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Anja Breien, Uten Tittel [Senza titolo], Norvegia, 2005, colore, 14’

Tra le figure più importanti nel panorama cinematografico norvegese spicca, a partire dagli anni Sessanta, il nome di Anja Breien. Nata a Oslo nel 1940, dopo aver studiato all’IDHEC (Institut des Hautes Études Cinématographiques) di Parigi, ha iniziato a

21 P. Dubois, Video e scrittura elettronica. La questione estetica, cit., p. 21. 22 S. Lischi, Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video, cit. 23 A. Amaducci, Segnali Video. I nuovi immaginari della videoarte, cit. 24 Le sigle sono state adottate per praticità nella tabella riassuntiva finale.

muoversi nell’ambito del cinema come sceneggiatrice e assistente regista, debuttando nel 1967 con un primo cortometraggio e nel 1971 con il primo feature film intitolato Rape (Voldtekt). Fino a oggi ha realizzato una quindicina di lavori, tra corti, film e documentari orientati verso l’impegno civile, l’analisi storica e satirica della società. Ha partecipato a numerosi festival, tra i quali Berlino, Venezia e Cannes, ricevendo varie nomination e premi.25

Realizzato nel 2005 con la collaborazione alla sceneggiatura del famoso poeta e sceneggiatore italiano Tonino Guerra, Uten Tittel è un esempio di nuova narrazione sperimentale in cui il cinema e la fotografia tradizionale (il lavoro è stato realizzato con una macchina fotografica dotata di pellicola 24x36mm) vengono potenziati e impreziositi da importanti interventi di post produzione elettronica, sia per quanto riguarda la costruzione delle immagini, che per quanto concerne la concezione sonora. Si tratta di un film fotografico con una trama essenziale, appena tratteggiata, aperta e flessibile a molteplici interpretazioni. Dice Breien in proposito a partire dal titolo: «Mi piace il fatto che pittori e artisti visivi spesso chiamino le loro opere “senza titolo”. In quel modo evitano di dare un programma allo spettatore al quale viene permesso di studiare l’immagine a mente libera. Come in questo film. Un film senza titolo, ma anche senza dialoghi».26

Trama

Il soggetto sembra riecheggiare alcune tematiche della fantascienza apocalittica, prospettando l’ipotesi di una pandemia causata dall’arrivo di una nube di palloncini neri che improvvisamente solca il cielo di una città, presumibilmente del nord Europa. L’evento è seguito da numerose persone che ne contemplano l’arrivo sulla città, ma anche da una ragazza di colore che, dalla camera protetta di un appartamento, ne nota il sopraggiungere. La giovane donna esce, incamminandosi per sentieri innevati fino a raggiungere un campo distante dall’ambiente urbano, dove si sono riunite delle persone a guardare i palloncini planati al suolo. Il gruppo e la donna stessa si apprestano a una

25 Informazioni sull’autrice reperibili in: E. Marcheschi, Anja Breien, Uten Tittel, in S. Lischi, E

Marcheschi (a cura di) Realtà sospese/Suspended Realities. INVIDEO. Mostra internazionale di video e

cinema oltre, catalogo XVI edizione, Milano, Mimesis, 2006, p. 52.

Tra le pagine più interessanti su web si faccia riferimento a: http://www.imdb.com/name/nmo106908, luglio 2010; http://ww.amb-norvegia.it, luglio 2010; Gunnar Iversen, Second Sight: a review of Breien’s

film Trollsyn and Vokse opp., http://www.feralchildren.com/en/listbooks.php?bk=breien, luglio 2010;

http://www.mondimedievali.net/pre-testi/cinemanorvegese.htm, luglio 2010; Giovanni Ottone, Cinema

scandinavo: crisi esistenziali e nuove identità, in http://www.cinecriticaweb.it/panoramiche/;

http://www.nfi.no/english/norwegianfilms/nf1995/hustruer.html, luglio 2010.

sorta di rituale funebre, seppellendo sotto la neve i palloncini. Successivamente, mentre alcune persone salgono su un treno, la ragazza si accascia sulla pensilina e muore. Solo due ragazzini impauriti si accorgono del tragico evento.

Analisi: immagine

L’inizio del corto è dato da una sequenza di immagini fisse montate per stacchi netti, che illustrano la reazione delle persone bloccate nel traffico intasato mentre osservano, più con incredulità che con panico, qualcosa che nel cielo si profila “straordinaria”. La coralità dell’azione viene resa grazie a una serie di falsi movimenti in zoom elettronico all’interno della stessa inquadratura, che passano rapidamente di persona in persona, di sguardo in sguardo.

Attraverso una inquadratura dal basso verso l’alto che comprende il profilo di un uomo e le geometrie delle costruzioni, lo spettatore scopre quello che tutti stanno osservando: degli oggetti neri sospesi nell’aria, forse dei palloncini, invadono il biancore del cielo in prossimità degli edifici urbani. Successivamente, uno sguardo panoramico sulla città mostra l’imponenza del fenomeno: la nube nera si estende come un fiume che ha origini lontane e dilaga minacciosa.

L’aspetto interessante da rilevare è che i palloncini sono dislocati nell’immagine grazie alle soluzioni di compositing del programma Photoshop, che offre l’opportunità di controllare equilibrio e proporzione formale e cromatica dell’insieme.

Ai campi lunghi che ritraggono l’ambiente esterno si contrappone una complessa sequenza fotografica di interni: una ragazza di colore in piedi in una stanza nota l’avvicinarsi della nube. La sovrapposizione di piani identici della stessa immagine (la ragazza vista di profilo con la finestra nello sfondo), ma con variazioni di luce, offre un “falso” dinamismo all’immagine, mentre il compositing viene impiegato per ricreare un effetto d’ombra dei palloncini, prospetticamente impossibile, che passa sulle pareti della stanza. Inoltre, una sequenza di piani sempre più ravvicinati svela il volto preoccupato della donna. L’assedio è globale: la “cosa nera” è dappertutto, si è espansa sulla città fino a entrare nelle case.

Nella sequenza successiva la giovane si incammina per sentieri innevati, camminando supera due ragazzini che giocano, fino a raggiungere un gruppo di persone che si è raccolto al bordo di un campo fuori dalla città a osservare i palloncini atterrati al suolo. L’uso di campi e controcampi crea una certa illusione di movimento, grazie allo spostamento del punto di vista sulla scena da diverse angolazioni. Questo insieme di

donne, uomini, giovani e adulti viene presentato attraverso un complesso insieme di piani: dalla finta carrellata realizzata con un movimento laterale dentro la still, all’alternanza di piani americani, per passare ai mezzi primi piani e ai primi piani. Tra le varie persone si staglia la giovane di colore che è “foto-montata”, intarsiata (per dirla in termini elettronici) nel gruppo e nello spazio: su di lei batte una luce calda che la mette in evidenza, mentre sul resto dell’ambiente e dei volti scivola una luce bianca e tagliente. La ragazza è dentro la scena, ma al contempo ne resta fuori, diversa.

Tutti gli astanti partecipano a un rito collettivo di sepoltura dei palloncini. A ognuno di questi è legata una etichetta di identificazione simile a quella dei cadaveri negli obitori. Le persone si inginocchiano e vengono mostrate le loro mani al lavoro.

Una volta finito il rito vediamo la ragazza attendere un treno tra la gente. I piani ravvicinati sui volti delle persone tendono a escludere progressivamente il viso della giovane che, arrivato il treno e saliti i passeggeri, vediamo giacere al suolo esanime. Da diverse angolazioni e distanze osserviamo il volto della donna ricoperto sempre più dalla neve che sta cadendo.

Solo nel finale assistiamo all’inserimento di una scena in presa diretta: sta nevicando, la ragazza giace al suolo, i due ragazzini che prima aveva superato si accorgono dell’accaduto e, impauriti, la osservano e si prendono per mano.

Il video si chiude con una seconda presa diretta della fiancata rossa dei vagoni del treno che sfrecciano, mentre la neve continua a cadere fino a chiudersi con una lenta dissolvenza in nero.

Come ho già detto, Uten Tittel è un lavoro fotografico, concepito sull’accostamento per stacco di stills che restano fisse per intervalli di 3”-4”. Su questo assetto generale si attuano delle variazioni che spezzano la compattezza della fissità, instaurando un senso di “falso” movimento: zoom in e zoom out elettronici interni alle foto che, con carrelli digitali, servono a esplorare dettagli e particolari delle immagini inquadrate; animazioni, grazie al compositing, che “danno vita” a porzioni di still; associazioni di piani diversi della stessa immagine che, montate in dissolvenza, ricreano l’illusione del movimento; piani identici, ma con variazioni di luce che creano un illusorio dinamismo; dissolvenze di piani sempre più ravvicinati, o distanti, dello stesso soggetto; veri e propri inserti filmici di immagini in presa diretta.

Analisi: suono

La concezione sonora del lavoro si muove nel rispetto della stasi delle immagini senza sovraccaricarne il contenuto, ma al contrario dilatando le aperture degli spazi e facendo da contrappunto solo in alcuni particolari momenti in modo da esaltare ancora di più i contrasti.

Domina, in generale, un tappeto sonoro quasi impercettibile che identifica la città: clacson, automobili in corsa, sporadiche voci lontane. Sono rumori minuti e ovattati che coesistono con gli spazi, sia che si tratti della città che dell’aperta campagna ammantata di neve: non reclamano presenza, ma stanno in retrovia, ricordandoci la dinamicità di un ambiente vivo, seppure “congelato” in immagini fotografiche.

Via via ritorna anche un tema musicale, presentato all’inizio del lavoro con i titoli di testa.

Solo nella scena in cui la ragazza supera a piedi i ragazzini sul sentiero viene associato il suono di una possibile presa diretta, ma è frammentato e udibile quasi in sordina: si riconosce il rumore dei passi sulla neve, qualche fruscìo, le risa dei bambini e la musica del loro videogioco tascabile.

La parola è messa al bando per tutto il lavoro e nessun dialogo spezza l’atmosfera mistica di raccoglimento del rito di sepoltura in cui si odono delle voci che pronunciano, presumibilmente, i nomi delle etichette legate ai palloncini. In questa occasione viene introdotto un canto sacro, il Night Prayers di Giya Kancheli, che rende ancora più solenne la funzione.

Ancora rumori ambiente sono udibili nella scena dell’arrivo del treno alla stazione, il vento, l’avanzare della vettura, i passi della gente sulla neve che scricchiola: tutto contribuisce a restituire un senso di movimento proprio nel momento in cui la ragazza cade al suolo.

Immediatamente dopo, il silenzio accompagna le immagini in presa diretta segnalando un contrasto marcato, sia quando ci viene mostrata la neve che cade sul corpo della giovane a terra e solo i bambini se ne accorgono, sia quando è la fiancata rossa dei vagoni del treno a correre di fronte ai nostri occhi.

In assoluto silenzio una vita se ne va e tutto procede inesorabile.

Relazioni con il fantastico

Uten Tittel è collocabile nel primo gruppo di definizioni delineato nel Capitolo 2, ovvero quello che accoglie il taglio più “negativo” delle interpretazioni del fantastico

(Castex, Caillois, Vax, Todorov) sebbene, come vedremo più avanti a seguito di una serie di tracce di riflessione, sarà possibile stabilire un nesso con alcuni aspetti delle teorie di Jackson.

Fin dall’inizio è chiaro che nell’ambiente presentato si sta verificando un’irruzione violenta che altera la vita quotidiana di una certa compagine sociale. Questo, come ho già detto, sembra legare il soggetto dell’opera al filone fantascientifico apocalittico,27 poiché un evento esterno viene a minacciare la regolarità, apparentemente imperturbabile, della società civile.28 L’apparizione di qualcosa di imprevisto apre orizzonti di mistero che sembravano banditi e la sensazione di esitazione scandisce ogni scena: si è in dubbio sulla natura di questi oggetti misteriosi che improvvisamente appaiono; si è in dubbio sul loro significato; si è in dubbio sulle loro funzioni e sui loro effetti.

L’esitazione, in senso todoroviano, è propria dei personaggi che popolano l’universo che viene rappresentato ma, al contempo, è una componente emotiva che viene trasferita anche sullo spettatore. Quest’ultimo, però, rispetto agli altri è dotato di una prospettiva onnicomprensiva: mi riferisco alla ragazza di colore la quale, pur essendo presente, pur partecipando all’attività del gruppo (vd. la sepoltura), è calata nelle varie scene quasi in quanto presenza fantasmatica.

Il setting dell’avvenimento è ricollocabile nella categoria dell’altrove incomprensibile, non tanto perché siamo in presenza di un nonluogo, ma perché l’ambiente cittadino riconoscibile viene intaccato da una presenza minacciosa che ne altera le condizioni e il senso. Allora non solo quello che è sempre apparso consolidato e immutabile sembra nascondere dimensioni “altre” delle quali non si era a conoscenza, ma ancor peggio esso presenta delle “falle” dalle quali può travasare nella nostra realtà una presenza che viene a perturbare l’ambiente e il suo ordine.

Se la compagine sociale è compatta, in Uten Tittel l’altro è rappresentato dalla ragazza di colore per vari motivi: la giovane donna si muove nell’ambiente come presenza eccentrica, quasi fantasmatica, distante e fuori dal coro; è l’unica persona di origine africana e quindi “straniera” tra i personaggi, vestita con un cappotto di pelle chiara, un

27 Tuttavia, nell’intervista a me rilasciata dall’autrice e reperibile in Appendice II, ella stessa nega legami

con alcun tipo di produzione fantascientifica.

28 Scrive Vivian Sobchack: «[…] il cinema di fantascienza (si occupa) della società e delle istituzioni in

conflitto tra loro o con qualcosa di alieno. […] il cinema di fantascienza ha come scenario più spesso la grande città, il pianeta Terra stesso. […] è interessato alla confusione sociale, alla disgregazione dell’ordine sociale (creato dall’uomo), e alla minaccia per la società civile che si occupa dei propri fatti». Cfr. V. Sobchack, Screening Space: The American Science Fiction, New York, Ungar Press, 1987, trad. it.

Spazio e tempo nel cinema di fantascienza: filosofia di un genere hollywoodiano, Bologna, Bononia

marrone caldo che ne fa emergere la figura, anche nei campi lunghissimi e nell’insieme delle varie presenze, tutte dalla pelle chiarissima e vestite con capi scuri o dai colori freddi e neutri; è l’unica vittima della “pandemia” con la quale tutti sono venuti a contatto e quindi è in lei che si incarna il concetto di morte.

L’altro come corpo assente, invece, è rappresentato dai palloncini stessi che vengono seppelliti, come si trattasse di una messa di suffragio in cui la prima donna che avanza si inginocchia in un gesto di pietà che ricorda la Madonna ai piedi della Croce.

Ai palloncini è legata una etichetta che porta evidentemente scritto un nome con data di nascita e morte. Mentre la neve cade ricoprendoli, vengono pronunciati dei nomi legati a paesi ed etnie diverse. Svolgendo delle ricerche su alcuni dei nomi citati ho scoperto che si tratta di persone assassinate ingiustamente. Solo per portare alcuni esempi, Any Murama Nyabeyi è il nome di una bambina di tre anni uccisa in Congo durante gli scontri a Bukavo nel 2004,29 mentre Luis Gregorio Ojedo è stato vittima di una serie di violenze civili in Venezuela nel 2003.30

I palloncini neri, oggetti della vita quotidiana generalmente legati alla sfera infantile, simboleggiano quindi nella loro connotazione a lutto due grandi piaghe della società contemporanea: il razzismo e la cieca violenza. La ragazza di colore, bersaglio e vittima, sembra dunque essere la personificazione di ciò che il palloncino rappresenta: la morte ingiusta che talvolta viene riconosciuta e onorata simbolicamente dalla società civile, ma che altrettanto spesso viene ignorata o causata dalla stessa ignoranza.

Per quanto riguarda la relazione tra soggettività narrante e spettatore-destinatario credo sia importante provare a passare in rassegna i procedimenti retorici delineati da Ceserani, caratteristici del modo fantastico nella scena letteraria.

Per quanto riguarda la messa in rilievo dei procedimenti narrativi nel corpo stesso della narrazione, la soluzione per scatti fotografici evidenzia un meticoloso lavoro di messa in quadro dei soggetti, ripresi utilizzando tutta la scala dei piani e delle focali, diaframmi e tempi diversi che sottolineano, talvolta, il senso di movimento dei corpi, gli scatti repentini. Anche la stessa messa in sequenza delle immagini appare come una festa di celebrazione del montaggio, curato e articolato in tutte le potenzialità.31 I fatti

29 Cfr. http://www.kongo-kinshasa.de, giugno 2010. 30 Cfr. http://www.amnestyusa.org, giugno 2010.

31 Le analogie con La Jetée di Chris Marker sono evidenti. Non essendo questa la sede per un

approfondimento accurato, mi limiterò a evidenziare alcuni punti di contatto: entrambe le opere presentano una vicenda inquietante attraverso scatti fotografici, con l’inserimento cruciale di inquadrature a velocità regolare (una sola in Marker, due in Breien). In entrambi i lavori il tema della morte è dominante ed entrambi i protagonisti senza nome muoiono: nel caso di Uten Tittel, la morte è un evento quasi nascosto, taciuto; ne La Jetée l’immagine è assai più forte e perturbante. Dal punto di vista delle

presentati vengono proposti in modo accattivante e lo spettatore viene guidato alla scoperta della nube seguendo gli sguardi e i gesti dei vari personaggi, per poi entrare a fare parte della narrazione come sguardo unico e privilegiato che coglie e segue la presenza della giovane donna di colore.

La scrittura del lavoro è marcata dalle velocità variabili tra gli stacchi delle immagini, dalla sovrapposizione dinamica dei piani, dall’uso di dissolvenze e passaggi repentini, dai carrelli digitali associati al compositing, da una concezione sonora accuratamente studiata in cui si alternano silenzi e punteggiature particolari. Tutto l’insieme mostra un’attenzione precisa per le capacità proiettive e creative del linguaggio, poiché lo spettatore è chiamato a partecipare al tutto immaginando, aggiungendo, raccordando. Così come la sua attenzione è tenuta alta da una iperbole di emozioni che vanno dalla sorpresa, all’incredulità, allo spaesamento, al timore.

Nel racconto si verifica anche quello che Ceserani indica come passaggio di soglia dal quotidiano al perturbante. Questo perché come ho già detto, anche nel caso di Uten Tittel, «[…] il personaggio-protagonista si trova d’improvviso come dentro due dimensioni diverse, con codici diversi a disposizione per orientarsi e capire».32

Inoltre, il lavoro è disseminato di ellissi che generano buchi narrativi e temporali, che rafforzano la scelta precisa di non avvalersi della parola in quanto dialogo. E l’ellissi più profonda è ovviamente quella finale, quando ormai convinti del ristabilimento di un equilibrio grazie alla sepoltura dei palloncini, questo viene invece infranto con la morte inaspettata della ragazza.

Alla luce dell’insieme di tutte queste considerazioni, nel lavoro di Anja Breien il

riferimento al perturbante si compie nel ritorno alla collettività di qualcosa che essa stessa aveva rimosso. Questo, nell’ottica di Rosemary Jackson, esplicherebbe la

funzione del fantastico nel portare in luce ciò che è stato a lungo taciuto e che invece non può più essere tralasciato o nascosto, fino a turbare gli ordini costituiti. Nel caso di Uten Tittel il “rimosso” è ovviamente dato dalle tematiche importanti nella società contemporanea che spesso, ancora oggi, non vengono sufficientemente affrontate: il razzismo, l’emarginazione, la violenza.

immagini, nelle prime scene di entrambe le opere appaiono cieli minacciosi e minacciati al tempo stesso, infatti la nube nera di Breien riporta alla memoria le nubi funeree che incombono sulle rovine di Parigi. Per un’accurata analisi de La Jetée si faccia riferimento a: G. Paoletti, Il passato e il futuro delle

immagini. La Jetée di Chris Marker e oltre, in S. Cargioli (a cura di), Le arti del video. Sguardi d’autore…, cit., pp. 115-146.

In ottica psicoanalitica Uten Tittel porta in sé tutta la stravaganza e l’incredulità di un sogno, per l’originalità del tema, per come questo viene trattato, ma anche per il carattere frammentario, o di condensazione, scelto come registro di rappresentazione della storia. Ciò nonostante la sequenzialità narrativa viene rispettata, e non ci sono indicazioni cronologiche circa l’evento che potrebbe essersi verificato nel passato, come in un ipotetico futuro. Il linguaggio simbolico che trova nei palloncini l’oggetto rappresentativo per eccellenza passa attraverso tutta la relazione che i vari personaggi intrattengono con essi, dai loro sguardi e dalla loro gestualità. Ed è profondamente simbolico anche l’uso dei contrasti cromatici, in cui l’atmosfera funerea è data dal nero e dal bianco, rispettivamente colori del lutto nelle culture occidentali e orientali. Il cielo, continuamente livido, si fonde con la neve e l’acqua del paesaggio, creando un setting di rappresentazione spesso chiuso, soffocante, quasi si preparasse a essere luogo di morte.

Per concludere, il senso dell’antinomia fondamentale si evince nel soggetto stesso, ovvero nella co-presenza di due realtà che vengono a coesistere improvvisamente e con le quali la società si trova ad avere a che fare per ristabilire una soluzione di equilibrio.

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