglie che si trattasse, molto più semplicemente, della ricerca di nuovi «spazi» in cui radicarsi. In conclusione, fallita la strada della «presa del potere» attraverso la lotta operaia, i dirigenti di queste formazioni andarono alla ricerca di nuovi terreni che fossero capaci di dare sbocchi «rivoluzionari» ad una conflittualità sociale che veniva rappresentata in espansione. Gli obiettivi finali agitati da questi gruppi, infatti, rimanevano pur sempre la messa in crisi del sistema e la «rivoluzione», della quale, peraltro, i contorni sarebbero sempre rimasti indefiniti.

Fra le organizzazioni di matrice operaista, Lotta Continua era apparsa fin dall’inizio la più disposta ad interessarsi a categorie sociali solitamente trascurate tanto dalle forze della sinistra tradizionale quanto di quella «rivoluzionaria» o comunque lasciate ai margini del loro intervento, come carcerati, militari, proletari delle periferie più degradate e sottoproletariato meridionale. Queste figure invece entrarono subito a far parte del programma politico del gruppo, tanto che nell’editoriale del primo numero di «Lotta Continua» si scriveva che l’intento del giornale era quello di «trovare i nessi per saldare le lotte operaie con quelle degli studenti, dei tecnici, dei proletari più in generale, in una prospettiva rivoluzionaria», di fare del periodico, insomma, «uno strumento di organizzazione collettiva della lotta di classe»182. L’obiettivo di estendere il proprio ambito di intervento ad uno spettro così ampio di soggetti si rifletteva anche nella scelta del linguaggio utilizzato, che era semplice, caratterizzato da un registro parlato ed informale e da espressioni dalla forte connotazione emotiva per presentare le notizie in maniera vivace e coinvolgere il lettore. A differenza di Potere Operaio, che usava un linguaggio complesso contraddistinto da frequenti riferimenti culturali che presupponevano una approfondita preparazione teorica183, i dirigenti di Lotta Continua volevano che il proprio giornale fosse «leggibile sia dagli operai che dagli studenti che dalle massaie che dai braccianti»184.

181 Cfr. G. Donato, «La lotta è armata» cit., pp. 63-67, pp. 196-197 182 Questo giornale, in «Lotta Continua», numero unico, 1 novembre 1969 183

Per una attenta comparazione del linguaggio usato dai due gruppi cfr. U. Eco, P. Violi, La controinformazione, in V. Castronovo, N. Tranfaglia (a cura di), La stampa italiana nel neocapitalismo, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 110-128, che per primi avevano analizzato la stampa dei gruppi della sinistra extraparlamentare

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151 Soprattutto a partire dal 1970, come è stato puntualizzato ad esempio Angelo Ventrone, Lotta Continua si sarebbe dunque sforzata di rivolgersi all’intero «proletariato», e quindi, oltre che all’«operaio-massa» dei grandi centri industriali, anche a disoccupati, lavoratori generici, sottoccupati meridionali, insomma a tutte quelle categorie considerate complessivamente «vittime» dello sviluppo capitalistico185 e, in quanto tali, potenzialmente disponibili ad azioni di rottura «rivoluzionaria».

Nello stesso periodo anche Potere Operaio visse un momento di transizione. Venuto a mancare quel terreno di lotte sul quale esso aveva costruito la propria forza, si rendevano inevitabili un