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Eirene, Opora e Theoria

Cielo e terra in teatro: la divisione dello spazio scenico

Capitolo 3 L’avventura celeste

II. Eirene, Opora e Theoria

a) Ipostasi in scena

È stato spesso notato che l’unica vera divinità con cui l’eroe comico ha occasione di confrontarsi nella Pace è Hermes; il ‘trasloco’ degli dèi ha infatti lasciato un Olimpo popolato da ipostasi di concetti astratti. Il percorso che ha portato Aristofanea compiere questa scelta nel 421 aveva avuto inizio, del resto, già anni prima. La prima delle commedie del corpus giunto fino a noi, gli Acarnesi, ci consente infatti di apprezzare l’origine del processo che vediamo pienamente realizzato nella Pace.

Ai versi 989ss. degli Acarnesi, infatti, il Coro si dilunga in una vivida descrizione di Διαλλαγή, la Riconciliazione: essa è ritratta con le sembianze di una bellissima donna, per la quale tutti sentono un’irresistibile attrazione. Come di consueto in Aristofane, infatti, l’aspirazione diventa tensione erotica: Diceopoli ‘ama’ la pace212 e il Coro desidera fare di Διαλλαγή,

«Κύπριδι τῇ καλῇ καὶ Χάρισι ταῖς φίλαις ξύντροφος»213, la sua sposa.

Nella Pace, Εἰρήνη non è personificata solo nel testo dell’opera, ma è addirittura concretamente presente sulla scena teatrale. Diventa cioè un personaggio della commedia, di cui gli altri parlano, ma che a sua volta partecipa ‘attivamente’ alla vicenda, prendendo la parola per una buona porzione dell’opera grazie alla mediazione del suo portavoce Hermes. Come Διαλλαγή, Pace è naturalmente una figura femminile, come il genere del termine greco εἰρήνη impone; e la caratterizzazione del personaggio si mantiene coerente a questo tratto, attribuendo alla dea non solo le sembianze, ma tutti gli atteggiamenti di una donna in carne e ossa: essa si accompagna a due ancelle e si mostra alle volte sdegnosa214, altre ‘civetta’215.

212Aristoph. Ach. v. 32 in cui Diceopoli si definisce «εἰρήνης ἐρῶν».

213Aristoph. Ach. v. 989.

214Si discuterà in seguito del discusso gesto di sdegno della dea permalosa che si rifiuta di

Lo stesso percorso che conduce dal metaforico al letterale216 riguarda il

contraltare di Pace, Polemos, anch’egli già personificato nelle parole del Coro dei carbonai di Acarne (vv. 980-987) che lo dipingevano come un ospite indesiderato, ubriaco e molesto, che sconvolge il simposio e brucia le viti217. Egli compare in tutta la sua mostruosità sulla scena della Pace, intento

a preparare un pestato con le città greche, con l’aiuto del suo degno servitore, Kydoimos218.

Il ‘prototipo’ diretto delle ancelle di Pace, Opora e Theoria, è invece rintracciabile in veri e propri personaggi, che avevano calcato la scena del teatro di Dioniso nei Cavalieri del 424. Si tratta delle Σπονδαί, κοφά πρόσωπα interpretati da alcune avvenenti fanciulle donate a Demo ‘rinato’ dal Salsicciaio e ancora una volta oggetto del desiderio di tutti gli astanti.

215 Ricordo a questo proposito l’immagine dei vv. 979-992 della Pace, analizzata da

Taillardat 1962, p. 371,: Χορός: νὴ Δία, καὶ μὴ ποίει γ᾽ ἅπερ αἱ μοιχευόμεναι δρῶσι γυναῖκες. καὶ γὰρ ἐκεῖναι παρακλίνασαι τῆς αὐλείας παρακύπτουσιν, κἄν τις προσέχῃ τὸν νοῦν αὐταῖς ἀναχωροῦσιν, κᾆτ᾽ ἢν ἀπίῃ παρακύπτουσιν. τούτων σὺ ποίει μηδὲν ἔθ᾽ ἡμᾶς. Τρυγαῖος: μὰ Δί᾽ ἀλλ᾽ ἀπόφηνον ὅλην σαυτὴν γενναιοπρεπῶς τοῖσιν ἐρασταῖς ἡμῖν, οἵ σου τρυχόμεθ᾽ ἤδη τρία καὶ δέκ᾽ ἔτη, λῦσον δὲ μάχας καὶ κορκορυγάς, ἵνα Λυσιμάχην σε καλῶμεν.

216 Cfr. Newiger 1980, p. 226. La scelta di portare in scena personificazioni di concetti

astratti è del resto solo una delle manifestazione di questo fondamentale meccanismo comico: la metafora della guerra che tormenta i popoli, ad esempio, viene immediatamente tradotta rappresentando sulla scena il mostro Polemos che concretamente pesta i Greci in un mortaio. La stessa intenzione del protagonista di andare ‘a riprendersi la pace’ si realizza in modo decisamente letterale.

217 Personificazioni di Polemos erano già presenti nella poesia precedente, come fa notare

Moulton 1981, p. 86: ne troviamo un esempio in Pindaro (fr. 78 Snell); già nell’Iliade, d’altra parte, Omero aveva rappresentato Kydoimos come compagno d’armi di Eniò ed Ares (Hom. Il. V 593), e altrove, sempre sul campo di battaglia, lo aveva associato a Ἔρις e Κήρ (Hom. Il. XVIII 535).

218 Il campo semantico che ruota intorno al vino, al banchetto e al simposio, infatti è

strettamente legata in commedia al tema dell’opposizione fra pace e guerra. Come nel caso del desiderio, che, tradotto dalla commedia nei termini a lei propri, diventa desiderio erotico, si fa in questi contesi riferimento alla sfera più istintuale della natura umana, la cui piena realizzazione deriva dalla soddisfazione dei bisogni primari. La perfetta felicità, come gli Acarnesi e la Pace dimostrano, è in commedia l’abbondanza di vino, cibo a sazietà, e, ovviamente, un pieno appagamento sessuale.

Il passo in cui le Σπονδαί sono introdotte al cospetto di Demo, contiene, oltre alla prefigurazione delle dee del raccolto e della festa della Pace, almeno due ulteriori elementi interessanti: alla domanda di Demo su dove il Salsicciaio si sia procurato un tale dono, egli risponde che le Σπονδαί erano state tenute nascoste ‘dentro’ da Paflagone, di modo che Demo non le potesse trovare219.

Figure femminili portatrici di pace e bellezza sono dunque già nei Cavalieri prigioniere di un mostro che le tiene segregate in un luogo chiuso finchè esse non vengono liberate; il loro ritorno nel mondo esterno, secondo un tradizionale modulo di passaggio dall’oscurità alla luce, coincide con l’instaurazione di un nuovo ordine basato sui valori della città pacifica, prospera e sempre in festa. Il forte fra la campagna e la vita camprestre, scandita dai raccolti, e questo tipo di atmosfera, insistentemente ribadito fin dagli Acarnesi, viene anche qui ricordato in modo icastico, ma assolutamente efficace: il Salsicciaio affida infatti le Σπονδαί a Demo perchè egli possa finalmente ‘portarle in campagna’ (vv. 1394-1395).

Il tema della ierogamia, già anticipato, come si è detto, negli Acarnesi, è anch’esso recuperato nella Pace; non c’è contraddizione nel fatto che il ruolo di sposa sia ‘delegato’ in questo caso ad Opora. E’ necessario, infatti, tenere conto di un ulteriore processo di rielaborazione che ha luogo fra il 425 e il 421: l’entità ‘Pace’ viene come ‘scomposta’ in tre entità, una delle quali ieratica e maestosa, le altre due più umane, a costituire una sorta di endiadi, come accade del resto anche per Polemos e Kydoimos, legati da un rapporto 219Aristoph. Eq. 1389-1395: Ἀλλαντοπώλης: φήσεις γ᾽, ἐπειδὰν τὰς τριακοντούτιδας σπονδὰς παραδῶ σοι. δεῦρ᾽ ἴθ᾽ αἱ Σπονδαὶ ταχύ. Δῆμος: ὦ Ζεῦ πολυτίμηθ᾽ ὡς καλαί: πρὸς τῶν θεῶν, ἔξεστιν αὐτῶν κατατριακοντουτίσαι; πῶς ἔλαβες αὐτὰς ἐτέον; Ἀλλαντοπώλης: οὐ γὰρ ὁ Παφλαγὼν ἀπέκρυπτε ταύτας ἔνδον, ἵνα σὺ μὴ λάβῃς; νῦν οὖν ἐγώ σοι παραδίδωμ᾽ ἐς τοὺς ἀγροὺς αὐτὰς ἰέναι λαβόντα.

Paflagone, sommo nemico della pace nei Cavalieri, è notoriamente una maschera dietro cui si nasconde il demagogo Cleone, il cui spauracchio continua a minacciare i soccorritori della dea Pace nell’omonima commedia (Cfr. supra Ia, pp. 54ss.)

di subalternità ancora più evidente di quello che intercorre fra Εἰρήνη e le sue ancelle. A differenza di quanto accadeva per la Riconciliazione degli

Acarnesi, dunque, l’aspetto propriamente sensuale di Pace è separato e

riversato sulle due ipostasi minori, in modo del tutto coerente con le scelte relative alla messa in scena, di cui si discuterà nel paragrafo successivo220.

Il gusto per la personificazione del concetto astratto è servito dunque ad Aristofane come punto di partenza per compiere il passo successivo e portare in scena la nozione di pace, sotto forma prima di Σπονδαί, poi di Εἰρήνη, Opora e Theoria. Tale gusto non è del resto esclusivamente aristofaneo, anzi, ha una lunga e solida tradizione nell’epica, nella lirica e nello stesso teatro tragico221. Infatti, un esperimento simile a quello del

commediografo ateniese era stato probabilmente condotto in tragedia da Eschilo nelle sue Etnee, rappresentate fra 472 e 468 a.C. a Siracusa per Ierone222. Quest’opera, di cui ci restano pochi frammenti, consisteva per

quanto possiamo ricostruire, di vari quadri223, nei quali un ruolo

fondamentale era svolto dalla dea Dike, un’altra ipostasi portata in teatro, in relazione alla recente fondazione della città di Etna, avvenuta nel 476/5 a.C.

220Cfr. infra IIb e in particolare n. 224.

221 Basti pensare ai due personaggi che compaiono nel Prologo del Prometeo Incatenato,

impegnati ad inchiodare il titano alla rupe, Kratos e Bia.

222 Fraenkel 1954, pp. 61ss. ha ipotizzato che fra 472 e 468 a. C. vadano collocate la

rappresentazione delle Etnee a Siracusa e inoltre un nuovo allestimento dei Persiani, su richiesta di Ierone. Delle Etnee, l’autore avrebbe inoltre potuto portare in scena in patria una rielaborazione, smorzando e reindirizzando gli spunti più esplicitamente propagandistici dell’opera. A questa operazione sarebbe dovuta la testimonianza, certamente proveniente da un ambiente di grammatici, relativa a un’opera intitolata Αἰτναῖαι γνήσιοι e di una seconda a cui si fa riferimento come Αἰτναῖαι νόθοι. Secondo un’altra interpretazione, sostenuta da Cipolla 2010 pp. 141ss., la denominazioni di ‘spuria’ potrebbe essere spiegata ipotizzando che il rifacimento delle Etnee, destinato ad un pubblico ateniese o forse agli abitanti di stirpe ionica, insediatisi nuovamente a Catania dopo la caduta della tirannide, che avrebbero potuto commissionarlo ad Eschilo, al suo ritorno in Sicilia dopo il 458, fosse non una tragedia, ma un dramma satiresco che rivisitava la stessa vicenda mitica che si trovava alla base della tragedia in toni più leggeri. Da questa rivisitazione, e non alla tragedia verrebbe il frammento P. Oxy. 2256, fr. 9(a) noto come ‘Frammento di Dike’, che fu infatti classificato come satiresco da Lobel, Mette, Görschen. Lo stesso Cipolla 2010 p. 148, n. 74 ha anche sollevato perplessità sul fatto che Aristofane si sia ispirato alle Etnee per la sua Pace, dal momento che non vi è nessuna prova certa che la dea comparisse effettivamente sulla scena.

Come è possibile evincere dai frammenti P. Oxy. 2256, fr. 6 e fr. 8 (= fr. 534 e 535 Mette = frr. **451n e **451s 6 R), inoltre, un secondo personaggio divino faceva con ogni probabilità la propria comparsa sulla scena delle Etnee: si tratta proprio di Pace224, che aveva dunque calcato con ogni probabilità le

scene ben prima del 421 e in un contesto molto diverso. Εἰρήνη, infatti, proprio come la dea della giustizia, è secondo la tradizione una delle Ore, figlie di Zeus e Themis, legate da una parte alla fecondità della vegetazione225 e dall’altra al mantenimento dell’ordine sociale226. Noto è,

inoltre, il suo legame con Plutos227; tutti attributi che rendono perfettamente

adeguata la sua comparsa in un’opera di carattere celebrativo ed augurale. Particolarmente interessante, a proposito del confronto con la Pace, è il dettaglio che, a giudicare dai frammenti a nostra disposizione, il personaggio di Εἰρήνη sembra non prendere mai la parola. Una Εἰρήνη muta e solenne, dunque, che avrebbe potuto certamente essere parodiata da Aristofane nella Pace; la detorsio in comicum farebbe leva, in questo caso, sull’invenzione di una giustificazione piuttosto futile e superficiale che induce la dea a tacere, o almeno a rifiutarsi di far udire direttamente la sua voce: il silenzio della dea, spogliato della sua maestosa austerità, si trasforma così in niente più che il dispetto di una capricciosa bisbetica228.

224 Corbato 1975, p. 325 propone di leggere il nome di Εἰρήνη al secondo rigo del fr. 8,

distaccandosi in questa dall’edizione di Mette.

225 La visione della commedia che identifica spesso pace e vita campestre, appare

particolarmente calzante se si tiene conto di queste origini della dea (vd. infra IIb pp. 81ss. ).

226 Il fondamentale riferimento a questa genealogia è ovviamente Hes. Th. 901-903:

δεύτερον ἠγάγετο λιπαρὴν Θέμιν, ἣ τέκεν Ὥρας, Εὐνουμίην τε Δίκην τε καὶ Εἰρήνην τεθαλυῖαν, αἳ ἔργ᾽ ὠρεύουσι καταθνητοῖσι βροτοῖσι,

227 Cfr. e. g. Hom. Od. XXIV v. 486 (πλοῦτος δὲ καὶ εἰρήνη). La stessa associazione è

riproposta da Teognide (Eleg. I 885-886): εἰρήνη καὶ πλοῦτος ἔχοι πόλιν, ὄφρα μετ’ ἄλλων/ κωμάζοιμι.

228 Corbato 1975, pp. 331s. «Taceva –probabilmente- Εἰρήνη nelle Etnee, per quanto appare

dai frammenti, e ostinatamente, direi dimostrativamente, tace Εἰρήνη nella Pace […] Aristofane non poteva concepire diversamente la situazione del personaggio; ma quelle “confidenze” che Εἰρήνη è immaginata sussurrare all’orecchio di Hermes perché le comunichi sono per noi il palliativo comico di uno dei famosi silenzi eschilei».

b) La necessità del κολοσσικόν ἂγαλμα

Si è detto che Aristofane sceglie nel 421 di portare sulla scena la Pace in persona; a differenza di ciò che accade per Opora e Theoria però, la critica è concorde nel ritenere che la dea fosse rappresentata in teatro da un ἂγαλµα: il testo offre indizi piuttosto espliciti in questo senso in due punti229. Si tratta

dei versi 617-618 e del verso 924, in cui la dea è messa in relazione prima con il celebre scultore Fidia230, poi con una piccola effige di Hermes. Russo231 ha

giustamente insistito sull’importanza della prova fornita dall’atteggiamento degli altri personaggi nei confronti di Pace: la dea è percepita in tutta la sua purezza, una figura ieratica e intoccabile, a cui si devono rispetto e venerazione; Opora e Theoria, al contrario, hanno, nonostante il loro essere divine, una fisicità femminile e procace che gli altri personaggi non mancano di prendere di mira.

Disponiamo inoltre di uno scolio a Platone che cita τὸ τῆς εἰρήνης κολοσσικόν ἂγαλμα232.

229 Proprio di queste differenze nel modo di rivolgersi dei personaggi alla Pace da una

parte, e alle sue compagne dall’altra si è servito Nieddu 2013, pp. 178ss per difendere il testo tràdito ὦ Θεωρία del verso 524 che è parso sospetto ad alcuni in primo luogo perché un’apostrofe del tutto simile alla dea della festa conclude anche il verso immediatamente precedente e, inoltre, perché Trigeo si dilungherebbe in un raffinato elogio di una divinità minore, mentre ci si potrebbe aspettare che le sue attenzioni maggiori fossero riservate a Pace (di qui le proposte di correzione di Meineke <Εἰρήνη φίλη>, e Blaydes/Mazon <ὦ φίλη θεά/θεός>). La difesa di Nieddu, d’altro canto, si incentra 1) sulla non rarità dei casi i casi di ripetizione di uno stesso termine in posizione finale, in due versi consecutivi, in mancanza di intenti stilistico-espressivi; 2) sui richiami al festival delle Dionisie, alle rappresentazioni tragiche, a Sofocle ed Euripide dei versi 530-32 che calzano meglio alla dea della Festa che alla Pace; 3) sul lessico dell’elogio (in particolare i riferimenti alla sfera olfattiva, espressi dai verbi πνέω e ὄζω) che è proprio del sermo amatorius e non risulta mai riferito ad una divinità, e trova dunque il suo destinatario ideale in una donna in carne e ossa piuttosto che in una statua.

230La dea sarebbe infatti ‘parente’ (συγγενὴς v. 618) di Fidia, secondo il Coro, che fraintende

il significato di προσὴκω (v. 616), intendendolo come se indicasse un concreto rapporto di parentela piuttosto che una metaforica relazione fra Fidia e le circostanze che avevano portato alla scomparsa della dea Pace dalla Grecia. La figura del celebre scultore è infatti introdotta nell’ambito della fantasiosa storia per cui l’accusa rivolta a Fidia di aver frodato sull’oro della statua di Atena avrebbe creato il clima di sospetto e diffidenza da cui sarebbe scaturita la guerra (Aristofane sviluppa qui l’immagine della scintilla che fa divampare il fuoco e brucia le vigne, simbolo di pace e prosperità, come nota Taillardat 1962, p. 363).

231Russo 1962, pp. 221s.

Alcune perplessità sono state sollevate a causa della domanda che Trigeo rivolge alla dea233 al verso 682: «τήν κεφαλήν ποῖ περιάγεις;». Carl Robert234,

Vallois235 e Olson236 , pur non contestando che la dea fosse impersonata da

un ἂγαλμα, ne deducono che la testa della statua doveva essere congegnata in modo da poter essere manovrata e cambiare posizione simulando il gesto sdegnoso descritto da Trigeo. A me pare invece che la battuta in questione debba essere inserita in quello stesso gioco comico per cui la statua ‘permalosa’ non vuole parlare direttamente agli spettatori, ma si serve di Hermes come intermediario; l’incapacità della statua di fare cenni disapprovanti con la testa, come di parlare, è evidente agli spettatori che ridono di ciò che gli attori fingono ad artem di ignorare237. Pertinente e molto

persuasivo mi sembra, a questo proposito, il parallelo che è possibile rintracciare in Nuvole 1478-1483: Strepsiade finge qui di dialogare con

233 Bisogna ritenere che Trigeo si riferisca qui senza dubbio alla dea: è infatti a lei che fa

sempre appello nel corso del dialogo, si interessa al suo giudizio nei confronti dei cittadini, e si adopera per ottenere il suo perdono.Non vi è tuttavia nessun imbarazzo nell’attribuire un movimento ad un essere inanimato, poiché proprio su questa voluta incoerenza si basa il gioco comico in questo passo.

Il motivo della statua ‘viva’ è del resto diffuso in moltissime culture antiche e moderne che lo hanno declinato in forme estremamente varie, dalle leggende su persone tramutate in statua, ai racconti folklorici in cui soprattutto le statue di divinità facevano da tramite per il volere della divinità stessa, alle descrizioni di mirabilia in cui tecnica e magia si confondono. Statue viventi sono le aiutanti di Efesto in Hom. Il. XVIII, 573-579; le statue di Dedalo prendono vita e fuggono nel Menone platonico (Plat. Men. 97d-e); un simulacro prende vita nel prodigio descritto in Verg. Aen. II 172ss. Cfr. inoltre a questo proposito Rohde 1890-94, pp. 189s. e infra n. 229.

234Robert 1896, pp. 530ss. 235Vallois 1947, p. 63 236Olson 1998, p. xliv

237Il passo delle Nuvole è citato come parallelo per questa scena della Pace da Russo 1962, p.

222, insieme ad Aristoph. Lys. vv. 127 in cui la protagonista descrive le reazioni delle sue compagne alla proposta di negarsi ai propri mariti per costringerli alla pace. Se anche non è qui coinvolta nessuna statua, inatti, Aristofane avrà simile certamente mirato ad un effetto comico analogo, dal momento che i coreuti indossavano le maschere di scena, e sarà stato dunque impossibile per gli spettatori distinguere le smorfie a cui Lisistrata fa riferimento. Per quanto riguarda la tragedia, in Eur. IT vv. 1165ss. Ifigenia descrive le reazioni della statua di Artemide di fronte a Pilade ed Oreste, vittime sacrificali designate per il suo culto. La statua ha cambiato posizione, si è voltata e ha chiuso gli occhi per esprimere la sua ripugnanza nei confronti delle vittime impure e dunque indegne di essere sacrificate: Ἰφιγένεια: βρέτας τὸ τῆς θεοῦ πάλιν ἕδρας ἀπεστράφη.

Θόας: αὐτόματον, ἤ νιν σεισμὸς ἔστρεψε χθονός;

un’Erma a cui chiede consiglio sul da farsi, arrivando ben presto a concepire l’idea di dare alle fiamme il Pensatoio. Il protagonista delle Nuvole, come l’Hermes della Pace, ‘conversa’ con l’Erma, parlandole e riferendo poi ad alta voce per il pubblico l’opinione silenziosa del dio; con grande efficacia comica, inoltre, si schermisce dall’ira dell’impassibile Erma:

Στρεψιάδης: ἀλλ᾽ ὦ φίλ᾽ Ἑρμῆ μηδαμῶς θύμαινέ μοι μηδέ μ᾽ ἐπιτρίψῃς, ἀλλὰ συγγνώμην ἔχε ἐμοῦ παρανοήσαντος ἀδολεσχίᾳ:

A maggior ragione, per quanto suggestiva, mi sembra inaccettabile la proposta di Vallois che, affascinato come Robert, Vallois ed Olson dall’idea di una statua articolata, la immagina capace non solo di muovere la testa, ma addirittura di portare in braccio Opora e Theoria, come la Pace di Cefisodoto porta Pluto, per poi ridistendere le braccia lungo il corpo dopo averle fatte deposte in cielo con Trigeo ed Hermes. Se Aristofane avesse voluto che Pace potesse inserirsi nel dialogo fra i personaggi, commentandolo con gesti ed espressioni, la dea sarebbe stata interpretata da una comparsa muta, esattamente come le sue compagne.

A proposito poi delle dimensioni colossali dell’ἂγαλμα, Russo238 ritiene che

lo scoliasta abbia indotto in errore gli interpreti, parafrasando il κολοσσός di una delle fonti239; si tratterebbe dunque di una comune statua, non di una

238Russo 1962, p. 223

239 Di questo avviso anche Dover 1972, p. 135 secondo cui l’aggettivo non si discosta

dall’uso classico del sostantivo κολοσσός, impiegato per indicare manufatti antropomorfi di qualsiasi dimensione. Sul termine κολοσσός esiste un’ampia bibliografia che riunisce contributi afferenti alla storia dell’arte e al dramma antico, in relazione in particolare al noto verso 416 dell’Agamennone eschileo (vd. Medda 2013, pp. 60ss), in cui il poeta descrive lo stato di profonda disperazione, quasi un cordoglio funebre, che ha colpito Menelao in seguito alla fuga di Elena da Argo. Il sovrano prova infatti ripugnanza per la grazia degli εὔμορφοι κολοσσοί che gli ricordano la moglie perduta. Questo passo costituisce l’unica attestazione del termine κολοσσός in età classica, insieme al logos egizio di Erodoto in cui esso ricorre più volte e ad un ulteriore occorrenza in Erodoto IV 152,4. L’uso erodoteo associa sempre al termine la specifica delle dimensioni, che dunque non sembra poter essere già sottintesa nel sostantivo. Incerta è la datazione di un altro documento, il cosiddetto epigramma del colosso dei Cipselidi che leggiamo in Phot. κ 195.1-6 Th. e Sud. κ 2804.18-21 A. Al IV secolo risalgono invece due testimonianze epigrafiche in cui si allude all’uso rituale nell’area di Cirene di figure di piccole dimensioni denominate κολοσσοί (SEG 9.3.40-52; SEG

statua gigantesca, dal momento che, se si accetta di invalidare la testimonianza dello scolio, nel testo della commedia non è possibile reperire, secondo Russo, nessun indizio in questo senso, eccetto forse il τὴν θεῶν πασῶν μεγίστην del verso 308 che può tuttavia essere senza difficoltà inteso come metaforico.

La tesi secondo cui il μεγίστη del verso 308 non può essere citato come cogente prova interna del dato riferito dallo scoliasta mi sembra assolutamente condivisibile, tanto più che a questo punto della trama, Pace è ancora sepolta all’interno della grotta ed è quindi difficile pensare che il Coro stia qui commentando le dimensioni della dea; e anche ammettendo che i coreuti, in qualche modo, conoscano già l’aspetto di Pace, la battuta è troppo prematura perché il pubblico la ricordi e capisca l’allusione alla stazza dell’ἂγαλμα duecento versi dopo.

Nieddu non esclude, d’altra parte, che alluda alle straordinarie dimensioni della statua l’iperbole dei versi 520ss. che si troverebbero nella posizione

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