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I primi secoli del cristianesimo Le auctoritates della Patristica.

4.1 Eckhart e i Padri della Chiesa orientale.

Prima di trattare dell’enorme influsso esercitato su Eckhart da Dionigi l’Areopagita e da Agostino, è bene soffermarsi sulla presenza nel maestro medievale degli altri Padri della Chiesa. Ben noti ai medievali delle opere dei Padri greci erano, in particolare, il De principiis di Origene nella versione di Rufino (secolo V), il De

hominis opificio di Gregorio di Nissa, tradotto, con gli Ambigua di Massimo il

Confessore, dall’Eriugena (secolo IX), il De natura hominis di Nemesio nella traduzione di Alfano (secolo XI) e, nelle versioni di Burgundio di Pisa (secolo XII), il

De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno e le omelie di Giovanni Crisostomo.

La conoscenza dei Padri orientali in Eckhart non è particolarmente profonda ed è spesso di seconda mano, in particolare mutuata dalle Sentenze di Pietro Lombardo,

eccezion fatta ovviamente che per Dionigi. Ma ciò è dovuto, com’è facile notare, a una generale “tendenza” nei medievali, tutti presi dal discorso dionisiano e di Agostino. Anche sull’attribuzione delle opere vi era qualche difficoltà. Non infrequenti erano i casi degli “pseudo”. Capitava, ancora, che sotto il nome di Gregorio Nisseno, ad esempio, circolasse una raccolta di trattati sulla natura dell’uomo, tra i quali il più importante è opera di Nemesio Nisseno, vescovo di Emesa in Fenicia, tra la fine del IV e il principio del V secolo, autore com’è stato ricordato del De natura hominis, opera molto sfruttata nel Medioevo. E dunque, capitava che talune attribuzioni non fossero corrette. Spesso in Eckhart la citazione dei Padri orientali proviene anche da Alberto Magno o da Tommaso d’Aquino. Egli ha presenti, oltre ai Padri greci citati, Atanasio (ma si tratta per lo più di uno “pseudo” che viene citato), Basilio, Gregorio Nazianzeno, Cirillo di Alessandria.

4.1.1 Origene, lo pseudo Atanasio, Gregorio di Nazianzo.

Ad Origene, in particolare al suo Commento a Geremia, secondo la versione di Girolamo (In Hieronymo interprete), testo che il maestro di Erfurt trovava citato tra l’altro da Pietro Lombardo nelle Sentenze, e ad Agostino, Eckhart si rifà per la fondamentale dottrina della “nascita eterna”. L’uomo giusto, “virtuoso”, al pari di quanto accade nella divinità per il Figlio, nell’operare «sempre nasce» da Dio. Egli è “deiforme”, in quanto nato da Dio e dallo spirito, e «opera per operare»:

«E’ dunque chiaro che, come Dio in quanto spirito opera tutto da se stesso, per se stesso, in se stesso, tramite se stesso, così l’uomo spirituale, nato dallo spirito, in quanto tale, ovvero come giusto, opera giustamente a partire da se stesso:

infatti opera a partire dalla giustizia, che è una cosa sola col giusto – e da se stesso, in quanto formalmente giusto – e per se stesso, giacché per la giustizia che è tutt’uno con lui. Per lui operare è essere, è vivere; Fil 1, 21: «per me vivere è Cristo». «La vita è l’essere per i viventi». Nell’operare nasce e viene generato, vive per Dio; Gal 2, 20: «vivo, ma non più io; perché in me vive Cristo». A proposito del passo di Ger 11, 9: «fu scoperta una congiura», Origene dice così: felice colui «che sempre nasce da Dio; non dirò che il giusto nasce una sola volta da Dio; invece nasce sempre da Dio, in ogni singola opera di virtù». Infatti nella divinità il Figlio sempre è nato, sempre nasce. […] colui che è nato dallo spirito, come il giusto dalla giustizia, non ha principio né fine al di fuori di sé, ma in sé e da sé»171.

Nella Lezione I del Commento all’Ecclesiastico, commentando il versetto di

Eccli 24, 23, Ego quasi vitis fructificavi suavitatem odoris, che fa del frutto il fine del

fiore, per cui «il fiore serve al frutto, non il contrario, ed il fiore conduce al frutto, non il contrario»172 (flos servit fructui, non e converso, et flos spirat in fructum, non e

converso), Eckhart specifica che le cose divine hanno il frutto nel fiore, a differenza

delle cose non divine. Questo perché Dio è “fiore” in quanto principio, e “frutto” in quanto fine: «Così, dunque, fiorisce e fruttifica nello stesso tempo e nello stesso modo,

171 In Ioh, 341, LW, 289-290, 12-16 1-9 (tr. it. pp. 229-230): «Patet ergo quod sicut deus spiritus operatur

omnia ex semet ipso et propter semet ipsum, sic homo spiritualis, natus ex spiritu, in quantum talis, puta iustus, operatur iuste a semet ipso: nam a iustitia, quae una est cum ipso iusto – et ex semet ipso: utpote iustus formaliter – et propter semet ipsum: nam propter iustitiam unam cum ipso. Sibi operari esse est, vivere est, Phil. 1: ‘mihi vivere Christus est’. «Vivere viventibus est esse». Operando gignitur, nascitur, vivit deo, Gal. 2: ‘vivo ego, iam non ego, vivit autem in me Christus’. Origenes super illo: ‘inventa est coniuratio’. Ier. 11, sic ait: felix ille «qui semper a deo nascitur: non enim dicam semel iustum ex deo natum, sed per singula virtutis opera semper ex deo nascitur». Nam et in divinis filius semper natus, semper nascitur. […] natus ex spiritu, puta iustus ex iustitia, non habet principium nec finem extra se, sed in se et ex se». Il «semper nascitur, semper natus est» si trovava già in Pietro Lombardo, Sent. I d. 9 c. 4. Riguardo la formula in Origene, è da citare In Ier. hom. 6 (Hieronymo interprete), PL 25, 637.

è fiore e frutto, e il fiore è il frutto» (Sic igitur simul et eodem floret et fructificat, flos

est et fructus, et flos est fructus)173. Questo “fiorire” e “fruttificare” di Dio è la

generazione eterna del Figlio, con la quale Dio opera in se stesso: «quando Dio opera in se stesso – se qui si può parlare di opera –, sempre generò il Figlio e sempre lo genera, sempre è nato, sempre nasce: il fiore è il frutto, il fiore è nel frutto, il frutto nel fiore» (ubi deus operatur in se ipso, si opus dici debeat, semper filium genuit et gignit, semper

natus est, semper nascitur: flos est fructus, flos in fructu, fructus in flore)174. «Per

l’uomo virtuoso il frutto è nello stesso operare virtuosamente, non nell’aver operato. Infatti la virtù e il bene consistono nell’atto. Perciò l’aver operato non sarebbe mai frutto della virtù, se l’aver operato non fosse operare, il frutto non fosse fiore»175. E

corredando quanto afferma con la citazione del Commento a Geremia di Origene, Eckhart chiarisce che l’aver Dio generato il Figlio va inteso come un generare, dove non vi può essere niente di passato né di futuro, “né in realtà né nel nostro intendere”:

«Infatti in Dio il Padre non avrebbe generato il Figlio, se l’aver generato non fosse generare. Perciò Origene, nel suo Commento a Geremia, fa dire alla Persona divina del Figlio: «prima di tutte le colline mi genera il Signore», «e non “mi ha generato”, come alcuni erroneamente leggono» – così testualmente Origene – riferendosi a Prov 8, 25. La nostra traduzione suona: «venivo generato», Sap 8. Il motivo è che in Dio, e dunque nel divino in quanto tale, non v’è niente di passato né di futuro, né in realtà né nel nostro intendere»176.

173 Super Eccl. n. 19, LW, 247, 10-11 (tr. it. p. 58). 174 Super Eccl. n. 21, LW, 249, 1-3 (tr. it. p. 60).

175 Super Eccl. n. 22, LW, 249, 6-9 (tr. it. p. 60): «Notandum ergo quod virtuoso fructus est ipsum operari

virtuose, non operatum esse. Virtus siquidem et bonum in actu consistit. Propter quod operatum esse nequaquam esset fructus virtutis, nisi operatum esse esset operari, fructus flos».

176 Super Eccl. n. 23, LW, 249-250, 12 1-6 (tr. it. p. 61): «In ipso enim deo pater filium non genuisset, nisi

Nel sermone latino VIII, n. 84, o nel Commento al vangelo di Giovanni, n. 699 e nn. 705-706, troviamo esempi di citazione di uno pseudo Origene.

Il Symbolum Quicumque è il testo pseudo atanasiano che Eckhart cita sulla “coeternità” e “couguaglianza” delle tre Persone della Trinità. Da questo testo, come ricorda Eckhart ad esempio nel Commento al vangelo di Giovanni, veniva la chiara indicazione su come andavano interpretati correttamente e in modo ortodosso l’unum e il sumus del ricordato Ego et pater unum sumus: «Unum contro la Scilla di Ario, sumus contro Cariddi di Sabellio, in conformità del testo di Atanasio: «non confondiamo le Persone» come Sabellio «e non separiamo la sostanza», come fa Ario, che «cade in Scilla mentre cerca di evitare Cariddi»177. Più avanti (n. 622), a proposito del versetto di

Gv 14, 28, Pater maior me est, Eckhart cita sempre lo pseudo Atanasio: «eguale al

Padre secondo la divinità, minore del Padre secondo l’umanità» (aequalis patri

secundum divinitatem, minor patre secundum humanitatem)178.

Di Gregorio Nazianzeno è citato l’Apologetico, attraverso l’Orationum Gregorii

Nazianzeni novem interpretatio di Rufino. Insieme alle Naturales Quaestiones di

Seneca, Eckhart ricorre all’Apologetico sia nel Commento al vangelo di Giovanni (n. 298) che nei Sermoni latini (XIX, n. 192). Nella prima delle opere la citazione è più

generat me dominus’, «non: ‘generavit’, sicut quidam male legunt» – verba sunt Origenis – Prov. 8. Unde nostra translatio habet ‘parturiebar’, Sap. 8. Ratio est, quia in deo et per consequens in divinis, ut divina sunt, non est praeteritum quippiam nec futurum nec in re nec in apprehensione». Di Origene è citata In

Ier. hom. 6 (nell’interpretazione di Girolamo), PL 25, 637. Il testo è presente anche nelle Sentenze (I d. 9

c. 4 n. 94) di Pietro Lombardo. Il ‘generavit’ compare in autori come Tertulliano, Girolamo, Arnobio junior. Cfr. Pietro Sabatier, Bibliorum sacrorum latinae versiones antiquate i. h. l. (Parisiis 1751, II 310).

177 In Ioh. n. 511, LW, 442, 8-10 (tr. it. p. 319): «Unum contra Scyllam Arii, sumus contra Charybdim

Sabellii, secundum illud Athanasii: «neque confundentes personas» ut Sabellius «neque substantiam separantes», ut ait Arius, qui «incidit in Scyllam cupiens vitare Charybdim». Di Atanasio è citato il

Symbolum ‘Quicumque’ (cfr. H. Denziger e A. Schönmetzer, Enchiridion symbolorum n. 75). La

citazione delle dottrine di Ario e Sabellio è in Agostino, In Ioh. tr. 36 n. 9, PL 35, 1668, ed è ripresa da Pietro Lombardo, Sent. I d. 31 c. 4 n. 278.

178 In Ioh. n. 622, LW, 542, 12-13 (tr. it. p. 379). E’ citato il Symbolum ‘Quicumque’ Pseudo-

completa. Essa riguarda la facilità con cui si acquisisce un vizio e la malizia, e per converso la difficoltà dell’essere buoni e virtuosi:

«Seneca nelle Naturales Quaestiones dice così: «la virtù si apprende a fatica, i vizi si imparano anche senza maestro». Gregorio Nazianzeno nell’Apologetico dice: «la malizia progredisce facilmente e senza nessun aiuto, e niente è tanto facile quanto diventare malvagio, anche se nessuno lo insegna, nessuno costringe. Raro ed estremamente difficile diventare buono, anche se diversi stimolano, molti invitano, tutti esortano. E’ come la scalata di una rupe scoscesa e ripida». E più avanti: «ci consuma più velocemente una piccola scintilla di malizia, di quanto ci possa accendere o anche riscaldare il fuoco della virtù»179.

4.1.2 Giovanni Crisostomo.

Più frequenti sono le citazioni del Crisostomo, per lo più attraverso Tommaso. Nel Commento al vangelo di Giovanni, a proposito dell’ascolto della parola di Dio, Eckhart facendo un primo ricorso alla “ragione naturale” e al “mondo sensibile”, secondo quello che è il metodo da seguire e che parte appunto dalla necessità di dimostrare ogni volta quanto il testo sacro sia in accordo con la ragione, spiega come si forma la parola. E’ impossibile, spiega Eckhart, che qualcuno parli se prima non si è formata in lui la specie e l’immagine, «prole e figlio suo, espressione di tutto lui stesso in quanto loquente». «Ma è anche impossibile – aggiunge – udire qualcuno che parla e

179 In Ioh. n. 298, LW, 250, 1-8 (tr. it. pp. 206-207): «Seneca De quaestionibus naturalibus sic ait: virtus

cum labore discitur, «vitia etiam sine magistro discuntur». Gregorius Nazianzenus in Apologetico sic dicit: «facile et sine» «ullis adminiculis malitia proficit, et nihil tam facile quam malum fieri, etiamsi nemo doceat, nemo compellat. Rarum et per difficile fieri bonum et quasi conscendendus sit arduae cuiusdam et praeruptae rupis ascensus, licet plures provocent, multi invitent, etiamsi omnes hortentur». Et infra : «velocius malitiae parva scintilla consumimur quam virtutis ignibus vel accendi vel etiam concalescere possimus». Riguardo l’Apologetico di Gregorio, si tratta dei nn. 11 e 12, ed è in: Tyranni Rufini, Orationum Gregorii Nazianzeni novem interpretatio, CSEL XXXVI 15,6-12, e 15,26-16,2.

comprenderlo, se prima in chi ascolta non si è formata la specie e l’immagine, prole stessa corrispondente a tutto quel che è in chi parla». Perciò, qui ex deo est, verba dei

audit, «il parlare da parte di Dio è generare, ascoltarlo è essere generato». Ora, «Dio

parla una sola volta insieme e perfettamente tutto», ma le creature hanno una diversa capacità di ascolto per via e in misura del loro essere legate al molteplice. «Alcuni lo odono in un modo e altri in un altro, come vita e intelletto o come giustizia». Anche gli angeli, secondo quanto dice il Crisostomo, citato dalle Sentenze di Tommaso, lodano Dio, «alcuni in un modo, altri in un altro, secondo le loro diverse caratteristiche e la virtù di chi loda». «Infatti – conclude – la prole per cui il loquente parla e l’ascoltatore ode si genera nel rapporto e nel rivolgersi dell’ascoltatore al loquente, in conformità del passo: «ho visto Dio faccia a faccia» (Gn 32, 30), come in precedenza si è mostrato a proposito del visibile e della vista. Nello stesso modo vanno le cose anche nel caso presente, dell’udibile e dell’udito, di chi parla e di chi ascolta»180.

Le riflessioni sul parlare di Dio e l’ascolto da parte della creatura toccano una profondità straordinaria, che diviene il punto di incontro tra una tradizione di pensiero,

180 In Ioh. n. 486, LW, 417-419, 11-12 1-13 1-8 (tr. it. pp. 305-306): «Qui ex deo est, verba dei audit;

propterea vos non auditis, quia ex deo non estis. Verba ista tripliciter sunt tractanda: primo enim

exponenda sunt ex praemissis secundum consonantiam rationis naturalis et exempli in rebus sensibilibus, secundo assignetur condiciones audientis verbum dei, tertio ponentur circumstantiae loquentis dei. Quantum ad primum sciendum quod, sicut supra dictum est, impossibile est aliquem loqui nisi prius formata in ipso specie et immagine quae proles est et filiius est expressivus sui ipsius totius, in quantum loquens est. Adhuc autem impossibile audire aliquem loquentem et intelligere, nisi formata prius in ipso audiente specie et immagine, prole ipsa ad tandem per omnia quae est in eloquente, secundum illud Matth. 11: ‘omnia mihi tradita sunt a patre meo, et nemo novit filium nisi pater, neque patrem quis novit nisi filius’. Et hoc est manifeste quod hic dicitur: qui ex deo est, natus scilicet, verba dei audit etc.; dicit enim dei generare est, audire ipsum generari est. Omnibus omnia loquitur deus, sed non omnes omnia audiunt, secundum illud Psalmi: ‘semel locutus est deus, duo haec audivi’, id est multa. Duo enim primus numerus est et multitudo est. Et hoc est quod ait: ‘duo haec’ quod proprie creatorum est, scilicet haec et haec, numerus et multitudo. Loquitur ergo deus semel perfecte simul et omnia, sed non omnes nec omnia audiunt omnia, sed aliqua ipsum audiunt aliud et aliter, ut vita et intellectus vel ut iustitia. Unde Crysostomus dicit quod deum laudant etiam angeli, alii ut sic, alii vero ut aliter secundum diversitatem attributorum et virtutem laudantium ipsum. Proles enim, qua loquens loquitur et audiens audit, generatur in respectu et conversione qua audiens respondet loquenti, secundum illud: ‘vidi dominum facie ad faciem’, sicut supra ostensum est de visibili et visu. Et sic in proposito eodem modo se habet de audibili et auditu, loquente et audiente. Hoc de primo». Il Crisostomo è citato attrverso Tommaso, Sent. I d. 2 q. 1 a. 3, Sermo VIII n. 90 p. 86,1 e p. 477 i. h. l.

come quella ebraica e biblica, incentrata sull’ascolto e dove la verità è innanzitutto “comunicata”, “detta”, e la filosofia greca, in cui la verità è un “vedere”, uno “svelare vedendo” ciò che è nascosto, un mostrare. Dio parla e tutto è fatto. Nel parlare genera il Figlio, il Verbo, attraverso cui tutto esiste. Nel parlare all’uomo genera il Figlio nell’uomo e questi, nell’ascolto, lo genera di rimando, divenendo egli stesso figlio, parola, in un processo di deificazione. Ma il Verbo è anche “luce degli uomini”. E sempre il Crisostomo (cfr. In Ioh. n. 65), nel suo In Iohannem, spiega che il Verbo è “luce” «perché Giovanni ha scritto e parlato agli uomini del Verbo che «si è fatto carne», cioè uomo (Gv 1, 14): perciò disse «luce degli uommini». Il Verbo che si fa carne, divenendo luce per gli uomini, “manifesta” e “annuncia” Dio181.

Altra opera citata è l’Opus imperfectum in Mattheum. Bisogna amare Dio e di Lui essere paghi. «Stoltezza è amare i santi e onorarli, e non amare la santità, per la quale i santi sono amati, come dice il Crisostomo, commentando Mt 23: «Il primo grado della pietà è amare la santità, poi i santi»; come primo grado è essere zelanti del bene, poi di questo o quel bene, dal momento che il questo e il quello è amato solo perché è buono»182. Dal Crisostomo, dal Sermo ad fratres in eremo dello pseudo Agostino e dal

Sermo 105 di Agostino, Eckhart traeva brani che parlano della “vanità del mondo”. Non

si diletta dei beni terreni, chi gode di quelli celesti:

181 Cfr. In Ioh. n. 65, LW, 53-54, 14-15 1-2 (tr. it. p. 79): «Chrysostomus vero dicit quod dictum est lux

hominum, quia Iohannes scripsit et loquebatur hominibus, et de verbo quod ‘caro’, id est homo, ‘factum

est’; ideo dixit lux hominum». Per Crisostomo, cfr. In Ioh. hom. 5, PG 59, 58. Lo stesso locus è trattato da Tommaso, cfr. In Ioh. c. 1 lect. 3, 696a.

182 In Ioh. n. 231, LW, 194, 4-8 (tr. it. pp. 170-171): «Dementia est amare sanctos et honorare et non

amare sanctitatem, propter quam amantur sancti, ut ait Chrysostomus super Matth. 23: «primus gradus pietatis est sanctitatem diligere, deinde sanctos», sicut primus gradus est aemulari bonum, secundus hoc bonum aut hoc, cum non ametur hoc aut hoc, nisi quia bonum». Per Crisostomo, cfr. Opus imperf. in

«Perciò Agostino, nel libro o sermone sulla misera vita del corpo e dell’anima, dice «o mondo vano, cosa ci prometti tanto, quando poi ci inganni?». E poco prima, nello stesso testo: «o vita, che tanti hai ingannato, tanti sedotto, tanti accecato! Se fuggi, sei nulla; chi ti vede, vede un’ombra; chi ti esalta, esalta fumo. Dolce per gli stolti, amara per i saggi. Chi ti ama non ti conosce. Guai a chi ti crede, beato chi ti disprezza». E in un altro sermone dice: «o mondo immondo, perché strepiti, perché cerchi di distoglierci e mostri falsamente il dolce, mentre sei amaro?». Il Crisostomo dice così, commentando Mt 22: «o mondo miserrimo, e miseri quelli che lo seguono. Sempre le cose del mondo hanno escluso gli uomini dalla vita»183.

Sempre Agostino, De civitate, e Giovanni Crisostomo, Opus imperf. in Matth., sono citati a proposito della “giusta ira” (In Ioh. n. 524; ma anche Sermoni latini, XVI, 163-164). Su tale argomento, mediante questi due autori, Eckhart prende le distanze dall’ideale dell’apatia del saggio stoico, per porre in risalto l’deale del saggio secondo i peripatetici, per i quali il saggio ha passioni, ma moderate e soggette alla ragione. Tale ideale è più vicino alla dottrina cristiana:

183 In Ioh. n. 308, LW, 256-257, 13-15 1-7 (tr. it. p. 211): «Unde Augustinus in libro sive sermone De

misera vita corporis et animae ait: «o saeculum vanum, quid nobis tanta promittis, dum decipis?». Et prius ibidem: «o vita quae tantos recepisti, tantos seduxisti, tantos excaecasti, quae dum fugis, nihil es, cum videris, umbra es, cum exaltaris, fumus es. Dulcis es stultis, amara sapientibus. Qui te amant, non te cognoscunt». «Vae qui tibi credunt, beati qui te contemnunt». Et in alio sermone dicit: «o munde immunde, quid perstrepis, quid avertere nos conaris», «amarus dulcia mentirsi?». Chrysostomus super Matth. 22 sic ait: «o miserrimus mundus, et miseri qui eum sequuntur. Semper homines mundialia excluserunt a vita». Per quello che in realtà è uno pseudo Agostino, cfr. Sermo ad fratres in eremo 49, PL 40, 1332. Per Agostino, cfr. Sermo 105 c. 6 n. 8, PL 38, 622. Per Crisostomo, cfr. Opus imperf. in Matth.

«A proposito del passo «chi si adira col fratello» (Mt 5, 22) il Crisostomo dice così: «se non vi fosse l’ira, non avrebbe utilità la dottrina, non avrebbero luogo i giudizi e non sarebbero repressi i crimini. Infatti la giusta ira è madre di disciplina». Così dice il Crisostomo. E nello stesso testo: l’ira che ha un motivo non è ira, ma giudizio. Infatti se uno si adira per una ragione, la sua ira non deriva dalla passione, ma dalla ragione. Questo perciò si chiama giudicare, non