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Nuovi fermenti a sinistra

Per il partito comunista il 1969 si aprì con il XII Congresso174. Furono confermati Longo segretario e Berlinguer vicesegretario, incarico che gli era stato conferito all’unanimità dall’ufficio politico a dicembre dopo che Longo era stato costretto a ridurre il proprio impegno perché colpito da un ictus175.

Se fin dalla metà degli anni Sessanta si erano profilate all’interno del partito posizioni fermamente critiche nei confronti della linea ufficiale, nel corso del dibattito congressuale esse si manifestarono esplicitamente. I nodi attorno ai quali si stavano consolidando queste divergenze rimandavano sia a questioni di carattere nazionale che internazionale.

Rispetto a quest’ultimo punto risultarono decisivi gli avvenimenti in Cecoslovacchia. I dirigenti del PCI avevano accolto con favore il «nuovo corso» che era stato inaugurato con l’elezione di Alexander Dubcek nei primi mesi del 1968176. Sul programma di riforme avviato dal nuovo segretario del partito comunista cecoslovacco si esprimevano giudizi positivi perché lo si riteneva coerente con la strategia di lungo corso del PCI, tanto che Longo, subito prima di recarsi a Praga in segno di aperta solidarietà politica dei comunisti italiani nei confronti della nuova direzione cecoslovacca, affermò su «Rinascita» che quello che stava accadendo in Cecoslovacchia dava maggior «forza di persuasione alla nostra argomentazione a favore di quella via italiana al socialismo che noi intendiamo percorrere in piena libertà e autonomia»177.

Sin dall’inizio, ha osservato Francesco Caccamo, il PCI aveva identificato la «Primavera di Praga» con i propri ideali riformisti. Il progetto di Dubcek, invece, non riscosse consensi altrettanto entusiastici fra le altre espressioni politiche riconducibili all’area della sinistra italiana: per i socialisti si era semplicemente trattato di un complessivo tentativo di cambiamento del sistema, o perlomeno questa fu la posizione sostenuta da Nenni178, mentre nell’area della galassia extraparlamentare il «nuovo corso» cecoslovacco era stato duramente criticato per l’introduzione dei meccanismi di mercato e per la rivendicazione delle «libertà borghesi». In linea con le posizioni espresse dai raggruppamenti dell’estrema sinistra di tutto l’occidente, il «revisionismo

174 Il XII Congresso del Partito comunista italiano si svolse a Bologna dall’8 al 15 febbraio 1969. 175 A. Vittoria, Storia del PCI cit., p. 118

176 Sulla «Primavera di Praga» si rimanda ad es. a J. Navrátil, The Prague Spring 1968: A National Security Archive Documents Reader, Central European University Press, New York 1998, che ricostruisce tutte le fasi del periodo alla luce della consultazione degli archivi sia dei paesi aderenti al Patto di Varsavia che statunitensi, e a M. Stolarik (a cura di), The Prague Spring and the Warsaw Pact Invasion of Czechoslovakia, 1968: Forty Years Later, Bolchazy-Carducci Publishers 2010, che raccoglie gli interventi presentati alla conferenza internazionale che si è tenuta all’Università di Ottawa il 9-10 ottobre 2008

177 L. Longo, Su alcuni aspetti della campagna elettorale, «Rinascita» 12 aprile 1968

178 F. Caccamo, Il PCI, la sinistra italiana e la Primavera di Praga, in F. Caccamo, P. Helan, M. Tria, Primavera di Praga, risveglio europeo, Firenze University Press, Firenze 2011, p. 160

96 cecoslovacco» veniva attaccato perché considerato niente altro che l’«altra faccia della stessa medaglia» dell’«imperialismo sovietico»179

.

Furono proprio «i fatti di Cecoslovacchia», ha sostenuto Alexander Höbel, a produrre un’accelerazione in direzione di una più netta autonomia strategica e politica dall’Unione Sovietica, perseguita dichiaratamente nel solco dell’impostazione togliattiana del «policentrismo» e della «via italiana al socialismo». Sempre secondo Höbel, la difesa di quest’ultima avrebbe prevalso di fronte ai primi contrasti con il PCUS in merito al «nuovo corso» cecoslovacco, marcando in questo senso una sostanziale differenza rispetto al passato, quando, in circostanze simili, era stata privilegiata la solidarietà internazionale con i sovietici180.

Quando la situazione precipitò, con l’irruzione dei carri armati in Cecoslovacchia nella notte tra il 20 e il 21 agosto, «grave dissenso» e «riprovazione» per l’intervento militare furono i termini con cui si espressero l’Ufficio Politico e la Direzione del PCI. Nel comunicato approvato a ridosso dell’operazione, la Direzione precisava che non si potevano «in nessun caso ammettere violazioni dell’indipendenza di ogni Stato» e pertanto si riteneva «indispensabile ed urgente» il ritiro delle forze armate181. Ancora una volta, i fatti cecoslovacchi venivano messi in relazione con la strategia politica complessiva dei comunisti italiani: «Il PCI assume queste posizioni in quanto parte attiva del movimento operaio e comunista, ritenendo suo dovere internazionalista una chiara assunzione di responsabilità allo scopo di favorire l’affermarsi di una nuova concezione dell’unità e di nuovi rapporti tra le forze comuniste e rivoluzionarie fondati sui principi del pieno rispetto dell’indipendenza di ogni paese e dell’autonomia di ogni partito della comune solidarietà nella lotta contro l’imperialismo e per la pace della ricerca di vie diverse per la conquista e costruzione del socialismo dello sviluppo conseguente della democrazia socialista»182.

Il «dissenso sui fatti di Cecoslovacchia»183 sarebbe stato ribadito anche a distanza di molti mesi. Al XII Congresso, Berlinguer, intenzionato a chiarire una volta per tutte la posizione del partito rispetto all’intervento sovietico, riaffermò il principio «dell’assoluto rispetto dell’indipendenza e sovranità di ogni partito comunista»184 e ribadì la «piena autonomia» del PCI: «Non si tratta solo dell’autonomia organizzativa e politica. Autonoma e nuova è stata tutta la nostra elaborazione di una via italiana al socialismo. Ma si tratta anche di una nostra piena autonomia di giudizio per ciò

179 G. Crainz, Il paese mancato cit., p. 300

180 A. Höbel, Il Pci, il ’68 cecoslovacco e il rapporto col Pcus, in «Studi storici», n.4, 2001 181 Comunicato della Direzione del PCI del 23 agosto pubblicato su «l’Unità», 24 agosto 1968 182

Ibidem

183 E. Berlinguer, Costruire una nuova identità internazionalista e compiere un passo in avanti verso il socialismo, in XII Congresso del partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 749

184 Ibidem

97 che riguarda la realtà dell’Unione Sovietica e dei paesi socialisti, e la politica seguita dall’Unione Sovietica, e i singoli atti di questa politica»185.

Che iniziassero a manifestarsi segnali di una graduale, e comunque estremamente cauta, presa di distanza dall’Unione Sovietica era dimostrato, ad esempio, da un diverso atteggiamento nei confronti dell’Europa, a cui adesso si guardava come ad uno strumento funzionale al superamento sia della contrapposizione fra i due blocchi sia delle divisioni storiche del movimento operaio europeo186. In accordo con gli altri partiti della sinistra europea, il PCI impostò una politica tesa al rafforzamento degli organismi comunitari, e nella primavera del 1969 fu il primo partito comunista ad ottenere la designazione di propri rappresentanti nel Parlamento di Strasburgo187.

Tuttavia, sebbene il PCI fosse stato l’unico partito comunista a chiedere il ritiro delle truppe da Praga188, ciò non significava che intendesse spingersi fino ad una rottura frontale con l’Unione Sovietica189, tanto è vero che lo stesso Longo avrebbe in più occasioni ribadito la collocazione del partito nel campo socialista190. Modificazioni di rilievo, che pure ci furono, si verificarono comunque all’interno di un rigido rapporto di subordinazione. Neppure il 1968, quindi, ha spiegato, tra gli altri, Marcello Flores, può essere considerato il momento del distacco definitivo dall’Unione Sovietica, poiché per i dirigenti comunisti la critica e il dissenso espressi nei confronti del «tragico errore» commesso dai sovietici a Praga non avrebbero dovuto in alcun modo interferire con la ricerca dell’unità del movimento comunista internazionale191

. Oltretutto, nella primavera dell’anno successivo, il PCI dimostrò di aver ormai accettato il processo di «normalizzazione» sovietica che si stava compiendo in Cecoslovacchia a partire dalla sostituzione di Dubcek con Husák192.

L’indissolubilità del legame con l’Unione Sovietica e i condizionamenti politici che ne derivavano furono fra le principali cause all’origine del dissenso espresso al XII Congresso da quei dirigenti, come Aldo Natoli, Rossana Rossanda e Luigi Pintor, che a breve avrebbero fondato «il manifesto», rivista comunista ma non controllata dal partito193.

A proposito della sua nascita, Lucio Magri, che ne fu direttore, ha spiegato che l’obiettivo di quel gruppo «molto minoritario ma coeso», che al precedente congresso aveva sostenuto le posizioni di

185

Ivi, p. 752

186 Si veda ad esempio L. Longo, Sugli incontri tra il P.C.I. e i partiti socialdemocratici europei, «l’Unità» 5 aprile 1968

187 A. Agosti, Storia del Partito comunista italiano cit., p. 98 188 A. Vittoria, Storia del PCI cit., pp. 116-117

189

S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana cit., p. 346

190 Cfr. ad es. l’intervento del segretario del partito comunista al CC e alla CCC della fine di agosto in Le conclusioni del compagno Longo, «l’Unità» 30 agosto 1968

191 M. Flores, N. Gallerano, Sul PCI cit., p. 75, p. 80 192

G. Crainz, Il paese mancato cit., p. 309

193 Cfr. G. Chiarante, Con Togliatti e con Berlinguer cit., pp. 167-172, dove il dirigente comunista spiega perché anche coloro che, come lui stesso, condividevano molte delle critiche formulate dal gruppo de «il manifesto» decisero di non aderire all’iniziativa. Per il dibattito si rimanda a XII Congresso del partito comunista italiano cit.

98 Ingrao, era quello di contribuire al rinnovamento del partito dall’interno, non solo sul fronte della collocazione internazionale – al socialismo sovietico venivano contrapposte una rivalutazione della «rivoluzione culturale» in Cina e delle esperienze rivoluzionarie in America Latina – ma anche sul piano nazionale, poiché si riteneva che il partito non avesse dato risposte adeguate alle domande di rinnovamento politico e sociale che venivano dai movimenti operaio e studentesco194. La rivista, infatti, era stata concepita come «un canale di comunicazione tra movimenti insorgenti e una tradizione preziosa»195. L’operazione fu considerata frazionistica dalla maggioranza del gruppo dirigente del PCI, come chiarirono le parole di Bufalini su «Rinascita»196 dopo l’uscita del primo numero, a giugno.

Dopo mesi di incontri e di scontri a colpi di editoriali, e di tentativi di mediazione soprattutto da parte di Berlinguer, la questione della rivista fu infine risolta a novembre, con la decisione del Comitato centrale di radiare dal partito Magri, Natoli, Pintor, Rossanda197 e, a seguire, altri dirigenti a livello di federazione. Che la rottura fosse ormai insanabile era evidente da almeno un mese. Lo testimoniava la relazione presentata da Alessandro Natta alla riunione congiunta del Comitato centrale e della Commissione centrale di controllo di ottobre, in cui si sottolineava «la gravità di una così radicale dichiarazione di sfiducia» espressa dai collaboratori de «il manifesto» nei confronti della linea politica del partito. Il contrasto era aperto su tutti i fronti: «la strategia di lotta per il socialismo, la collocazione internazionale del partito, il carattere, la struttura, il regime interno del partito stesso», insomma, spiegava Natta, «dai compagni del Manifesto proprio questo ci divide: il punto da cui muovere, il modo con cui affrontare i problemi del rinnovamento e dello sviluppo democratico del partito»198.

Ad ottobre, quindi, era stato fatto l’ultimo tentativo per cercare di dissuadere gli esponenti della rivista a proseguire quella che veniva definita una «inammissibile attività di tipo frazionistico»199 ed evitare in questo modo il ricorso a misure disciplinari, soprattutto perché si temeva che la vicenda avrebbe potuto avere ricadute negative sull’immagine del partito all’esterno. Non è casuale che proprio al Comitato centrale di ottobre, Berlinguer avesse sottolineato in più passaggi del proprio intervento la «maturità democratica» manifestata dal PCI nell’affrontare la questione: «Abbiamo

194 Cfr. l’editoriale del primo numero Un lavoro collettivo, «il Manifesto», n.1, giugno 1969 195 L. Magri, Il sarto di Ulm cit., p. 255

196 Fra i vari passaggi della recensione, Bufalini scriveva: «Questo non è un programma di ricerca scientifica, ma di azione politica immediata […] è un primo passo verso un’azione di gruppo, di corrente, verso un’attività, lo si voglia o no, di tipo frazionistico» P. Bufalini, Su una nuova rivista, «Rinascita», 4 luglio 1969

197 La decisione fu presa al Comitato centrale del 25-27 novembre. Gli interventi sono pubblicati su «l’Unità» del 28 e 29 novembre e del 2 dicembre.

198

Relazione di Alessandro Natta in La questione del «Manifesto»: democrazia e unità nel PCI. Il testo integrale del dibattito al Comitato centrale e alla Commissione centrale di controllo del PCI del 15, 16, 17 ottobre 1969 sulla questione del «Manifesto», Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 14-20

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99 dato ancora una volta la prova, dopo quella offerta dal XII Congresso, che i comunisti sono capaci di una discussione libera, democratica, improntata a spirito di tolleranza, di saggezza […]; il partito […] vuole la massima dialettica interna, vuole promuovere la circolazione delle idee, una pluralità di contributi, una discussione libera e sciolta, senza pregiudiziali. Ecco come è inteso ed è stato prospettato al congresso il senso del centralismo democratico: esso comporta la più larga partecipazione dei militanti, il riconoscimento del diritto al dissenso, ma richiede che siano fermi i limiti invalicabili della difesa dell’unità del partito e della ripulsa delle frazioni». In definitiva, l’obiettivo prioritario restava quello di mantenere «unito e disciplinato» un partito che voleva presentarsi come «né monolitico né caratterizzato dalle frazioni»200.

Dunque, nonostante i timori che la vicenda potesse influire negativamente sull’immagine del partito, il gruppo dirigente del PCI scelse la strada della radiazione. In realtà quella decisione ebbe maggiori ripercussioni all’interno piuttosto che all’esterno dell’organizzazione: estromettendo un gruppo attestato su posizioni di «estrema» sinistra, il PCI, passata una prima fase in cui fu accusato da alcuni organi di stampa di aver adottato misure antidemocratiche, dette agli altri partiti e, più in generale, all’opinione pubblica, un’immagine rassicurante di sé, mentre, nella sua base, questa operazione produsse dibattiti laceranti e anche distacchi.

Oltre che per la gravità dell’atto in sé, una parte dei militanti ˗ compresi alcuni quadri locali ˗ fu in primo luogo profondamente delusa dalle modalità con cui i vertici del partito avevano applicato quelle misure disciplinari, soprattutto alla luce della disponibilità al dibattito interno e al rinnovamento rilanciati da Longo e Berlinguer al XII Congresso.

Riferendosi alle contestazioni studentesche e operaie, ad esempio, Longo ˗ coerentemente, del resto, con la linea che aveva sempre mantenuto ˗ aveva sostenuto che il partito comunista fosse stato uno dei promotori di quelle mobilitazioni, descritte come il sintomo di una profonda crisi sociale e politica determinata dall’assenza di risposte adeguate da parte delle forze di governo. E proprio perché provenivano in buona parte dal movimento studentesco, il segretario, pur criticandoli fermamente, non volle opporre una chiusura definitiva nei confronti di quegli orientamenti che si collocavano alla sinistra del PCI:

Molti guardano a tutto questo con preoccupazione, alcuni anche con paura. Noi, invece, salutiamo quanto avviene con la soddisfazione di chi è stato ed è promotore consapevole, anche se non esclusivo, di un tale risveglio politico ed ideale. Sappiamo bene che nell’ambito di alcuni dei movimenti in atto vengono avanti, talvolta, idee e tendenze che non condividiamo. E’ nostro diritto e nostro dovere criticare e respingere tali posizioni. Ma da gran tempo abbiamo abbandonato il criterio, settario e meschino, di considerare che tutto quanto non coincide con le nostre vedute debba essere respinto in blocco. Noi consideriamo la

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100 varietà di spinte, di interessi, di obiettivi, che animano il movimento operaio, popolare e democratico non solo come un dato oggettivo della realtà, ma come espressione della ampiezza e della ricchezza del movimento stesso. [..] Ed è perciò che il riconoscimenti del valore dei vari contributi e dell’autonomia dei diversi movimenti è ben lungi dall’essere, per noi, un espediente tattico. Muovendo da tali premesse politiche e teoriche, ci siamo sforzati di cogliere e di capire – al di fuori di ogni pregiudizio e dogmatismo – i fenomeni nuovi che vengono avanti nella società. Particolarmente positivo e aperto è stato il nostro atteggiamento nei confronti del movimento studentesco. Certo, cercare di comprendere non significa accettare acriticamente ogni cosa e ogni posizione, ma, al contrario, cercare in ogni dato o posizione quanto vi è o vi può essere di utile, o quanto vi è di negativo da combattere e respingere. Noi sentiamo che quanto avviene oggi in Italia, la volontà che prorompe dalle giovani generazioni di contare di più e di cambiare questa società ingiusta ed inumana, è anche in parte il frutto della giusta politica e del combattimento duro e paziente condotti negli anni passati dal nostro partito201.

Ma fu soprattutto Berlinguer, a cui era stato affidato l’intervento conclusivo, a voler accreditare l’immagine di un partito che, sia pure muovendosi all’insegna della continuità, era indirizzato «con slancio e decisione sulla via del rinnovamento»202 e in cui avevano potuto manifestarsi liberamente opinioni diverse grazie ad «una concezione non metafisica del centralismo democratico»203. In realtà, ha osservato Giuseppe Mammarella, fu proprio l’incompatibilità tra principi del centralismo democratico ed esistenza di una dissidenza interna organizzata a far decidere la segreteria per la radiazione204.

La tesi che il XII Congresso avesse provato la disponibilità del PCI ad ammettere al suo interno espressioni di dissenso fu largamente usata dai dirigenti comunisti nei mesi successivi soprattutto come argomento da utilizzare contro i «frazionisti» de «il manifesto» per dimostrare che il loro vero obiettivo fosse la scissione e non la richiesta di un confronto sulla linea politica. Se, però, si riprendono le battute finali dell’intervento di Berlinguer, sembra abbastanza chiaro che questa presunta libertà di espressione avesse dei limiti ben precisi. In questo senso, la «continuità» del partito era stata pienamente rispettata: «questo non significa che non abbiamo e non dobbiamo avere anche noi nostre precise regole morali. Io credo, anzi, che anche e proprio perché vogliamo essere una forza integralmente laica, mondana, razionale, si deve esigere da tutti e da ciascuno di noi un costume fondato sulla lealtà, un costume che, nella libertà e nel rispetto per ogni opinione, non solo escluda ogni manifestazione aperta di frazione, ma sia volto a superare tendenze non ancora del tutto scomparse di spirito di gruppo e anche certe furberie che, più che il partito, mortificano chi le pratica. Un sano spirito di partito e la devozione alla nostra grande causa sono e

201 L. Longo, Il Partito comunista italiano di fronte ai problemi nuovi della lotta democratica e socialista in Italia e dell’internazionalismo proletario in XII Congresso del partito comunista italiano cit., pp. 30-31. Cfr. anche Intervista con Luigi Longo. Come andare avanti sulla linea del XII Congresso, «Rinascita», 14 marzo 1969

202 E. Berlinguer, Costruire una nuova identità internazionalista cit., p. 775 203 Ivi, p. 746

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101 resteranno una delle garanzie più valide per affrontare con successo le ardue prove che ci attendono»205.

Ad ogni modo, le aspettative incoraggiate dalla nuova immagine del partito promossa dai vertici spiegano la profonda delusione che si diffuse in molte federazioni. A parte i militanti che lo lasciarono perché si riconoscevano nelle posizioni espresse dal gruppo de «il manifesto», anche fra coloro che intendevano restare dentro il PCI la vicenda insinuò forti ripensamenti.

Una sezione di Torino, ad esempio, votò a maggioranza un documento in cui si giudicava «intempestivo e affrettato il dibattito all’ultimo CC» che aveva dato «l’impressione di insofferenza burocratica e di chiusura dogmatica»; la radiazione dei «compagni del Manifesto», secondo quanto era scritto nel documento, non era stata preceduta da un vero dibattito e aveva assunto un «sapore di atto puramente amministrativo»206. La denuncia si allargava ad una critica complessiva dell’articolazione interna del partito e esprimeva il disagio provocato da certe dinamiche:

In questi ultimi anni abbiamo visto sorgere il PSIUP, il movimento studentesco e gruppi vari di estrema sinistra che oggettivamente hanno trovato una collocazione e uno spazio a sinistra del PCI. Questo denuncia non solo una politica carente da parte nostra ma non giova alla formazione di una politica alternativa e ci fa apparire in posizione conservatrice di garanti del sistema. I compagni avvertono un disagio profondo per il modo inadeguato con cui vengono affrontati problemi fondamentali per la vita interna del partito e per la sua capacità di rapportarsi alle masse in lotta, inadeguatezza causata soprattutto dalla pratica di trascurare i problemi profondi che intercorrono tra strategia da una parte e struttura del partito che deve