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Eckhart e Enrico di Virneburg Le fasi del processo.

Il 27 marzo 1329 Giovanni XXII comminava la Bolla di condanna delle opere di Meister Eckhart, dal titolo In agro dominico. Eckhart era morto da quasi due anni. Nella sua ricostruzione delle fasi del processo e della definitiva condanna del maestro tedesco, Kurt Ruh ci ricorda che Giovanni XXII aveva, all’indomani della morte di Eckhart, scritto all’arcivescovo di Colonia, Enrico di Virneburg, informandolo dell’avvenuto decesso. Per tutta risposta, Enrico, che aveva intentato il processo contro Eckhart, scriveva al papa, paventando che la morte del domenicano non dovesse costituire un pretesto a che la vicenda fosse chiusa senza alcun pronunciamento della Santa Sede e sollecitando apertamente una condanna del maestro di Colonia. La risposta del papa non tardò a giungere. La Bolla appare, tuttavia, frutto della necessità di trovare un compromesso tra esigenze diverse.

Le circostanze del decesso di Eckhart appaiono oscure. Certo si può parlare di cause naturali, tenuto conto che il maestro domenicano aveva, alla data della morte, sessantasette anni e doveva essere molto provato da un processo che non accennava a concludersi23. Egli stesso, nel suo appello alla Sede pontificia del 24 gennaio 1327, si 23 A. Rosenberg, nell’aberrante Der Mythus des 20 Jahrunderts (München 1933, p. 255), avanza l’ipotesi

che Eckhart sia stato avvelenato. Interessante il giudizio che di questo libro si aveva da parte di Hitler stesso e del suo entourage, secondo la testimonianza di Albert Speer, “l’architetto” del regime nazista, contenuta nelle sue Erinnerungen (Verlag Ullstein GmbH, Frankfurt/M-Berlin Propyläen Verlag, 1969), in italiano Memorie del Terzo Reich, tr. it. Enrichetta e Quirino Maffi, Arnoldo Mondatori, Milano 1995 (I ed.), p. 115: «Anche dopo il 1942 Hitler non cessava di sostenere, in quelle lunghe chiacchierate all’Obersaltzberg, che la chiesa era assolutamente indispensabile per la vita dello stato. Sarebbe stato felice, diceva, se un giorno fosse emerso un grande capo della chiesa, capace di guidare una delle due chiese, o meglio ancora le due chiese riunite. E continuava a rammaricarsi di non aver trovato nel Reichsbischof Müller l’uomo che ci voleva per realizzare i suoi piani lungimiranti. Bollava duramente chi combatteva la chiesa: questo era, per lui, un delitto perpetrato contro l’avvenire della nazione, perché nessuna «ideologia di partito» avrebbe potuto sostituire la chiesa. La chiesa avrebbe indubbiamente saputo, nel tempo, adattarsi alle finalità politiche del nazionalsocialismo, Dio sa se non si era adattata mille volte nel corso della storia! Una volta religione di partito non sarebbe stata altro che una ricaduta nel misticismo del Medioevo. Lo dimostravano ampiamente il mito delle SS e l’illegibile libro di Rosenberg, Il mito del XX secolo». Di fatto, Rosenberg pensava di aver trovato in Eckhart quel mistico padre della grande nazione tedesca, con una “chiesa di partito”, così come era concepita dal nazismo. Non

lamenta del prolungarsi del processo contro di lui a Colonia e delle numerose convocazioni, che creavano scandalo nei religiosi e nei laici, visti il suo stato, il suo ruolo e la sua fama. Non erano passati ancora cinquant’anni dall’eco di un’altra morte eccellente e misteriosa, quella del magister artium Sigieri di Brabante, anch’egli condannato in quell’unico calderone del citato documento del 1277 del vescovo di Parigi, Stefano Tempier, che colpiva in fondo tutti gli “aristotelici”, Tommaso d’Aquino compreso, e apertamente gli averroisti per i loro «manifesti ed esecrabili errori, anzi follie». Sigieri si era appellato alla Santa Sede e aveva trovato la morte, prima di una sentenza definitiva, che non ci sarà, a Orvieto presso la corte pontificia, per mano del chierico, che gli faceva da segretario, e che, colto da un’improvvisa crisi di follia, lo aveva pugnalato. La stessa fuga da Avignone di Michele da Cesena e di Guglielmo d’Ockham, avvenuta nel medesimo anno della morte di Eckhart, lascia spazio a uno scenario inquietante all’interno della corte pontificia avignonese: più che possibili pericoli per le verità di fede, in un clima torbido, venivano con tutta probabilità vagliati, dalle commissioni incaricate dal papa, soprattutto i possibili pericoli di carattere eminentemente “politico” che dottrine o “modi” di vita poco allineati potevano rappresentare per gli interessi della chiesa quale potenza di primo piano sullo scacchiere politico internazionale e per la sua stessa unità.

Il processo ad Eckhart si aprì a Colonia nel 1326 per volontà dell’arcivescovo della città, Enrico di Virneburg, e conobbe due fasi diverse: quella coloniense e quella avignonese. Enrico raccoglieva le accuse, che partivano da alcuni domenicani di Colonia, in particolare da Hermann di Summo (del duomo) e Guglielmo di Nidecken (in Alsazia), che testimonieranno contro il maestro loro confratello durante il processo.

fu un caso che l’edizione tedesca che raccoglieva, per la prima volta, tutte le opere di Eckhart pervenuteci, curata da Quint e Koch, fosse stata finanziata inizialmente proprio dal nazismo.

Vennero nominati, quali commissari, maestro Rainer Frisone, teologo, e Pietro di Estate, guardiano dei frati minori. Enrico, sulla base delle accuse di eresia mosse contro Eckhart, avviò un procedimento per promoventem, cui in verità era tenuto se non fosse stato che un appartenente all’Ordine domenicano, per di più magister sacrae theologiae, quale Eckhart era, non poteva essere sottoposto a processo da un tribunale dell’inquisizione vescovile, ma godeva del privilegio di poter essere giudicato solo dal papa. Ad Eckhart, per di più, non si concedeva, com’era prassi in un procedimento per

promoventem, la possibilità di rispondere alle accuse mossegli dal denunziante, ma si

avviava immediatamente nei suoi confronti un procedimento per eresia. Ciò comportava, tra l’altro, l’autorizzazione a lasciar cadere le eccezioni contro il denunziante e a limitare la stessa possibilità di difesa dell’accusato, negandogli ad esempio un assistente legale. Con tutta probabilità un simile procedimento dovette essere adottato in considerazione che, sui due accusatori di Eckhart, potevano facilmente essere sollevate delle eccezioni. Di fatto, Gherardo di Podhans, Procuratore generale papale dell’Ordine dei domenicani, in un atto di accusa, indirizzato al papa stesso, parlerà dei due come di notori intriganti, delatori, falsi testimoni, calunniatori. Hermann di Summo è un monaco scomunicato, criminator et infamator, falso testimone e giudice iniquo, autore di libelli infamanti, brigosus et pacis dissipator, transgressor

plurium praeceptorum. Gherardo arriva a chiedere al papa che costui venga

imprigionato. Cosa che di fatto avverrà ad Avignone, dove Hermann si era recato a testimoniare contro Eckhart nella speranza con ciò di entrare nelle grazie del papa. Guglielmo di Nidecken, che ambiva a presentarsi come campione della lotta contro l’eresia, era segretamente vicino all’imperatore. Una vicinanza che presto Guglielmo avrebbe reso nota, manifestando la sua intenzione di schierarsi con Ludovico il Bavaro,

combattendo nella sua armata24. Ma perché l’arcivescovo di Colonia accettava di aprire

un processo per eresia contro un domenicano della statura di Eckhart, prestando ascolto a un monaco scomunicato e ad un altro schierato con l’imperatore, nemico principale di Giovanni XXII? Chi era in realtà Enrico di Virneburg?

Storici come Büttner25 e Schwamborn26ci presentano l’arcivescovo di Colonia

come uno strenuo difensore dell’ortodossia. «Pastore di rigidi costumi, già noto per aver combattuto energicamente varie forme di immoralità, nel sinodo del 1307 affrontò il problema dell’eresia, pullulante nella Renania, ed iniziò nel 1322 dei processi contro Beghini e Begardi che non è difficile mettere in relazione con gli eventi del 1326, anno in cui – oltre all’inchiesta nei confronti di Eckhart e del confratello Nicola di Strasburgo –, fu arrestato e bruciato per eresia un prete di Colonia – certo fratello Walter –. Gli storici, oggi, non avvalorano l’accusa di crudeltà spesso rivolta, nel passato, contro l’arcivescovo di Colonia; egli non fu più duro di altri nella repressione delle eresie…»27.

Al di là del problema della validità delle considerazioni di Vannini, c’è da domandarsi quale fosse la posizione “politica” dell’arcivescovo di una delle città tedesche più importanti: era dalla parte del papa o dell’imperatore? Gli storici lo presentano come un amico di Giovanni XXII e nulla, in realtà, impedisce di considerarlo tale. La stessa condanna di Eckhart, pretesa e ottenuta alla fine da Enrico, può esser vista come un elemento a favore di una simile tesi. Vero è che non doveva essere facile per un’autorità, quale era l’arcivescovo di Colonia, mantenere una

24 K. Ruh, Meister Eckhart…, cit., pp. 256-257. E anche I. Degenhardt, Studien zum Wandel des

Eckhartsbildes, (Studien zur Problemgeschichte der antiken und mittelalterlichen Philosophie 3), Brill,

Leiden 1967.

25 Cfr., ad esempio, di questo autore l’antologia Meister Eckhart. Schriften und Predigten, übertr. u.

eingel. von H. Büttner, Jena 1903.

26 Cfr. G. Schwamborn, Heinrich II. Erzbischof von Köln, Neuss 1904.

27 M. Vannini, Introduzione a M. Eckhart, Opere tedesche, tr. it. M. Vannini, La Nuova Italia, Firenze

posizione il più possibile di mediazione tra i due partiti, quello del papa e quello dell’imperatore, e nel contempo tra le rivendicazioni della chiesa tedesca, che probabilmente dovevano essere anche le sue, e l’esigenza di inquadrare tali rivendicazioni all’interno dei più generali interessi della Chiesa universale, cattolica. L’impero tedesco con Ludovico il Bavaro, irriducibile avversario del papa, si presentava profondamente lacerato tra chi sosteneva il sovrano e chi si schierava con il pontefice, secondo precisi interessi e strategie: una lacerazione che attraversava le istituzioni e il tessuto sociale fin nelle pieghe più profonde. Lecita, dunque, la domanda circa la posizione stessa di Eckhart. Il fatto che uno dei due accusatori, Guglielmo di Nidecken, fosse dalla parte dell’imperatore, che Eckhart fino alla fine si professasse, in quanto domenicano, pronto a revocare tutto ciò che potesse nelle sue opere risultare contrario alla retta dottrina e fedele alla Chiesa, appellandosi al giudizio del pontefice, farebbe pensare che il maestro domenicano fosse schierato col papato28 o, meglio ancora, che

non sostenesse sicuramente le rivendicazioni dell’imperatore. A meno che non si voglia mettere in dubbio l’effettiva amicizia di Enrico di Virneburg nei confronti di Giovanni XXII29, bisogna allora domandarsi cosa spinse l’arcivescovo ad aprire il processo per

eresia contro Eckhart.

Considerata l’esiguità delle informazioni che sono pervenute a noi sulla vita di Eckhart in generale, possiamo provare, con gli elementi che possediamo, a tracciare una linea interpretativa della vicenda processuale eckhartiana, la quale ha l’unica pretesa di costituire una pista possibile per fare luce su uno dei casi più oscuri del medioevo.

28 Ovviamente la figura eckhartiana è del tutto estranea alle faziosità.

29 Se così fosse, la Bolla di condanna di Eckhart potrebbe apparire allora come un tentativo di Giovanni

Quando venne aperto il processo, Eckhart, oltre a dedicarsi alla predicazione e alla cura delle anime, dirigeva lo Studium generale di Colonia ed era in esso lector

primarius (1323-1325). Un incarico di notevole responsabilità, considerato che tale Studium ambiva, come è stato sottolineato, ad essere alternativo a Parigi stessa.

Immediatamente prima, rientrando dal secondo magistero quale teologo a Parigi, Eckhart aveva svolto l’incarico di vicario generale del Maestro dell’Ordine. Al vicario generale, come ricorda Ruh, citando i Monumenta Ordinis Praedicatorum Historica, era conferita l’auctoritas di «esaminare, punire, esentare da punizioni, rafforzare, riformare, e tutto ciò di convento in convento, di provincia in provincia, nel capo come nelle membra»30. Loris Sturlese, riaccreditando in buona parte la linea di Winfried Trusen,

tende ad attribuire proprio all’attività di riformatore, svolta da Eckhart, e alla presenza fra i domenicani di Strasburgo di una ferrea opposizione al maestro da parte di ‘renitenti alla disciplina’, l’elemento scatenante del processo ad Eckhart, il quale sarebbe stato, dunque, la vittima eccellente «nel più ampio contesto dell’infuocato dibattito fra ‘tradizionalisti’ e ‘riformatori’, che percorre la Germania domenicana nei primi decenni del XIV secolo»31. Sturlese, tuttavia, non nasconde la difficoltà di “studiosi di valore”,

quali Théry, Laurent, Koch, Beckmann, Trusen, di fornire interpretazioni definitive, «sia per quanto riguarda i singoli documenti, sia per quanto attiene al senso generale degli eventi storici e culturali in questione. Anzi – prosegue lo studioso –, i progressi dell’edizione critica avviata nel quadro degli Opera omnia di Eckhart hanno portato alla luce nuovi particolari che inducono a mettere in discussione molti punti specifici dell’interpretazione comune; e le opinioni dei critici divergono in modo talora radicale

30 K. Ruh, Meister Eckhart…, cit., p. 40.

31 Cfr. L. Sturlese, Eckhart, l’Inquisizione di Colonia e la memoria difensiva conservata nel Codice Soest

33, in Giornale Critico della Filosofia Italiana, VI serie, volume XXI, anno LXXX (LXXXII), Le

per quanto riguarda le linee generali della lettura storica dei fatti, e cioè su questioni come il senso del progetto riformatore di Eckhart, la sua ortodossia o meno, le motivazioni della sua persecuzione da parte dell’arcivescovo di Colonia, gli scopi ed il significato della condanna papale ed altro ancora»32.

Agli occhi di Trusen, Eckhart appare animato da un preciso progetto filosofico e religioso, ispirato alle posizioni dottrinali sviluppate da Alberto il Grande e Dietrich di Freiberg, e gli accusatori di Colonia, anche se è difficile cogliere con esattezza le effettive dimensioni del consenso (e del dissenso) che il maestro riscosse all’interno e all’esterno dell’Ordine, paiono «la punta di diamante di una resistenza ideologicamente motivata alla proposta di riforma portata avanti instancabilmente da Eckhart sulla cattedra universitaria, nei capitoli provinciali, fra i conventi femminili e fra il pubblico dei laici, attraverso i più diversi strumenti argomentativi e linguistici, e con l’obiettivo di sfondare la barriera fra il letterato e l’illetterato»33.

Siamo, in effetti, convinti che l’azione riformatrice di Eckhart sia, in qualche modo, all’origine della vicenda processuale. E poiché nel maestro “vissuto” e “pensato”, come è stato detto, si fondono, la “prassi” riformatrice è anche “teoria” di una riforma e viceversa. Certo rimane la grossa questione del senso del progetto riformatore di Eckhart e di cosa in generale debba intendersi con le parole “riformatore” e “tradizionalista” per quanto riguarda l’epoca in cui il maestro visse. Un’analisi della personalità eckhartiana, così come essa emerge dalla sua opera, del modo in cui Eckhart si sentiva cristiano, domenicano, magister, teologo, potrà gettere a nostro avviso luce su tale senso34. Ma già fin d’ora crediamo che il modo di considerare l’azione riformatrice

32 Ivi, pp. 63-64. 33 Ivi, p. 66.

eckhartiana sia stato diverso nelle due fasi del processo35. A Colonia Eckhart venne

visto come un pericolo tale da giustificare un intervento, che si configurava indubbiamente come un abuso e un’indebita ingerenza nell’ordine domenicano, da parte dell’arcivescovo della città. Gli accusatori di Eckhart dovettero riuscire a dimostrare ad Enrico la pericolosità del maestro non solo all’interno dell’Ordine domenicano, ma sul piano religioso ed ecclesiastico in generale, e, aggiungiamo, su quello sociale e politico. Non era difficile, d’altra parte, trovare fra gli stessi scritti di Eckhart, proprio perché animati da una profonda “vis riformatrice”, elementi che potessero suonare come una messa in discussione degli “equilibri” che il mondo tedesco, lacerato, in quell’epoca, a stento riusciva a mantenere, soprattutto a livello istituzionale. Ad Avignone, dove Eckhart giungeva a sessantasette anni, turbato da un processo che poteva costituire, come di fatto accadde, il coronamento inglorioso di una vita consacrata alla Chiesa, alla quale Eckhart aveva l’intenzione di rimanere fermamente unito, il vecchio maestro domenicano non dovette apparire estremamente pericoloso, né le sue parole dovettero suonare cariche di una spinta rivoluzionaria. Fu anche per questo, siamo persuasi, che ad Avignone il processo ad Eckhart venne, come sottolinea Sturlese, “derubricato” e riportato da questione di ‘eresia’ a questione di ‘errore’, su cui il Papato esercitava una meno pericolosa iniziativa di “controllo” dell’ortodossia teologica.

L’accanimento di Enrico di Virneburg nei confronti di Eckhart può, a nostro avviso, trovare una valida spiegazione, ma non è l’unica, nell’atteggiamento del maestro domenicano rispetto alla gerarchia ecclesiastica. I rapporti tra Enrico ed Eckhart, inoltre, non dovevano essere buoni. Non è da pensare che Enrico, già prima del 1326, non

35 In fondo lo stesso atteggiamento di Eckhart dinanzi a chi lo esaminava fu diverso nelle due fasi: di fiera

opposizione ai commissari e agli accusatori nella prima fase, quella di Colonia, “conciliante” al cospetto del papa.

conoscesse uno dei più importanti ed insigni teologi di Colonia, ma anche uomo che aveva ricoperto cariche di primo piano all’interno dell’Ordine domenicano. L’immediato accoglimento delle accuse sollevate contro Eckhart, il fatto che l’arcivescovo preferisse prestare ascolto a due “noti delatori” e non convocasse in

camera caritatis l’illustre teologo o non si limitasse a richiamarlo anche formalmente,

ma avviasse un clamoroso processo per eresia, lascia pensare che Enrico fosse preso, oltre che dalla rabies di chi vuole passare per campione della lotta contro l’eresia, oltre che dal timore di un “Eckhart riformatore”, da un risentimento del tutto personale contro il domenicano. In verità, già in precedenza, durante il periodo in cui era vicario generale, Eckhart aveva rischiato di vedere elevata contro di lui un’accusa per volontà del vescovo di Strasburgo, che aveva comunque vietato la diffusione di una sua opera, il

Liber benedictus. Probabilmente vi fu un intervento delle gerarchie dell’Ordine, che

valse a lasciar cadere la cosa. Ma a Colonia, come vedremo presto, le cose andarono diversamente.

Quale fu, dunque, l’atteggiamento di Eckhart verso la gerarchia ecclesiastica? L’opera che dovette attirare maggiormente l’attenzione degli inquisitori fu il Commento

al vangelo di Giovanni. Secondo quanto testimonia un grande ammiratore del maestro

medievale, Nicolò Cusano, fu stilata un’intera lista, a noi non pervenuta, di proposizioni incriminate tratte proprio da quest’opera. Un commento al vangelo di Giovanni, che con il suo Prologo conosce vette speculative sulle quali si sono avventurati secoli di filosofi e teologi, era un banco di prova a cui nessun teologo del rango di Eckhart poteva sottrarsi. E ovviamente, doveva essere fra le prime opere a passare al vaglio degli esperti!

Il Commento eckhartiano, in particolare, attirava, a nostro avviso, l’attenzione per un tema ricorrente nel maestro, che qui è trattato con estrema chiarezza e con toni talvolta “crudi”. Si tratta di quella che per Eckhart deve essere la figura del “vero” pastore, del vescovo, del prelato. Le considerazioni eckhartiane partono dalla domanda che Gesù rivolge a Pietro, con lo scopo di porlo a guida del suo gregge, che è la Chiesa: «Simon Iohannis, diligis me plus his?». Si tratta del brano evangelico cruciale per la dottrina cristiano-cattolica del primato del papa di Roma, successore di Pietro, al quale Cristo, dopo avere per tre volte domandato «Simone di Giovanni, mi ami più di costoro?», e aver ricevuto da Pietro, altrettante volte, la risposta affermativa e incondizionata, «Sì, Signore, lo sai che io ti amo!», affida a Pietro il suo gregge, con la solennità di un imperativo reiterato ad ogni attestazione di amore dell’apostolo: «Pasci le mie pecore!».

Nell’analizzare il brano, Eckhart si diffonde, come in parte accade anche nel

Commento alla Genesi36, sulla figura del prelato, e del vescovo in particolare, sulle

condizioni necessarie affinché esso sia degno dell’alto ministero che svolge. Il “più di costoro” della insistente domanda del Cristo indica che il prelato, «cui è affidata la cura degli altri, non solo deve amare Dio come i sottoposti, ma più di essi», più di ogni altra cosa, più dello stesso “più”, perché in Dio non c’è il più o il meno. E poiché il superiore non sta nell’ordine né nel numero degli inferiori, e il principio e la fine sono sempre al di fuori di ciò per cui sono principio e fine, il prelato, scelto dal mondo e non più appartenente al mondo, come gli apostoli, non deve cercare «niente nel mondo, non