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Eckhart e le auctoritates dell’antichità.

«La natura o la peculiarità di un pensiero non è compresa una volta che se ne sia scoperta la presunta od anche effettiva «fonte». Una coscienza ermeneuticamente avveduta, considerando il rapporto fra cultura classica e Cristianesimo, non dovrebbe fissarsi nel sostenere l’esistenza di opposizioni inconciliabili, che, nella loro astrattezza storica, non sono pienamente verificabili, e neppure facilmente utilizzabili come slogan; né, tuttavia, dovrebbe risolversi per la tesi secondo la quale, nella recezione della metafisica greca attraverso la teologia cristiana, l’elemento filosofico verrebbe totalmente trasformato, o persino annullato, né, come già accennato, per la tesi contraria, secondo la quale nella recezione di idee e di metodi filosofici l’autentico contenuto cristiano non giungerebbe ad espressione, o quanto meno vi giungerebbe in modo del tutto inadeguato (così, ad esempio, la tesi di Adolf von Harnack della «ellenizzazione del cristianesimo» e della connessa sua mondanizzazione). E non è neppure adeguata, ed in molti casi persino difficilmente dimostrabile, l’affermazione secondo cui, nella recezione della filosofia greca attraverso la teologia cristiana, saremmo in presenza di un processo solamente formale, il che significa, in ultima analisi, un processo «esteriore», che non concernerebbe il contenuto: i linguaggi – concetti e metafore – restano gli stessi, ma il contenuto della teologia cristiana si differenzia in modo essenziale dall’ambito filosofico, da cui ha tratto la

terminologia, di modo che essa deve apparire anche oggettivamente inconciliabile con quest’ultimo»118

3.1 Il patrimonio del pensiero classico. Eckhart e la filosofia.

Le “autorità” eckhartiane attingono al patrimonio degli autori e dei filosofi classici, dei Padri e Dottori della Chiesa. Quello che in molti casi dovrebbe esser visto come un materiale eterogeneo, considerata la diversa origine, in Eckhart, come accadeva d’altronde per la maggior parte degli autori medievali, viene fuso e trattato unitariamente. E’ anche vero che in quest’opera di sintesi Eckhart aveva a disposizione il lavoro di secoli di cristianesimo che si era mosso in tal senso, nonché le sintesi offerte da ambienti estranei al cristianesimo, quali il neoplatonismo pagano e la filosofia araba ed ebraica. L’influsso del neoplatonismo sul medioevo fu determinante e indiscusso119.

Esso conobbe due canali principali, a cui a partire soprattutto dal secolo XII si aggiunse quello arabo: Agostino e Dionigi l’Areopagita. Furono questi due autori a “cristianizzare”, se così si può dire, il neoplatonismo. Si tende – e Tommaso solo in parte è un’eccezione – a leggere lo stesso Aristotele in chiave neoplatonica: in tal senso spingevano anche i commenti arabi, attraverso cui giunse in Occidente l’intero corpus delle opere aristoteliche. In particolare i domenicani di Colonia, con a capo Alberto,

118 Cfr. l’Introduzione di W. Beierwaltes (pp.XXIII-XXIV) a E. von Ivànka, Platonismo cristiano, tr. it. E.

Peroli, Vita e Pensiero, Milano 1992.

119 Sul platonismo e il neoplatonismo nel medioevo cfr. B. Faes de Mottoni, Il Platonismo medievale,

Loescher, Torino 1979. Ma anche: C. Baeumker, Der Platonismus im Mittelalter, in Beiträge zur

Geschichte der Philosophie des Mittelalters, Münster, Aschendorff 1927, vol. XXVI, 1-2, pp. 139-79; E.

Hoffman, Platonismo e Medioevo, in Platonismo e filosofia cristiana, tr. it. G. Sgarbi, il Mulino, Bologna 1967, pp. 223-310; R. Klibanski, The Continuity of the Platonic Tradition during the Middle Age, The Warburg Institute, London 1950, dove è presentato il piano di pubblicazione del Corpus Platonicum

Medii Aevi che raccoglie in edizione critica le fonti latine, bizantine e arabe alle quali si ispira il

Platonismo medievale; J. Koch, Platonismus im Mittelalter, in Kölstinischer und dionysischer

Neuplatonismus und das Mittelalter, in «Kant-Studien», XLVIII, 1956-57, pp. 177-33; E. Garin, Studi sul Platonismo medievale, Le Monnier, Firenze 1958; T. Gregory, Platonismo medievale, Istituto Storico

Italiano per il Medioevo, Roma 1958; AA.VV., Neoplatonism and Christian Thought, Albany N. Y. 1982; di W. Beierwaltes, Platonismo nel cristianesimo, tr. it. M. Falcione, Vita e Pensiero, Milano 2000.

puntarono ad offrire una sintesi del pensiero platonico e aristotelico in chiave chiaramente neoplatonica. Tanto che si è parlato di “neoplatonismo domenicano”.

Eckhart rimane un uomo e un pensatore del medioevo anche rispetto al suo modo di recepire e utilizzare quel patrimonio di dottrine e idee che gli giungeva dalla filosofia classica, attraverso gli stessi canali cui tale patrimonio era comune ai suoi contemporanei. Questo significa che manca in Eckhart quella sorta di “passione filologica”, che invece contraddistingue gli umanisti, e che di lì a poco avrebbe portato pensatori e studiosi ad avvicinarsi al mondo classico con il desiderio di lasciare parlare maggiormente i testi, di farli emergere per quanto possibile nella loro originaria significanza. Le modalità con cui Eckhart si accosta alla filosofia sono quelle stesse dei suoi contemporanei del medioevo, con i quali egli condivide un medesimo bagaglio di conoscenze. Se a partire dalla patristica, e poi lungo tutto il medioevo, era stata operata una rilettura in chiave cristiana del pensiero classico, questo tuttavia non significa che gli intellettuali medievali, Eckhart compreso, si sentissero autorizzati ad avvicinarsi a tale pensiero con la convinzione di essere assolutamente liberi di utilizzarlo a proprio arbitrio e secondo esigenze legate a personali sistemi di dottrina. Nessuno dei medievali, Eckhart compreso, puntò mai a sviluppare un sistema di pensiero che potesse esser fatto passare come “proprio”. Si trattava di dimostrare semmai che quanto si sosteneva rispondeva, con maggiore aderenza rispetto ad altre possibili dottrine, alla verità. E la verità precedeva e sovrastava qualunque cosa si potesse dire su di essa, non essendo in nessun modo il risultato di un dire, di un argomentare. La verità andava cercata con umiltà., con la consapevolezza della fragilità di ogni possibile argomentazione sillogizzante. Nessun arbitrio era dunque possibile o tollerato nella lettura degli antichi. Essa non poteva in alcun modo scostarsi, ma solo segnarne progressivi

approfondimenti, dalla lettura che i padri e i dottori della Chiesa avevano dato del pensiero antico lungo i secoli, segnando la nascita di quella che non senza difficoltà viene definita la filosofia cristiana. L’eretico, prima di fare un uso arbitrario delle

auctoritates, ne fa un uso distorto, errato, perché ottenebrato dalle insidie del padre della

menzogna, Satana. L’arbitrio è frutto dell’errore, dell’incapacità di cogliere la verità, di seguire la verità, ormai rivelata e di cui la Chiesa è depositaria e guida. L’arbitrio nel sapere non è il segno della libertà di interpretare e di pensare, ma il laccio che soffoca chi è caduto nell’errore e pretende con pervicacia di sapere più del necessario, e cioè di sapere più del vero insegnato dalla Chiesa. All’intellettuale del medioevo non è negata la possibilità di utilizzare liberamente le varie auctoritates, di “mescolarle” in modo anche personale e originale. Ciò che però non è assolutamente consentito è l’uso temerario dell’auctoritas. E l’uso è temerario nella misura in cui non è più la filosofia a piegarsi dinanzi ad una verità, che è eterna ed è sempre la stessa, ma è la verità che viene adattata per così dire a particolari sistemi, e nel momento in cui non appare con assoluta chiarezza che non c’è più nulla di nuovo da scoprire, ma una verità ormai rivelata da cercare e amare. Il maestro medievale si muove in bilico su quel pericolosissimo crinale, i cui versanti sono il pensiero da un lato e la rivelazione dall’altro. Egli sa che comunque – l’immagine utilizzata non ci induca in errore! – la sua virtù in ultimo non può e non deve essere quella dell’equilibrismo. Egli non è chiamato a mediare semplicemente, ma a mostrare come il pensiero antico, di più, la ragione dell’uomo di ogni tempo e luogo, trovi inveramento e compimento nel messaggio salvifico del Cristo. Ai rovi qualunque dottrina o idea che possa in ultimo collidere con tale messaggio! Tutti i maestri medievali, Eckhart compreso, non esitano, e nulla ci può indurre a pensare che si tratti di semplice opportunismo o calcolo, a dichiararsi pronti a

revocare, a cancellare dalle proprie opere, a considerare come mai detta, qualunque affermazione possa allontanarsi dalla verità rettamente intesa, per rettamente intendendosi secondo l’insegnamento che la Chiesa sola, alla fine, è chiamata a dare.

Alla luce di quanto detto, si comprende come manchi in Eckhart uno studio per così dire asettico degli antichi e della filosofia, in ciò al pari dei suoi contemporanei. Sbaglieremmo ad aspettarci di trovare in un qualsiasi punto dell’opera eckhartiana l’intento di cogliere il pensiero di un qualche autore classico, fosse Platone o Aristotele o Proclo, per così dire direttamente, sganciato cioè da quanto su questi è stato già detto dai padri e dai dottori della Chiesa, o sganciato dal bisogno più generale di mostrare come tale pensiero si innesti naturalmente sul tronco della dottrina cristiana, trovando in esso compimento e giustificazione. Eckhart prende così dagli antichi quanto è a lui necessario, in una sorta di opera di attualizzazione del loro pensiero, che risponde a diverse esigenze: quella del maestro e teologo, desideroso di trovare e indicare la piena convergenza delle dottrine filosofiche sulla verità una e sola, Cristo, e quella del predicatore e guida spirituale, intento a mostrare al proprio uditorio i vestigia Dei negli uomini di ogni tempo e luogo. L’unica originalità che Eckhart si concede, comune in ciò a quanto gli altri teologi d’ingegno del tempo facevano, è nello stile e nel linguaggio, nella diversa utilizzazione ed accentuazione-dosaggio delle varie filosofie cui fa riferimento per un’esposizione, che non vuole certo allontanarsi dal magistero della Chiesa. Eckhart stesso avverte fin dal ricordato Prologo generale all’Opus Tripartitum, che per quanto assurde, dubbie o false, possano apparire a un primo sguardo alcune delle proposizioni, delle questioni e delle esposizioni contenute nell’opera, ad un attento esame si vedrà chiaramente che esse sono in perfetta sintonia con quanto è contenuto nella Scrittura o con quanto sostengono i più famosi santi o dottori.

Studiosi come Endre von Ivànka, ma anche Étienne Gilson o Wilhelm Weischedel120, per citare solo alcuni nomi tra i più importanti in tale campo, hanno

ripercorso le fasi di quel processo di recezione e trasformazione della filosofia classica all’interno della cosiddetta filosofia cristiana, soprattutto rispetto ai principali nuclei della dottrina cristiana, quali l’essere e il divenire, il contingente e il necessario, la «trascendenza», l’Uno, Dio e la creazione, la grazia e l’anima. Il neoplatonismo eckhartiano risponde all’esigenza generale, comune ad Alberto e Tommaso d’Aquino, di trovare una sintesi tra le forme di pensiero che il Platonismo cristiano aveva sviluppato partendo dai presupposti del pensiero platonico, e che avevano dominato il panorama culturale fino al XII secolo, e i fondamenti dell’Aristotelismo, diffusosi prepotentemente a partire proprio dal secolo XII. In ciò Eckhart, ma anche Alberto e Tommaso, seguivano una intuizione fondamentale del neoplatonismo stesso, e cioè che Platone e Aristotele non sono inconciliabili. Da qui il modo di procedere di Eckhart rispetto alle “autorità”. Esse non vengono citate tanto per coglierne ciò che li distingue, ma principalmente ciò che le accomuna, anche a prezzo di evidenti forzature. In generale, a differenza che sul piano morale, dove Eckhart appare implacabile nel condannare ogni forma di ipocrisia da profondo conoscitore dell’animo umano, sul piano culturale e speculativo Eckhart evita la polemica o lo scontro diretto, comuni invero negli accesi dibattiti o trattazioni delle varie questioni nel Medioevo. Più che a confutare o combattere quanto non appare in linea con la retta dottrina cristiana, egli appare intento a trovare superiori sintesi: un atteggiamento che alla fine gli costerà caro e che è all’origine, a nostro avviso, di tanti fraintendimenti del pensiero eckhartiano.

120 Di quest’ultimo si può citare Il Dio dei filosofi. Fondamenti di una teologia filosofica nell’epoca del

Qual era, infine, l’effettiva conoscenza che Eckhart aveva dei classici, di Platone, di Aristotele, di Proclo, di Seneca e così via? Nelle pagine che seguono cercheremo di evidenziare quali siano state le opere dell’antichità classica che Eckhart conosceva direttamente e quali invece le citazioni di seconda mano. Di qualunque tipo fosse la conoscenza, comunque, Eckhart utilizzava tali autorità solo all’interno degli interessi e del dibattito teologico e speculativo del tempo, ad usum finis. Non c’è la pretesa nel maestro di leggere Platone, ad esempio, diversamente, magari più platonicamente, di Agostino o di Dionigi l’Areopagita, né Aristotele più aristotelicamente di Tommaso d’Aquino. Se differenza può trovarsi, essa è data dalla diversa accentuazione, rispetto ad esempio a un Tommaso, che riguardo specifiche questioni teologiche possono assumere le citazioni delle varie auctoritates. Dunque è su tali questioni che bisogna concentrare l’attenzione, piuttosto che sull’esame delle possibili trasformazioni che Eckhart opererebbe sui pensatori della classicità. E non solo perché il maestro medievale segue la linea tracciata dai padri e dai dottori della Chiesa nell’accostarsi alla filosofia, anche se il modo in cui lo fa non manca certo di una sua peculiarità, ma soprattutto perché Eckhart non appare interessato ad uno studio “storico”, ci sia consentito questo anacronismo, fine a se stesso del mondo classico, quanto ad una riflessione teologica su cui pesa l’urgenza del presente, l’impegno del riformatore e del predicatore, oltre che del maestro. Il nostro approccio alle diverse

auctoritates di riferimento, dunque, punterà principalmente a cogliere la portata delle

questioni trattate da Eckhart, il loro inquadrarsi o il loro essere elemento di rottura specialmente rispetto al pensiero di Tommaso d’Aquino e in genere, alla dottrina della Chiesa.

3.2 Platone.

Che il “platonismo medievale” sia stato innanzitutto un “neoplatonismo medievale”, specie sul piano teologico, è attestato dal fatto che per lo più Platone è espressamente citato quale auctoritas solo nel contesto della trattazione dei problemi fisici e cosmologici. Di Platone, infatti, fu nota lungo il medioevo soprattutto la prima parte del Timeo, nella traduzione e con il commento di Calcidio, mentre ebbero circolazione limitata soltanto altri due dialoghi, il Menone e il Fedone. Non fa eccezione Eckhart, che conosce il commento di Calcidio e cita Platone, che chiama “il grande chierico”, in vero poche volte, in riferimento quasi sempre ad argomenti concernenti la fisica o la cosmologia. Nel Commento al vangelo di Giovanni121, ad esempio, Platone è

citato dal Timeo, nella traduzione di Calcidio, a conferma di quanto è nella Bibbia circa il Sine ipso factum est nihil del Prologo di Giovanni. Niente è fatto da Dio senza ragione, senza sapienza (cfr. Sal 103, 24) e intelletto (cfr. Sal 135, 5), niente accade per caso (cfr. Gb 5, 6), così come dice lo stesso Platone-Calcidio: «omne autem quod

gignitur ex aliqua causa necessario gignitur. Nihil enim fit cuius ortum non legitima causa et ratio praecedat» (Timaeus, interprete Chalcidio, ed. I. Wrobel 1876, 28A).

Sempre dal Timeo (29e), nella versione di Calcidio, è tratta la citazione presente nella medesima opera122 e che dice di Dio: «egli è perfettamente buono, e da chi è

perfettamente buono è esclusa ogni invidia». Può essere menzionata quale ulteriore opera dove è citato Platone, il Commento alla Genesi123.

Il poco che rimane di altre citazioni di Platone, disseminato nei diversi scritti eckhartiani e non tratto dal Timeo nella versione calcidiana, non è sicuramente di “prima

121 In Ioh. n 54, LW, 45, 5-6. 122 In Ioh. n. 639, LW, 556, 4-5. 123 Cfr. ad esempio In Gen. nn. 25 e 31.

mano”. Eckhart poteva attingere in ciò ad Aristotele stesso, ad Agostino, Cicerone, Temistio, al patrimonio culturale del tempo, e, perché no, a Tommaso, che possiede però anch’egli una conoscenza di Platone limitata al Timeo, «di cui, secondo la lettera dell’Università di Parigi al Capitolo Generale di Lione (Pentecoste 1274), S. Tommaso, verso la fine della sua vita, aveva incominciato l’esposizione»124.

3.3 Aristotele.

Aristotele è l’autorità “pagana” più citata da Eckhart. Egli è “il Filosofo” per antonomasia ed è, secondo quanto Eckhart dice nel sermone tedesco Homo quidam

nobilis abijt in regionem longinquam accipere regnum et reverti, «il più grande di tutti i

maestri che abbiano mai trattato di scienza della natura» (Der ho°hst vnder den

maistern, der von natùrlichen kùnsten ie gesprach)125. Non c’è opera a noi pervenuta del

maestro medievale in cui lo Stagirita non sia presente. Eckhart attinge direttamente alle opere conosciute di Aristotele, ma ha presenti anche “raccolte aristoteliche”, come le

Auctoritates Aristotelis, i commenti arabi sulle opere aristoteliche e soprattutto,

l’Aristotele di Tommaso d’Aquino, che apriva la via, a partire dal piano gnoseologico, al raggiungimento di un equilibrio tra ragione e fede. Lo stesso obiettivo principale degli scritti eckhartiani, tradurre in un discorso di ragione il dato della Scrittura e della fede, si inquadra nella tradizione aristotelico-tomista. Interessante notare come Ceslao Pera, nel citato studio delle fonti nella Summa theologiae, mostri che in Tommaso Dionigi svolge il ruolo di correttivo di un Aristotele letto, in chiave “averroista”, quasi esclusivamente come un campione della ragione contro la fede e le fabulae della teologia. In realtà, Tommaso ed Eckhart, pur nella loro diversità e originalità di sintesi e

124 C. Pera, Le fonti del pensiero di S. Tommaso…, cit., p. 69. 125 Predigt 15, DW, 251, 5-6 (in Opere tedesche, cit., p. 224).

con “gradazioni” e “dosaggi” diversi di platonismo e aristotelismo, si muovevano nell’ambito di un progetto culturale di neoplatonismo “cristiano” e “domenicano”, che, come è stato notato, faceva capo a Colonia e ad Alberto.

Di Aristotele Eckhart ha ben presenti: Metaphysica, che conosceva sia nella versione di Guglielmo di Moerbecke, ma anche in quella arabo-latina126; il De anima, di

cui aveva avuto particolare fortuna il commento di Avicenna; la Physica; il De coelo; il

De generatione et corruptione; i testi dei Parva naturalia; i Meteora; l’Ethica nicomachea; la Politica; gli Elenchi sophistici; gli Analytica priora e posteriora; i Topica127. Attraverso Aristotele è spesso citato tra gli altri Anassagora. E’ il caso, ad

esempio, del Commento al vangelo di Giovanni, n. 38, in cui Eckhart, a proposito dell’in principium erat verbum, ricorda come sia già Anassagora, citato dal libro III del

De anima, a sostenere che “il principio” è il puro intelletto, «nel quale non v’è altro

essere se non il pensare, senza avere niente in comune con nulla»128.

E più avanti, commentando l’in propria venit del Prologo giovanneo, Eckhart chiarisce che le “cose” per essere “proprie” di Dio e riceverlo non devono avere nulla di proprio, devono essere totalmente passive. La materia deve essere pura potenza per ricevere la forma. L’intelletto stesso deve essere passivo, «il nulla di tutte le cose, per

126 Nel sermone latino XL, ad esempio, sul movimento provocato dalla somiglianza e dall’amore, è citato

“il Filosofo”: «niente si muove verso qualcosa, se non ha in sé un po’ di quel qualcosa verso cui si muove». La citazione è secondo la versione arabo-latina, manca nel testo greco e nella versione di Guglielmo di Moerbecke. Cfr. M. Eckhart, Sermoni latini, tr. it. M. Vannini, Città Nuova, Roma 1989, p. 233.

127 Fin dal XII secolo Giacomo Veneto aveva tradotto alcune parti della logica nova (Analytica posteriora

con frammenti di un commento di Alessandro di Afrodisia; parte degli Elenchi sophistici), alcuni libri

naturales (Physica, De anima, alcuni testi dei Parva naturalia) e parte della Metaphysica. Enrico

Aristippo aveva tradotto il quarto libro dei Meteora. Ad un gruppo di traduttori anonimi, attivo soprattutto in Italia, sono da attribuire le traduzioni di Analytica priora e Topica, degli Analytica posteriora, del De

generatione et corruptione e della cosiddetta Ethica vetus (cioè i libri 2 e 3 dell’Ethica nicomachea), la

traduzione quasi completa della Metaphysica e di parte della Physica, il completamento dei Parva

naturalia. Gherardo da Cremona traduce Analytica posteriora, Physica, De coelo, De generatione et corruptione, Meteora. Sempre Gherardo traduce il Liber de causis.

128 In Ioh. n. 38, LW, 32, 11-13: «Tertia, quod ipsum principium semper est intellectus purus, in quo non

poterle tutte pensare». Proprietà formale dell’elemento passivo è l’essere nudo. E cita il

De anima e la Metaphysica di Aristotele:

«Questo è chiaramente quel che qui è scritto: «venne nelle realtà proprie», e poi: «i suoi non l’hanno ricevuto», cioè tutto quel che ha in sé qualcosa di proprio. Ad esempio: se l’occhio avesse un qualche colore o qualcosa del colore, non potrebbe avere alcun colore. Ma di più: se la vista possedesse un atto qualsiasi, anche relativo a se stessa, non sarebbe più capace di accogliere il visibile in quanto tale. Infatti è necessario che ciò che è attivo in quanto tale non sia in alcun modo passivo ed, al contrario, che il passivo in quanto tale non sia in alcun