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La Messa in Scena della Pace di Aristofane

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Academic year: 2021

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Introduzione

I. Costruzione dell'opera

Il costante confronto con la contemporaneità in tutti i suoi aspetti, sociali, politici e artistici, è un elemento imprescindibile del teatro aristofaneo. La questione del rapporto che l’opera intrattiene con le circostanze storiche che fecero da sfondo alla sua composizione e rappresentazione è particolarmente chiara nel caso della Pace. Si tratta infatti di una vera e propria pièce d’occasion1 che celebrava la cessazione delle ostilità fra Sparta

ed Atene. La tregua, molto sospirata dalla popolazione ateniese e da Aristofane stesso, fu formalizzata con la stipula della Pace di Nicia, solo pochi giorni dopo la conclusione degli agoni teatrali2.

La Pace si inserisce, infatti, a tutti gli effetti nel cosiddetto ‘ciclo anti-bellico’ aristofanesco. Inaugurato con gli Acarnesi del 425, il ciclo comprende, fra le opere che ci sono giunte, la Pace e la Lisistrata del 4113.

1 L’unica, fra le opere del corpus aristofaneo giunte fino a noi, come scrive giustamente

Moulton 1981, p. 82. Proprio il forte legame dell’opera con gli eventi del 421 rende particolarmente verosimile l’ipotesi di una sua successiva rielaborazione che la rendesse fruibile in un diverso momento storico: sarebbe questa, secondo molti, l’operazione all’origine della Pace Seconda (cfr. infra n. 3).

2 Come attesta Tucidide: «αὗται αἱ σπονδαὶ ἐγένοντο τελευτῶντος τοῦ χειμῶνος ἃμα ἦρι, ἐκ

Διονυσίων εὐθὺς τῶν ἀστικῶν» (Thuc. Hist. V 20,1).

3 A queste devono, probabilmente, essere aggiunte almeno due commedie perdute: della

prima, Γεωργοί, pressoché contemporanea agli Acarnesi, o appena posteriore, ci sono giunti pochi frammenti, comunque sufficienti a testimoniare l'impegno anti-bellicista e la riproposizione del tema del ritorno alla vita campestre come idillico contraltare della guerra (per l’importanza di questo tema nella Pace si tratterà diffusamente nel Cap. 3, a proposito della appartenenza della dea Pace al gruppo delle Ore e dei rituali propiziatori di liberazione simbolica che sembrano essere sottintesi dalla scena del disseppellimento della dea dalla sua prigione). La seconda opera perduta legata al ciclo anti-bellico, anch'essa intitolata Εἰρήνη, e dunque nota come Pace Seconda, è citata nella seconda ὑπόθεσις della Pace che compare in quattro dei cinque principali manoscritti di Aristofane (Ravennate 429, Marciano 474, Laurenziano plut. 31, 15 e Oxoniense Bodleiano 88) e nell’Aldina. Ad essa furono attribuiti già da Cratete alcuni passi che la tradizione assegna alla Pace, ma che non fanno parte del testo della commedia per come lo conosciamo; quest’opera è tuttavia considerata dai più una seconda versione della Pace, forse riadattata per essere rappresentata nuovamente dopo il 421. Secondo altri si tratterebbe invece di una prima stesura o addirittura di un’opera diversa, ma comunque precedente, a quella a noi nota (vd.

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Le commedie del ciclo condividono un unico obiettivo polemico, da identificarsi con la classe che, traendo profitto dalla guerra, si opponeva con tutte le sue forze alla risoluzione del conflitto, a scapito del popolo semplice e in particolare degli agricoltori. Nonostante questo, la critica è più volte tornata a sottolineare come le opere del ciclo propongano ciascuna una trattazione propria del tema della pace. Innanzitutto, nel caso degli Acarnesi e della Lisistrata, la situazione ateniese contemporanea, i riferimenti ad eventi politici più o meno recenti, agli umori e agli interrogativi più diffusi fra i cittadini, vengono impiegati come un punto di partenza su cui innestare un fantasioso sviluppo degli eventi che porta ad un'immaginaria risoluzione dei problemi reali presentati all'inizio dell'opera. Composta per celebrare una specifica occasione, invece, la Pace rappresenta in modo univoco e preciso quel solo, epocale evento storico: l'intera commedia, dunque, non fa che anticipare un reale sviluppo degli eventi che doveva apparire imminente all'autore e ai suoi concittadini, ‘traducendolo’ secondo le norme del genere e portando «on a level of comic fantasy a task to which the Athenian people had already addressed itself on the mundane level of negotiation»4.

Una efficace descrizione della varietà di approcci all’argomento elaborata da Aristofane mi sembra quella di Newiger5, che prende in considerazione in

particolare due parametri: l'ampiezza della porzione di cittadinanza coinvolta nella pace ritrovata da una parte, e il grado di creatività della soluzione proposta dall'altro. Agli antipodi si pongono, secondo questa e.g. Pickard-Cambridge 1946, p. 64). D’altra parte, l’attacco alla classe politica che spingeva per la prosecuzione del conflitto, rappresentata in particolare da Lamaco e ancor più da Cleone, si estende ben al di là delle opere strettamente incentrate sul tema della guerra, e porta inevitabilmente con sé non pochi riferimenti ad esso. La III ὑπόθεσις della commedia stessa fornisce una testimonianza delle occasioni in cui Aristofane aveva parlato ὑπὲρ εἰρήνης nelle opere composte fino al 421, ricordando, oltre agli Acarnesi, anche i Cavalieri e le Navi da Carico: «τὸ δὲ κεφάλαιον τῆς κωμῳδίας ἐστὶ τοῦτο συμβουλεύει Ἀθηναίοις σπείσασθαι πρός Λακεδαιμονὶους καὶ τοὺς ἄλλους Ἕλληνας. Οὐ τοῦτο δὲ μόνον ὑπὲρ εἰρήνης Ἀριστοφάνης τὸ δρᾶμα καθῆκεν, ἀλλὰ καὶ τοὺς Ἱππέας καὶ τὰς Ὁλκάδας, καὶ πανταχοῦ τοῦτο ἐσπούδακεν, τόν τε Κλέωνα κωμῳδῶν τὸν ἀντιλέγοντα καὶ Λάμαχον τὸν φιλοπόλεμον ἁεὶ διάβαλλων». 4Dover1972, p. 137 5Newiger 1980, pp. 231ss.

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analisi, la soluzione individuale e assurda degli Acarnesi, e quella collettiva della Lisistrata, ottenuta con mezzi che incidono sulla quotidianità della comune vita familiare. A fare da transizione fra questi due estremi c'è la Pace che guadagna un idillico ritorno alla natura per tutti i Greci, chiamando rappresentanti di ogni regione ad unirsi al suo Coro in un'avventura ultraterrena che sfida le stesse divinità.

Oltre alla stretta relazione che lega la Pace alla temperie socio-politica dell'Atene del 421 a.C., per ottenere una visione complessiva delle circostanze in cui la commedia prese forma, è fondamentale considerare il ricco bacino di opere letterarie e di contesti culturali da cui l'autore ha tratto materiale. L’ ’iperletterarietà’ della Pace, che spicca per questa caratteristica all’interno di un corpus aristofaneo già fortemente meta-letterario, si manifesta nella grande varietà di testi contemporanei e ‘classici’6 che sono

integrati nell’opera e fatti oggetto di detorsio in comicum. Molti sono infatti i modelli a cui Aristofane fa esplicitamente riferimento nella Pace, citandoli direttamente o rielaborandoli in termini di allusione, e, spesso, di parodia; e non meno numerosi sono i paradigmi da cui l’autore ha, con ogni probabilità, tratto ispirazione. Spunti tratti dal folklore7, dall’epica e dalla

lirica, dalla favola e dal dramma satiresco8, oltre che da varie tragedie

eschilee ed euripidee, fra cui il Prometeo Incatenato9 e le Etnee10, l'Eolo, e le due

6Con ‘classici’ si intende alludere, in questa sede, a testi, più antichi di Aristofane, che già si

erano imposti come identitari della cultura greca, in particolare il patrimonio epico e lirico.

7In primis il motivo del salvataggio di una fanciulla da parte di un eroe, per cui vedi infra p.

7, n. 19. Anche l’aneddoto della scala che collega straordinariamente terra e cielo, a cui il servo di Trigeo accenna nel Prologo, trova numerosi paralleli sia in Grecia, che in altre culture: di un fantastico collegamento fra terra e cielo trattano l’episodio del generale tracio Cosingas, narrato da Polieno in Στρατηγήματα VII, 22, il racconto biblico della scala di Giacobbe, e quello popolare di Jack e il fagiolo magico. Mentre la soluzione assurda della scala viene abbandonata a favore dell’idea comica, ma perfettamente logica, di raggiungere il cielo volando fino all’Olimpo in sella ad un enorme scarabeo, un nuovo collegamento assurdo fra i due piani, viene sfruttato da Trigeo per il viaggio di ritorno, che avviene ‘via terra’ (vd. Cap. 1, pp. 26ss.).

8 Per l’influenza dei Diktyoulkoi vd. Cap. 3 I, pp. 45ss. e Cap. 3 Ic, pp. 69ss. in merito alla

discussione sulla scena del disseppellimento della dea Pace che sembra presentare alcune analogie con l’inizio del dramma satiresco in questione, quando un Coro di satiri-pescatori, chiamato a raccolta da Dyctis, tirava in secco, grazie ad alcune funi, l’arca in cui si trovavano Danae e Perseo.

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opere della saga tebana, Bellerofonte e Stenebea11, sembrano essere stati

sapientemente convogliati nell'una o nell'altra scena, non di rado intrecciandosi e sovrapponendosi.

Il vignaiolo Trigeo è Bellerofonte e anche Prometeo: con il primo condivide infatti una generale sfiducia nella divinità che permette agli uomini di distruggersi a vicenda e non distribuisce premi e punizioni in modo congruo. Questo tratto, che assume nella tragedia i toni amari di un profondo scetticismo e porta infine l'eroe alla follia, viene assorbito da Aristofane e colorato secondo le norme del genere comico. Diventa quindi

mania12 nel senso aristofanesco del termine: un'ossessione grottesca che

conduce Trigeo alla concezione di un piano fantastico, piuttosto che ad un atto di ὓβρις autodistruttiva. Al titano deve l’astio nei confronti del padre

10 Per l’ipotesi di un’influenza delle Etnee sulla Pace in relazione al personaggio di Dike,

un’ipostasi di concetto astratto portata sulla scena come la dea Pace, anch’essa probabilmente presente sulla scena dell’opera eschilea, vedi Cap. 3 IIa, pp. 77s.

11Da queste ultime tre opere perdute sono tratte, secondo gli scoli, alcune citazioni letterali,

più o meno modificate per adattarsi al nuovo contesto:

- il v. 76 contiene un’apostrofe al «Πηγάσειον γενναῖον πτερόν», sul modello di quella al «Πηγάσου ταχὺ πτερόν» del fr. 306 N.2 del Bellerofonte; la stessa perifrasi,

tipicamente tragica, è adoperata ancora dalla figlia di Trigeo al v. 135, in una scena che è interamente dedicata alla parodia dell’Eolo;

- i versi 114-115 riecheggiano l’«ἒτυμον φάτιν» del fr. 17 N.2 dell’Eolo;

- la prima parte del v. 119 «Δοξάσαι…δ’ἐτήτυμον» corrisponde perfettamente al fr. 18 N.2 dell’Eolo;

- il v. 126 riproduce il fr. 669 N.2 della Stenebea;

- il v. 155 è riadattato sul fr. 307 N.2 del Bellerofonte, in cui compare l’aggettivo

χρυσοχάλινος, già attribuito a Pegaso da Pindaro, a proposito della vicenda della sua cattura, resa possibile dalle briglie d’oro che Bellerofonte aveva ricevuto in dono da Atena (Olimpiche 13, 65 «χρυσάμπυκα...χάλινον», e 78 «δαμασίφρονα χρυςόν»);

- il v. 722, infine, parafrasa il fr. 312 N.2 del Bellerofonte: «βροντήν τε στεροπἠν τε φερῶν

Διὶ μητιόεντι».

Uno studio completo della funzione della citazione letterale e dell’innalzamento di registro nelle sezioni paratragiche della Pace è fornito da Peter Rau 1967, pp. 89ss.

12 Il personaggio di Bellerofonte è stato tradizionalmente considerato un esempio di virtù

mutata in follia: al motivo dell’eroe civilizzatore ἀμύμων che caratterizza il suo ritratto in Iliade Z (vv. 155-157 e v. 162), si affianca già in Pindaro (Olimpica 13 e Pitica 7) il tema della superbia che lo spinge a commettere un atto tracotante, tentando di raggiungere l’Olimpo in groppa a Pegaso. L’opera euripidea dedicata alla sua figura andò probabilmente in scena intorno al 425 a.C. (cfr. Curnis 2003, p. 26, n. 45 e Di Gregorio 1983, pp. 160-161, n. 3). Aristofane fa infatti esplicito riferimento ad essa anche negli Acarnesi, all’intero dell’elenco di eroi straccioni portati in scena da Euripide che il personaggio dello stesso drammaturgo presenta ai vv. 426-429.

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degli dèi, ‘traditore’ del popolo greco (vv. 107s.), e soprattutto l’altruismo con cui sceglie di ‘sacrificarsi’ in favore dell’umanità13.

Favola e mito concorrono a dar vita alla celebre scena del volo, che segna il vero e proprio inizio dell'azione: è infatti l'opera di Esopo14 a far cadere la

scelta del protagonista su un immenso scarabeo stercorario, come cavalcatura più indicata per un eroe comico.

D’altra parte, è il tema cardine del Bellerofonte15, la tracotanza dell’uomo che

tenta di elevarsi verso il divino, a fare da sfondo agli sforzi di Trigeo, deciso

13 A differenza di quanto avveniva nei Cavalieri, i riferimenti testuali al Prometeo nella Pace

sono molto scarsi: solo il verso 320 contiene un’eco piuttosto evidente del verso 994 («…κυκάτω πάντα καὶ ταρασσέτω»). Tuttavia molte circostanze sembrano parlare in favore di una volontaria costruzione del personaggio di Trigeo come doppio di Prometeo. Indizi in questo senso sono il forte conflitto del protagonista con Zeus, e soprattutto la sua φιλανθρωπία, ampiamente celebrata nella commedia con toni molto simili a quelli usati in riferimento al titano; particolarmente notevoli in questo senso sono le allusioni alla missione di Trigeo in termini di sofferenza personale (v. 150 «ὑμεῖς δέ γ’, ὐπὲρ ὧν τοὺς πόνους ἐγὼ πονῶ»), e alla sophia con cui egli compie sacrifici e maneggia il fuoco (vv. 1023ss.).

Inoltre la trama della commedia sembra porre più volte l’eroe comico in situazioni che hanno una esatta corrispondenza nella tragedia. Trigeo ruba la pace dall’Olimpo, contravvenendo al volere di Zeus: ai versi 371-2 viene infatti chiarito che Pace è stata rinchiusa nell'antro da Polemos con il benestare di Zeus e che, per suo editto, a nessuno sarà concesso liberarla.Deve inoltre confrontarsi con Hermes, nella sua tradizionale funzione di garante dell'ordine imposto da Zeus, e addirittura di «ὑπηρέτης» (cfr. Aesch. PV. v. 954), qualifica che viene presa alla lettera da Aristofane che assegna infatti al dio l’umiliante ruolo di portiere del palazzo di Zeus. La denuncia della congiura della Luna e del Sole ai danni degli dèi (vv. 406ss.) sembra, inoltre, la ‘traduzione’ comica della misteriosa profezia di Prometeo sulle minacce alla supremazia di Zeus, che il titano si rifiuterà sempre di svelare. Questi e altri parallelismi, che sono stati esaustivamente discussi da Morosi 2014, pp. 63ss., permettono, in conclusione, di accostare in modo piuttosto solido la figura di Trigeo a quella di Prometeo, attribuendo all’eroe comico un ruolo addirittura titanico, con l’aggiunta di una efficace sfumatura alla costruzione del personaggio come contraltare di varie figure eroiche dell'epica e della tragedia, processo realizzato d’altronde anche per lo stesso Hermes, ben meno temibile e inflessibile del suo ‘gemello serio’ (vv. 192s. e v. 425).

14 Come il protagonista rivela durante il dialogo con la figlia, ai versi 129-130. La stessa

favola esopica è citata da Aristofane anche nelle Vespe (vv. 1444-1449) e nella Lisistrata (vv. 694s.); nella Pace, tuttavia, al contrario di quanto avviene negli altri due casi, l’attenzione si concentra su un dettaglio secondario del logos, senza che si faccia riferimento al suo messaggio morale. Schirru 2009, pp. 99-103 ha tuttavia provato a rintracciare alcuni parallelismi che potrebbero giustificare più ampiamente la scelta di Aristofane di alludere a questa favola: in primo luogo Trigeo, come lo scarabeo di Esopo, vola in cielo in cerca di giustizia; in entrambi i casi la giustizia è compromessa dal comportamento dello stesso Zeus che protegge l’aquila, colpevole nei confronti dello scarabeo, da una parte, e che si disinteressa della sorte dei Greci dall’altra. La decisione di Trigeo di presentarsi da Zeus in sella allo scarabeo dunque, può essere letta come una sottile minaccia, dal momento che, come tutti gli spettatori sapevano, nella favola l’incontro con lo scarabeo si concludeva per il dio in modo piuttosto inglorioso.

15 La scena del volo è modellata su quella del Bellerofonte euripideo, come indica il primo

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ad incontrare Zeus per domandare alla somma autorità lumi sul destino dei Greci e intercedere per la loro salvezza16. Segue una sezione paratragica

piuttosto estesa, dedicata alla presentazione del τόλμημα νέον (v. 94) a cui il protagonista si accinge e alla descrizione del suo incredibile viaggio alla volta dell’Olimpo.

Poco dopo, tuttavia, il progetto originale deve essere accantonato, e lo scopo della missione cambia. Il meccanismo è ben noto alla commedia aristofanea17: il protagonista non è fin dal principio focalizzato sull’impresa

che costituirà il centro dell’azione drammatica, ma il momento creativo in cui il progetto immaginifico che darà corpo alla trama viene concepito per la prima volta, è rappresentato direttamente sulla scena. Spesso l’eroe comico, lungi dall’essere invincibile, va incontro ad un fallimento prima di escogitare il piano che porterà allo scioglimento definitivo: è il caso delle Nuvole, delle

Donne alle Tesmoforie e degli Acarnesi, in cui si chiede invano la

collaborazione rispettivamente di Fidippide, di Agatone, e dell’assemblea cittadina; rivelatasi impraticabile la via più agevole, non rimane che imboccarne una più impervia e cercare soluzioni creative al problema. Nel caso degli Uccelli il protagonista, dopo aver ottenuto lasciato Atene per stabilirsi in una città a lui più congeniale, decide di mettere a frutto le potenzialità del nuovo ambiente e trova nel Coro l’esecutore materiale del suo piano.

«Παρεισάγει τοίνυν γεωργόν, Τρυγαῖον τὂυνομα […] Ὁν δή, διαποροῦντα τίνα τρόπον τὴν εἰς οὐρανὸν πορείαν ποιήσει, παρεισάγει τρέφοντα κάνθαρον ὡς ἀναπτησόμενον εἰς οὐρανὸν δι’ αὐτοῦ, Βελλεροφόντου δίκην».

Bellerofonte era stato probabilmente rappresentato a cavallo di Pegaso anche nella Stenebea, ma il progetto di Trigeo di volare fino all’Olimpo sembra conciliarsi meglio con il contesto del Bellerofonte. ‘Tradotto’ da Aristofane, quello che doveva essere l'evento culminante della tragedia, diventa invece il punto di partenza dell'avventura dell'eroe comico.

16 L’altruismo di Trigeo, che parte per una missione avventurosa, mettendo a rischio la

propria vita per salvare la Grecia, può essere annoverato fra gli elementi propri della «romantic tendency» che costituisce secondo Northrop 1957, pp. 163ss. uno degli sviluppi propri della commedia, e che emerge con insistenza nella Pace, come ha ben messo in evidenza Moulton 1981, pp. 101ss. Il trionfo dell’eroe, scampato alla morte e riuscito nella sua impresa è celebrato con un banchetto nuziale e segna il ritorno ad una idillica età dell’oro, dai tratti spesso arcadici.

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Nel caso della Pace si può individuare uno sviluppo simile: Trigeo ha successo nei suoi sforzi per raggiungere il cielo, ma, inaspettatamente, non gli è possibile intercedere in favore dei Greci presso Zeus; si trova però adesso nella condizione di poter concepire un piano ambizioso, il cui esecutore materiale sarà di nuovo il Coro18.

Si cala dunque ancora una volta nei panni di un eroe tragico, passando da Bellerofonte a Perseo19, e, portata a termine la sua missione salvifica in cielo,

18 L’applicazione del modello alla trama della Pace è stata negata da Cassio, secondo cui

«l’idea straordinaria di salire in cielo da Zeus è la prima e l’unica di Trigeo: non ci sono tentativi di altro tipo che vengono messi da parte», mentre le vestigia dello schema estrapolato da Richter sarebbero visibili nel brevissimo racconto del servo prologante sulla vana costruzione dei λεπτὰ κλιμάκια, menzionati al verso 69 (Cassio 1985 pp. 52s.). La posizione di Cassio si basa sull’osservazione che la concezione davvero straordinaria di Trigeo è quella di ripercorrere le orme di un eroe tragico e andare ad incontrare gli dèi, facendosi portavoce dell’intera grecità. Indubbiamente l’effetto di climax non è chiaro come negli Uccelli, e l’emergere del ruolo fondamentale del Coro intacca la centralità della personalità ipertrofica che di solito caratterizza l’eroe aristofaneo; nonostante questo però, mi sembra che lo sviluppo dell’azione possa essere ricondotto al modello di Richter: l’iniziativa di liberare Pace deve essere infatti attribuita a Trigeo. Non solo egli si incarica di chiamare a raccolta il Coro, ma si adopera perché l’impresa possa essere compiuta in sicurezza, impedendo ai coreuti di essere scoperti da Polemos, e persuadendo Hermes a lasciarli lavorare indisturbati. L’impresa stessa assume caratteri eroici, grazie al richiamo a numerosi contesti mitici e inoltre il mancato colloquio con Zeus non impedisce a Trigeo, forte solo della sua volontà e dell’aiuto dei suoi compagni, di opporsi in prima persona al dio Polemos e alla volontà dello stesso Zeus; in questo modo la sua missione di semplice ambasciatore lascia spazio ad un suo intervento diretto. Trigeo ha la possibilità imperdibile di salvare Pace, ed è l’unico, uomo o dio, che è in quel momento nelle condizioni di porre fine alla guerra in Grecia; come Pistetero, inoltre, riceve un tangibile riconoscimento del suo irrinunciabile ruolo nelle nozze divine con Opora.

19 La più celebre vicenda mitica che tratta del salvataggio di una fanciulla da parte di un

eroe è quella di Andromeda e Perseo, rappresentata nell’Andromeda euripidea del 412 di cui una celebre parodia sarà portata in scena da Aristofane l’anno seguente, nelle Donne alle Tesmoforie.Si tratta ancora una volta della parodia di una scena in cui l’eroe tragico arrivava in volo, trasportato dunque dalla mechané: la parodia del 411, tuttavia, si concentrava sul piano linguistico e metrico, piuttosto che su quello tecnico, motivo per cui Euripide-Perseo si presentava probabilmente in scena a piedi (cfr. Belardinelli 2013, p. 70).

Nel caso della Pace, non abbiamo a che fare con un esercizio paratragico, come avviene per la scena del volo, modellata sul Bellerofonte. Si tratta qui, invece, della generica ripresa di un tema folklorico molto prolifico nell’antichità. Gli adattamenti letterari di questo motivo in Euripide sono stati analizzati da Sophie Trenkner 1958, pp. 50-55sulla base degli elementi forniti dalle due opere che, fra quelle pervenuteci, testimoniano il fenomeno: l’Ifigenia in Tauride e l’Elena. I lineamenti fondamentali del racconto folklorico si possono facilmente riconoscere anche nella Pace: Trigeo, che si è congedato dalle figlie e dai servi come un eroe destinato a salvare l’umanità a partire dai versi 93s. (il successo della sua grandiosa impresa sarà ribadito da lui stesso ai vv. 865-867, e di nuovo nella seconda parte dell’opera, ai vv. 919-921 e 1033-1035), continua a immedesimarsi nel ruolo e libera una incantevole fanciulla dall’antro in cui un essere mostruoso (cfr. vv. 238-241) l’ha imprigionata, sfruttando la sua temporanea assenza. Aggiungerei che, come nei contesti folklorici di cui parla la Trenkner, per il successo del piano un ruolo fondamentale è svolto da un personaggio appartenente all'entourage del mostro, che viene convinto a collaborare con l'eroe: nel caso della Pace, si

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torna sulla Terra dove, prima di poter godere dei frutti delle sue fatiche, dovrà ancora occuparsi della consegna di Theoria al consiglio e dell’insediamento di Pace.

La preparazione delle nozze finali del protagonista, una ierogamia come quella fra Pistetero e Regina negli Uccelli, offre l’occasione per una carrellata di veloci sketch che insistono sulle contraddizioni del vivere finalmente in pace in una città così a lungo devota alla guerra; queste brevi scene sono arricchite da ulteriori rimandi intertestuali, che interessano stavolta la poesia epica e lirica. Questa sezione finale presenta inoltre molti punti di contatto in particolare con gli Acarnesi e gli Uccelli: il confronto fra queste commedie e la

Pace offre, in effetti, un saggio della grande abilità con cui Aristofane è in

grado di reimpiegare e variare il materiale del suo repertorio.

tratta di Hermes, legato a Polemos per la comune natura divina e, inoltre, per obbedienza al volere di Zeus che ne ha permesso l'insediamento sull'Olimpo.

A seconda di come si preferisce completare il verso 180, pronunciato da Hermes e lasciato tronco per dare rilievo al forte impatto che la vista del mostruoso scarabeo ha sul dio, si potrebbe riscontrare in questo punto un ulteriore elemento tipico dei contesti favolistici a cui si sta facendo riferimento. «Πόθεν βροτοῦ προσέβαλεν...» può lasciare inespresso sia φωνὴ che ὀσμή: la prima scelta si adatta perfettamente alla scena, dal momento che Trigeo, bussando, si è rivolto ad alta voce agli abitanti della casa. La seconda permetterebbe, d’altro canto, di trovare un’analogia con il paradigma della favola in cui è frequente che l’eroe rischi di essere scoperto dal mostro a causa del suo odore ‘da umano’. Van Leeuwen 1906, p. 35 propende, infatti, per ὀσμή, ricordando anche il verso 115 del Prometeo Incatenato: «τίς ἀχώ, τίς ὀδμὰ προσέπτα μ᾽ ἀφεγγής». L’idea che l’autore abbia potuto fare una scelta di questo tipo è ancor più suggestiva se si tiene conto che tutta la prima parte della commedia gioca sull’olezzo emanato dallo scarabeo.

Il coinvolgimento di Hermes, piuttosto che di Polemos, non costituisce un ostacolo: la figura dell’antagonista nella Pace è infatti piuttosto evanescente. Polemos è indubbiamente l’orco della favola di Trigeo, tormentato per tutta la durata della sua avventura in cielo dal terrore di essere scoperto da lui (cfr. vv. 233-5 e vv. 309-10); i timori del protagonista tuttavia non sono destinati a realizzarsi, e l’unico personaggio che realmente minaccia di opporsi alla riuscita della missione è in effetti Hermes, di cui l’eroe deve conquistare la fiducia. In questa sorta di ‘scomposizione’ dell’antagonista, ricopre un ruolo, come si è già accennato, anche lo stesso Zeus (cfr. Olson 1998, p. 135 a commento dei versi 319-320). Si noti inoltre, a proposito di questa questione che, una volta trasformato Hermes da potenziale nemico ad alleato, è il Coro stesso a farsi ‘antagonista’: la Pace porta in scena infatti una sorta di ‘doppia determinazione’ per cui la vicenda narra della fuga degli dèi e della reclusione di Εἰρήνη da parte di Polemos come eziologia fantastica della guerra, ma non tralascia di rappresentare la responsabilità dei Greci stessi, che sono stati causa della loro stessa disgrazia, come denuncia la dea Pace per bocca di Hermes, e hanno continuato ad esserlo fino al 421, come mostrano le operazioni intorno alla caverna, in cui orgoglio, indolenza e incapacità di collaborare emergono insieme all’immobilità che ne consegue.

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Secondo una modalità comune a tutte e tre le opere, una schiera di personaggi si presenta alla porta del protagonista, dando vita a brevi scene che si concludono nella maggior parte dei casi con la cacciata dell’ospite. In questo contesto intervengono alcuni caratteri cari all’autore: la scena dell’interprete di oracoli della Pace costituisce, sotto vari aspetti, una sorta di ‘prototipo’ di quelle del sacerdote e soprattutto del venditore di oracoli che si incontrano negli Uccelli.

In entrambi i casi è una cerimonia sacrificale ad offrire all’autore l’occasione di introdurre i nuovi personaggi: Trigeo, come Pistetero, ha intenzione di condurre da solo il sacrificio (Pace v. 1026; Uccelli v. 894); entrambi vengono tuttavia interrotti da un χρησμολόγος che inneggia a Bacide, blatera di impossibili unioni fra lupi e pecore o lupi e cornacchie (Pace vv. 1076s;

Uccelli vv. 966s.) e pretende di essere onorato con un’offerta di bevande e di

viscere (Pace vv. 1103ss; Uccelli vv. 975s.), finché il protagonista non decide di usare contro di lui le sue stesse armi20 e l’impostore non può che darsi alla

fuga. Come Diceopoli, inoltre, Trigeo intavola trattative con alcuni mercanti alla disperata ricerca di clientela21. Alcune scene ambientate nel mercato

privato di Diceopoli sono, del resto, ‘riassunte’ nel discorso del Coro ai versi 999ss. della Pace: il tema delle conseguenze della guerra sulla circolazione delle merci aveva infatti giocato un ruolo contrale negli Acarnesi, dove, stipulata la pace privata con Sparta, il protagonista riceveva un mercante megarese e uno tebano, impazienti di riaprire finalmente gli scambi con Atene; da Megara e dalla Beozia il Coro della Pace si augura di poter ricevere le specialità di queste regioni22. Tornando a comporre nel 421 una nuova

20 Il libro di oracoli nel caso degli Uccelli, mentre nella Pace Trigeo decide più

semplicemente di rispondere alle richieste dell’importuno χρησμολόγος con le stesse deliranti frasi con cui egli ha appena cercato di beffarlo, lasciandolo senza parole.

21 Nel caso degli Acarnesi si tratta dei tradizionali partner commerciali di Atene, impazienti

di riaprire gli scambi, a lungo compromessi dalla guerra. Nella Pace molto meno spazio è dedicato all’incontro fra Trigeo ed i mercanti grati al protagonista per aver riportato la pace; come negli Uccelli, ci si concentra invece sulle visite indesiderate: le gag sono quindi costruite sull’incontro fra Trigeo ed i mercanti che sono stati danneggiati dalla sua missione celeste, poiché i loro prodotti, armi, elmi, e lance sono destinati ora a rimanere invenduti.

22Con particolare enfasi sulle anguille della Copaide, alle quali viene dedicata in entrambi i

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opera su guerra e pace dopo gli Acarnesi, inoltre, Aristofane non rinuncia a assegnare ancora una volta un ruolo ad uno dei protagonisti assoluti della scena politica ateniese, Lamaco23, che gli spettatori ricordavano nel ruolo di

sfortunato antagonista di Diceopoli. La mania guerrafondaia che caratterizzava il generale trasformato in personaggio comico, è ereditata dal figlio, che se ne fa portavoce nella Pace, e non riesce, nemmeno nella nuova Atene, appena uscita dall’incubo bellico, a non recitare brani che inneggiano ad eroiche battaglie. Si tratta nuovamente di una tipologia di scena ‘di repertorio’: discussioni sul tipo di intrattenimento più appropriato nei contesti legati alla festa e al simposio sono presenti anche nelle Nuvole e nelle Vespe. In queste opere, legate al tema dell’educazione, rispecchiano tuttavia un’opposizione culturale legata al gap generazionale, mentre nella

Pace essa assume l’aspetto di una sorta di competizione fra poesia della pace

e poesia della guerra, inserendosi in un dibattito che aveva un certo successo nell’antichità, come testimonia in particolare il Certamen di Omero ed Esiodo, in cui è confluita la citazione degli Epigoni di Antimaco di Teo24 che

il ΠΑΙΔΙΟΝ Α’ recita in questa scena della Pace25, così come anche il testo di

un’altra battuta del ragazzo, anch’essa probabilmente riconducibile ad Omero26. Lo stesso Aristofane tornerà sulla stessa tematica nelle Rane, in cui

sostituito alla sposa defunta in un passo tratto dall’Alcesti nel caso degli Acarnesi (vv. 893s.), dalla Medea di Morsimo (o di Melanzio) nel caso della Pace (vv. 1009ss.).

23 Il Lamaco di Aristofane incarna l’incapacità degli Ateniesi di rinunciare alla gloria della

vittoria e scendere a patti con il nemico risparmiandosi così ulteriori perdite; la figura del generale continua a simboleggiare questa testarda ostinazione attraverso il personaggio del figlio, nonostante il ruolo svolto dallo stesso Lamaco nella stipula della Pace del 421, di cui fu uno dei firmatari (Thuc. Hist. V, 19).

24 Questo poema veniva tuttavia attribuito ad Omero all’epoca di Aristofane, come fa

notare Di Benedetto 1969, p. 161.

25 Aristoph. Pax 1270 = Certamen 259 Allen (247 Rz.3). Gli Epigoni erano probabilmente

attribuiti ad Omero all’epoca di Aristofane, come argomenta di Benedetto 1969, pp. 161ss.

26 Aristoph. Pax 1282-3 = Certamen 107-8 Allen (102-3 Rz.3), con una differenza nel testo del

primo dei due versi, anch’essa discussa da di Benedetto 1969 p. 162, n. 4 secondo cui è probabile che Aristofane attesti in questo punto la forma originaria del distico con un emistichio ὣς οἱ μὲν δαίνυντο che ricorre anche in Hom. Od. IV 15 e nello stesso Certamen 119 Allen (113 Rz.3). L’articolo di di Benedetto 1969, pp. 161ss. si propone, per l’appunto, di

mostrare come tutte le battute del ΠΑΙΔΙΟΝ Α’ contengano riferimenti tratti da Omero o da opere a lui attribuite, con citazioni letterali (Aristoph. Pax 1273 = Hom. Il. III, 15; XIII, 604;

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come è noto, la disputa fra Eschilo ed Euripide prende in considerazione oltre a varie questioni stilistiche, il fondamentale ruolo didattico della poesia, con lo scontro fra un Eschilo ‘pieno di Ares’, baluardo dell’educazione tradizionale, e un Euripide devoto piuttosto ad Afrodite27.

Nella nostra commedia, è Trigeo a svolgere il ruolo di poeta della pace, tradizionalmente attribuito ad Esiodo; secondo una modalità ben attestata dal Certamen, egli cerca inoltre di completare il verso recitato del fanciullo in modo da attribuirgli un significato diverso quello originale (vv. 1286s.)28.

Se l’introduzione del personaggio del figlio di Lamaco dà ad Aristofane l’occasione di inserire varie citazioni epiche29, l’aggiunta di un secondo

fanciullo, il figlio di Cleonimo30, a frustrare il desiderio di Trigeo di bandire

la poesia della guerra da Atene, garantisce uno spazio anche alla produzione giambografica, rappresentata dal celeberrimo frammento 5 West di Archiloco (vv. 1297ss.).

XVI, 462. Pax 1276= Il. IV 450. Pax 1287= Il. XVI 267) o adattate al contesto (Aristoph. Pax 1274= Hom. Il. IV 447, 1° emistichio + Il. IV 448, 2° emistichio).

27Aristoph. Ran. vv. 1019ss.

28 La capacità di inventare un finale che rendesse ‘possibili’ versi apparentemente privi di

senso è alla base di un’intera sezione del testo del Certamen (la cui composizione e tradizione sono molto discusse e in parte ancora oscure), in cui era Omero a dare un saggio della sua maestria poetica, completando alcuni versi proposti da Esiodo.

30 Un’altra figura di spicco della scena ateniese contemporanea, più volte tacciata di

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II. La messa in scena: stato degli studi e questioni preliminari

Il nucleo problematico sotto indagine nel campo degli studi scenici coincide, nella Pace, con la parte centrale del dramma, che ha inizio con l’arrivo di Trigeo davanti alle porte della dimora celeste di Zeus, abbandonata dagli dèi olimpici e ormai sede del dio Polemos, e termina con il congedo del protagonista che si avvia nuovamente verso casa, ottenuta la liberazione della dea Pace a beneficio di tutti i Greci. L’impiego della mechanè, che eleva l’eroe, a cavallo del suo alternativo Pegaso, fino alla sede degli dèi, è reso assolutamente certo dall’appello che Trigeo rivolge al μηχανοποιός al verso 17431. D’altra parte, dalla metà del 1800 circa ad oggi, il crescente interesse

nei confronti della dimensione performativa del dramma antico ha spinto la critica a confrontarsi spesso con i vari interrogativi che riguardano la duplice ambientazione e le transizioni che segnano il passaggio dei personaggi dall'una all'altra, così come la scena del disseppellimento di Pace. Interrogativi per i quali sono state proposte, nel corso degli anni, diverse e diversissime soluzioni.

Per spiegare l’incredibile varietà di teorie avanzate su questo tema, tale da indurre Platnauer a scrivere nell'Introduzione alla sua edizione del 1964 «it is scarcely an exaggeration to say that a new theory on the subject has been put forward in every edition that has been published»32, è necessario tener conto delle aporie che tutt’oggi caratterizzano la ricerca sul dramma antico nel suo complesso. Le difficoltà che hanno impedito agli interpreti di raggiungere un accordo su alcune questioni preliminari, hanno infatti lasciato spazio a ricostruzioni che poggiano di volta in volta su presupposti diversi, innescando, nel caso di un’opera dalla messa in scena innegabilmente complessa come la Pace, un’inarrestabile moltiplicazione di proposte.

31 Altri casi di appelli al macchinista sono presenti in due frammenti aristofanei: il fr. 192

K.-A. che doveva appartenere al Dedalo, ed il fr. 160 K.-A. dal Geritade.

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a) Struttura e potenzialità del teatro di Dioniso

In primo luogo l’indagine sulla performance teatrale del V secolo non può che basarsi sulla conoscenza della struttura del teatro antico e delle effettive possibilità tecniche da essa offerte. Nel caso di Aristofane, e in generale del dramma classico, che fu principalmente rappresentato ad Atene, è ovviamente fondamentale il contributo che proviene delle ricerche condotte nel sito del teatro di Dioniso33; tuttavia, per quanto riguarda il V secolo, «the

archeological evidence is notoriously frustrating»34. La stratificazione

dovuta alle successive ricostruzioni del teatro ha, infatti, obliterato buona parte della struttura antica, di cui resta molto poco secondo alcuni, o addirittura niente, secondo altri. I resti più antichi a nostra disposizione, d’altra parte, non sono stati univocamente interpretati dagli studiosi.

Un caso particolarmente esplicativo è quello della tesi, unanimemente accettata prima degli scavi condotti sull'Acropoli fra gli anni '80 e '90 dell'Ottocento, secondo cui nel V secolo era già in atto la divisione dello spazio scenico in due aree distinte, destinate ad usi diversi: la prima dovrebbe essere considerata l’antenata del moderno palcoscenico, da immaginare rialzata e riservata agli attori; la seconda, l'orchestra, ampia e piana, sarebbe stata progettata per rispondere specificamente alle esigenze del Coro. Nonostante la smentita di Dörpfeld, questa idea non ha smesso di

33 Qui furono certamente rappresentate le commedie dionisiache, vale a dire quelle

presentate nell’ambito del festival teatrale delle Grandi Dionisie, Nuvole, Pace ed Uccelli; le commedie certamente rappresentate durante gli agoni lenaici (Acarnesi, Cavalieri, Vespe e Rane) si sarebbero svolte secondo alcune ipotesi presso un diverso teatro, situato nella zona dell’Agorà e diversamente attrezzato rispetto al più imponente teatro di Dioniso (il Leneo non avrebbe avuto a disposizione, ad esempio, la mechané). La diversa natura dello spazio a cui erano destinate sarebbe, in quest’ottica, alla base di alcune differenze strutturali che si è cercato di individuare all’interno del corpus aristofaneo (vedi n. 263). Questa teoria, avanzata da Anti 1947, e accolta da Russo 1962 pp. 4ss. (il capitolo “I due teatri di Aristofane”, in cui Russo discute la proposta di Anti, è del resto ricavato da un articolo del 1956, comparso in forma di nota negli Atti della Accademia Nazionale dei Lincei-Rendiconti della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, XI 1-2, pp 14-27, e poi in Belfagor XI 3, pp. 241-252), come anche da Fensterbusch 1949, pp. 229ss. e Bieber 1949, pp. 449ss. , è invece stata nettamente rifiutata da Pickard-Cambridge 1948, p. 127.

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circolare, e ha trovato non pochi nuovi sostenitori, fra cui Webster35,

Arnott36, Hourmouziades37 e, nell’ambito degli studi sulla commedia antica,

Dearden38. Se, come è naturale, un dibattito di questo genere interessa tutto

il dramma antico, l'impatto della posizione assunta da ciascuno studioso al riguardo è più forte nel caso di quelle opere, fra cui la Pace, dove la possibilità di creare sulla scena dislivelli di qualche tipo appare cruciale39.

Un’altra vexata quaestio riguarda la natura della skené, e le potenzialità di questa struttura. In particolare il dibattito verte su due aspetti.

- Da una parte è stata spesso contemplata la possibilità che un livello scenico sopraelevato potesse essere ottenuto sfruttando il tetto della skenè, intesa in questo caso come un vero e proprio edificio, piuttosto che come un semplice sistema di pannelli in legno e stoffa decorati appropriatamente40.

Quest’ipotesi, tuttavia, fa riferimento con ogni probabilità a strutture in uso in epoche successive. Per il dramma classico, inoltre, essa appare superflua, dal momento che l’esigenza di far comparire alcuni personaggi al di sopra

35Webster 1959-60, p. 498 36Arnott 1962, pp. 1-41

37Hourmouziades 1977, pp. 58-74

38 Questi studiosi sostengono la tesi della divisione fra orchestra e palco in una forma di

compromesso, quella del ‘lower stage’ che prevede una pedana riservata agli attori più bassa di quella descritta da Vitruvio nel De Architectura, e tenta di non escludere la possibilità di un avvicinamento fra Coro e attori, grazie a una rampa di pochi gradini che permetteva al cast di scendere abbastanza agevolmente nell'orchestra o ai coreuti di salire sul palco. Dearden 1976, pp. 13ss. stigmatizza la facilità con cui i riferimenti a movimenti “su” e “giù” nel testo delle commedie aristofanee sono stati spesso esibiti come prova dell’esistenza di un palco, tuttavia si pronuncia, infine, in favore di una bassa pedana come parte integrante del teatro di Dioniso, connessa con l’area “T” del sito archeologico. Questa posizione si basa su una sorta di argumentum e silentio, secondo cui nessuno dei testi a nostra disposizione manifesta la necessità di una condivisione totale di spazi fra Coro e attori.

39La ricostruzione proposta da Dearden 1976, pp. 172ss. della messa in scena delle Rane, ad

esempio, pone la casa di Eracle sul palcoscenico, mentre al momento della catabasi, Xantia e Dioniso scenderebbero nell’orchestra.

40 Di questo avviso sono Vincenzo di Benedetto ed Enrico Medda: i due studiosi si sono in

questo opposti ad una visione molto diffusa che ha attribuito alla skené un’importanza sempre maggiore, dilatando in modo spesso eccessivo le possibilità offerte da questa struttura (Di Benedetto-Medda 1997, p. 17). Nell’ottica di un ridimensionamento del ruolo della skené nel dramma del V secolo, vengono inoltre considerati casi di rappresentazioni tragiche che ne furono probabilmente del tutto prive (Di Benedetto-Medda 1997, p. 14).

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della skené può essere soddisfatta da semplici piattaforme erette dietro di essa, come è emerso dall’analisi condotta da Vincenzo Di Benedetto ed Enrico Medda in merito alla messa in scena delle rappresentazioni tragiche41. Tali conclusioni non sembrano trovare smentita se si aggiungono

al bilancio le occorrenze di situazioni analoghe in commedia42.

- Dall’altra, non c’è accordo sul numero di aperture43 che mettevano

in comunicazione lo spazio scenico con l'ambiente retrostante, nascosto agli occhi degli spettatori, come anche sul grado generale di ‘personalizzazione’ della skené su cui ogni autore poteva contare per la messa in scena delle proprie opere, richiedendo attrezzature create ad hoc per rispecchiare l’ambientazione caratteristica della sua opera, o adattandosi ad un repertorio più o meno ampio in possesso del teatro44.

Alcune ipotesi ricostruttive presuppongono, infine, l’impiego di strumenti più complessi, fra cui l’ekkyklema45 e le Χαρώνιοι κλίμακες descritte da Polluce

41Di Benedetto-Medda 1997, p. 17

42Per una discussione più ampia di questa questione si veda Cap. 2, pp. 33ss.

43Per la tragedia, è opinione comune che di norma fosse prevista una sola porta, ma alcune

rappresentazioni ne richiedevano certamente due.

44 E’ possibile infatti individuare alcuni elementi ricorrenti: discutendo delle forme più

frequenti assunte dalla porta centrale della skené, ad esempio, Polluce (IV, 124) ci testimonia che essa «era reggia o grotta o dimora famosa». La ricorrenza di scene ambientate in alcuni determinati contesti, diversi da quelli strettamente cittadini -quando la skenè rappresentava soprattutto l’esterno di case o templi, ha spinto Dearden 1976, p. 40 a sostenere che il teatro di Dioniso avesse in dotazione un set di pannelli dipinti che rappresentavano gli scenari più frequentemente utilizzati, e che potessero essere usati senza variazioni ogni volta che se ne manifestava la necessità.

45 Le funzioni di questo macchinario sono molto discusse: la notizia che esso servisse a

mostrare agli spettatori scene che avvenivano in interno, cioè dietro la skené che rappresentava la facciata di un edificio è stata variamente interpretata.

La Dale rifiuta l’idea di una piattaforma rotante in grado di ribaltare la prospettiva della scena, ma propende per una superficie montata su ruote adattabile a due diverse funzioni. La prima banalmente rendeva possibile trasportare sulla scena oggetti pesanti, come accadeva nei Diktyoulkoi (cfr. infra Cap. 3 Ic); la seconda permetteva di portare alla vista dei personaggi e del Coro qualcosa che apparteneva all’interno della scena, senza che essi dovessero entrare nella skené, rendendo la scena non fruibile per gli spettatori. L’ambiguità spaziale che ne conseguiva era accettata per convenzione, a sostegno di una concezione dello spazio scenico come fluid scene (vedi infra p. 18); sullo smascheramento di questa convenzione, utilizzata a sproposito per Euripide ed Agatone, gioca Aristofane negli Acarnesi e nelle Thesmophoriazousae: essi vengono infatti realmente portati fuori dalle loro

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(IV, 132)46, opzioni che tuttavia non sono unanimemente considerate

percorribili, poiché i dati a nostra disposizione non consentono di assumere con certezza che queste strutture fossero impiegate nel V secolo nel teatro di Dioniso.

b) Realismo e convenzione

Ulteriori punti di disaccordo riguardano la tecnica drammaturgica impiegata nelle rappresentazioni classiche, in particolare il problematico rapporto fra istanza realistica e convenzione all'interno del dramma antico, e le oscillazioni che tale rapporto poteva subire a seconda del genere a cui ciascuno spettacolo faceva riferimento. La più importante risorsa a disposizione dello studioso moderno rimane infatti il testo drammatico stesso, attraverso il quale è possibile ricostruire le esigenze proprie di ciascuna opera.

Una esatta corrispondenza fra ciò che si immagina sulla base del testo e ciò che era fisicamente presente in teatro, è tuttavia, come in ogni epoca, irraggiungibile, non solo a causa di risorse tecniche ed economiche limitate, ma per la natura stessa del teatro, che vive di tempi e spazi propri, il cui legame con la realtà è determinato di volta in volta anche dalle tendenze del case, dunque il meccanismo non è qui un espediente per mostrare ciò che accadeva all’interno (Dale 1956, pp. 98ss.).

Di Benedetto e Medda d’altra parte, ritengono che nelle scene in cui è stato ipotizzato l’utilizzo dell’ekkyklema, venisse semplicemente aperta la porta della skené, o rimossa parte di essa per garantire una visuale più ampia. La parodia aristofanea, che si avvale del verbo ἐκκυκλεῖσθαι in Ach. 408-9 e Thesmoph. 96, si rivolgerebbe in questo caso non alla convenzione per cui era possibile mostrare all’esterno l’interno di un edificio, ma alle scene in cui un personaggio tragico veniva trasportato sulla scena in lettiga (Di Benedetto-Medda 1997, pp. 22ss.).

46 Si tratta di un tunnel attraverso il quale attori ed oggetti scenici potevano essere fatti

emergere dal suolo dell’orchestra o del palco. Di strutture di questo genere sono state trovate tracce –probabilmente comunque posteriori al V secolo- nei teatri di Eretria, Argo e Sicione. Il sito del teatro di Dioniso non sembra invece conservare le vestigia di niente del genere, ma questo non ha impedito ad alcuni studiosi di immaginare che esistesse e venisse impiegata nel V secolo, per poi essere forse smantellata in seguito. Questa opzione è stata ampiamente sfruttata, come si vedrà, in varie proposte di ricostruzione della messa in scena della Pace, in relazione alla scena della liberazione della dea dall’antro, descritto come una sorta di camera sotterranea (vedi infra Cap. 3 Ia).

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momento, dal gusto e dalle capacità dei singoli. Ad un testo che manifesta alcune esigenze sul piano dell’organizzazione dello spazio, dei movimenti dei personaggi all’interno di esso, della presenza di alcuni oggetti descritti in modo più o meno approfondito, possono di conseguenza corrispondere scelte di messe in scena molto diverse fra loro, anche ponendosi nell’ottica, oggi prevalente, di una messa in scena tendenzialmente realistica del teatro antico.

Alcuni aspetti di questa tensione fra rappresentato ed immaginato ci sono molto chiari: l'esempio più lampante è quello delle scene notturne, come il quadro iniziale delle Nuvole. Le condizioni di luminosità sfuggivano al controllo di registi e attori in un teatro, come quello antico, le cui rappresentazioni si svolgevano all'aperto: ci si sarà dunque affidati ad altri elementi per render chiara l'ambientazione, letti, fiaccole e personaggi addormentati, mentre sarà stato lasciato agli spettatori il compito di completare l'immagine con la fantasia, accettando le eventuali conseguenze del ‘patto’ che si era da questo momento instaurato con regista ed attori. D’altra parte, la constatazione che il dramma antico è spesso molto dettagliato nella descrizione dello spazio in cui i personaggi agiscono, ha fatto propendere la maggior parte degli studiosi per una scena essenziale, in cui era il testo a compensare la semplicità della rappresentazione, includendo particolari che in teatro potevano essere riprodotti solo parzialmente o in maniera rudimentale. Dilatando questo concetto, è stata avanzata l'idea che ad un simile ‘patto’ con il pubblico fosse attribuito un peso decisamente maggiore.

Alcuni studiosi, a partire dalla Dale47, hanno dunque sostenuto che

indicazioni molto dettagliate dovevano corrispondere a qualcosa che il

47 Lo studio fondamentale su questo tema è appunto quello della Dale, che si apre proprio

con la considerazione che «the most precise indications often concern what was invisible to the audience» (Dale 1956, p. 96).

Rossi 1989, pp. 66ss. parla di «autarchia testuale del dramma antico», riferendosi con questa espressione alla funzione del testo drammatico antico come un copione completo di didascalie, in cui si fornivano indicazioni su entrate, uscite, movimenti scenici di ogni tipo, oltre che sulle reazioni e sugli stati d’animo dei personaggi. stesso proposito, tuttavia, Rossi tratta anche di un tipo di «autarchia testuale» che mi sembra piuttosto distante da questo.

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pubblico non vedeva in nessuna forma, e proprio per questo dovevano necessariamente essere più precise di quelle che avevano un riscontro in teatro. E’ nata così l’idea di uno spazio teatrale del tutto indeterminato, che riceveva determinazione esclusivamente grazie al potere della parola; in quest’ottica, gli elementi scenici potevano assumere aspetti diversi in diversi momenti della rappresentazione, senza che fosse necessario apportare alcuna modifica visibile48.

Le possibilità offerta dalla fluid scene o adjustable scene49 così concepita,

diventano particolarmente interessanti nei casi in cui la rappresentazione richiede uno o più cambi di ambientazione, totali o parziali.

Si tratta di una circostanza che ricorre molto raramente in tragedia50 ma più

frequentemente in commedia, la cui realizzazione costituisce da sempre una questione delicata per la critica51.

Le indicazioni di cui si è detto erano utili a chi era coinvolto nella messa in scena, e altre, comuni a tutti i testi teatrali, fungono invece, come scrive Rossi, da «aiuti esegetici» ad uso e consumo del pubblico, che è grazie ad esse in grado di identificare i personaggi, il luogo e il tempo della storia; mi sembra invece che l’idea di battute concepite perché lo spettatore immaginasse, in base alla descrizione fornita, ciò che sulla scena non compariva in nessuna forma, implichi un significato molto più forte e molto più rischioso di «autarchia testuale». L’esempio portato da Rossi, che cita i primi versi dell’Elettra di Sofocle è, inoltre, evidentemente scorretto, come è stato rilevato da Di Benedetto-Medda 1997, p. 31.

48Il cosiddetto ‘refocusing’.

49Dale 1956, pp. 97ss.

50 Nel corpus di opere tragiche che ci sono pervenute, di vero e proprio cambio di scena è

possibile parlare, con ogni probabilità, solo per le Eumenidi, e per l’Aiace, mentre nel caso dei Persiani e delle Coefore l’ipotesi di un cambio di ambientazione per mezzo di refocusing, avanzata da Taplin, è stata convincentemente confutata da Vincenzo Di Benedetto nel 1989. Un caso del tutto eccezionale doveva essere quello delle Etnee, caratterizzate da ben cinque cambi di scena, secondo quanto possiamo ricostruire dal papiro che riporta la hypothesis dell’opera.

51 La natura del cambio di scena doveva infatti essere fondamentalmente diversa da quella

propria del teatro come lo conosciamo oggi; basti pensare che, in mancanza di qualcosa di simile ad un moderno sipario, il cambio di scena doveva avvenire inevitabilmente sotto gli occhi del pubblico. Non è chiaro inoltre se gli attori e il Coro fossero sempre fuori scena in queste occasioni, come sembra indicare, per quanto riguarda almeno la prassi tragica, la metastasis del Coro di Eumenidi e Aiace. In commedia la questione poteva probabilmente essere gestita con maggiore libertà.

Un cambio di scena in presenza degli attori è stato, ad esempio, ipotizzato per la Pace, nel momento in cui la casa di Trigeo assume il ruolo di dimora di Zeus mentre il protagonista volteggia imbracato alla mechané (così Droysen 1868, pp. 48ss). Si tratterebbe, comunque, di un caso sui generis: la presenza dell’attore è innegabile, ma è ‘attenuata’ dal fatto che egli sia relegato ad una zona dello spazio teatrale diversa da quella in cui avveniva il cambio di

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Una simile proposta ha riscosso un certo successo, ed è stata più volte adottata per la ricostruzione di tragedie52 e commedie.

Nel caso della tragedia, tuttavia, il suo impiego è stato altrettanto spesso messo in dubbio53.

Il refocusing è stato invece spesso considerato «a feature of comic fluidity»54,

sulla base della considerazione che di vera finzione drammatica si parla a proposito della tragedia, mentre la commedia non pretende mai che il pubblico si dimentichi completamente di essere seduto a teatro. Di conseguenza, se la scena tragica è trattata come un luogo reale, la natura di spazio teatrale della scena comica è preponderante sulla caratterizzazione che le deriva dalla trama dell’opera rappresentata, al punto che, anche quando essa assume un’identità particolare, non la mantiene, ma tende a diventare evanescente se il testo non torna a intervenire per ristabilirla55.

scena. In questo modo tutte le operazioni tecniche potevano essere verosimilmente ignorate dal personaggio.

52Ad esempio in Taplin 1977 e Arnott 1962.

53 Ad esempio, da Di Benedetto-Medda 1997, p. 33 sulla base di una riflessione già esposta

da Di Benedetto 1989, pp. 82-85 a proposito della messa in scena dei Persiani e delle Coefore. Secondo Letizia Poli-Palladini, che si è espressa criticamente nei confronti della nozione di refocusing nel suo articolo apparso in RhM nel 2001, essa racchiude, confondendoli, fenomeni diversi e diversamente attestati nel dramma antico, come il cambio di scena segnalato solo attraverso il testo, «attention being drawn on a so far neglected, though present, part of the scene (without any proper change of setting)» e infine «the alleged magical creation, as it were, only by means of words, of single items in the scene (un- paralleled, I think, in tragedy)». I confini fra queste nozioni sono stati studiati dallo stesso Di Benedetto 2002, p. 109-110, che ha distinto cambio di scena, riuso di un oggetto in concomitanza di cambio di scena, e rifunzionalizzazione, quest’ultima a sua volta distinta in dequalificazione e dissolvenza.

54Scullion 1994, p. 70

55 Scullion 1994, p. 67, secondo cui nei passaggi in cui l’ambientazione non riceve a lungo

alcun tipo di caratterizzazione da parte del testo, la scena comica si ‘comporta’ in modo esattamente opposto alla scena tragica. Nel discutere della messa in scena dei Persiani, infatti, Scullion sostiene che è scorretto ipotizzare un cambio di scena dopo quella incentrata intorno alla tomba di Dario, sulla base dell’assenza di nuovi riferimenti alla tomba nel prosieguo della vicenda, perché «seems to get the thing the wrong way round to suppose that the poet must be continually reminding us that we are in the same place, in this case referring to a feature of the place that is no longer of preeminent importance, and that if he does not do so, and in fact says nothing about the location, we are to understand that the scene has changed». La scena tragica dunque tende a mantenere la sua identità, una volta che questa è stata stabilita; la scena comica necessita invece di continue conferme, in mancanza delle quali si trasforma velocemente in un ambiente neutro.

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A favore di una spiccata fluidità della scena comica si era, d’altra parte, già pronunciato Fraenkel56, ripreso da Dearden a proposito della necessità di

fondali poco dettagliati in commedia, «since realism would clearly be too limiting for the multiplicity of action and setting»57.

Questa interpretazione della commedia antica, per cui è stata chiamata in causa la nozione di ‘scenografia verbale’58, è dunque ampiamente diffusa.

Questo non è bastato, tuttavia, a ottenere un vero uniformarsi di visioni: la teoria della scena fluida è accettata in modo solo parziale da alcuni e portata alle estreme conseguenze da altri, come sarà subito evidente dall’analisi delle teorie avanzate sulla messa in scena della Pace59.

Da quanto si è detto fino ad adesso, risulterà chiaro che la frammentazione delle posizioni degli interpreti rende molto difficile delineare uno status

questionis, e anche individuare un’evoluzione nella storia degli studi che

56Fraenkel 1936, p. 257ss. 57Dearden 1976, p. 45

58 Si tratta di una nozione tratta dal teatro elisabettiano, che può essere adottata,

ovviamente, mutatis mutandis. Della sua applicazione al teatro greco antico ha scritto, fra gli altri, Dario Del Corno in Del Corno 1986, pp. 208ss. a proposito della discussa utilità di didascalie teatrali di qualsiasi tipo (cioè incluse o meno nel testo drammatico) in una prassi teatrale secondo la quale ogni opera era rappresentata di norma una sola volta sotto la direzione dell’autore (cfr. supra n. 1 e n. 3). Le due questioni sono connesse in quanto, come già osservato da Taplin 1977, pp. 129ss., il fondamentale peso dell’elemento verbale nel dramma antico, in ragione del quale «whenever any stage business was an important element in the play they reflected it clearly in the words», è stato spesso inteso, con evidente anacronismo, come se il drammaturgo avesse volontariamente incluso nel testo tutto ciò che riguardava la messa in scena nell’ottica di fornire tutti i dati necessari ad una completa ricostruzione della performance. Non c’era motivo che egli sentisse questa necessità, e infatti, senza dubbio, non tutti i dettagli della rappresentazione trovano un riferimento nel testo. Queste ‘indicazioni’ devono dunque essere interpretate come manifestazioni delle fondamentali esigenze dello spettacolo, in termini di spazio e di arredi scenici -che potevano comunque essere realizzati in teatro in modo vario, tenendo conto anche del contributo degli spettatori, e della convenzione- e in quanto tali possono essere utilizzate a fini ricostruttivi.

59 Si veda, ad esempio, la tesi da Dale 1957, p. 211che propone una ricostruzione per cui

tutti e tre gli elementi principali della messa in scena, le due case e la grotta, coinciderebbero con l’unica porta della skené, anche nei momenti in cui due di essi devono evidentemente essere compresenti sulla scena.

Un simile livello di libertà nella gestione dello spazio scenico comporta però una grande confusione che non è in alcun modo necessaria, poiché niente ci indica che la commedia dovesse essere priva di qualsiasi arredo scenico, eccezion fatta per una porta, dall’aspetto, per di più, totalmente neutrale. La proposta ricostruttiva della Dale sarà più ampiamente discussa in seguito (Cap. 4, p. 96).

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abbia portato ad un reale superamento di alcune tesi in favore di altre. Si cercherà dunque di distinguere alcune linee interpretative generali da una parte, e linee relative ai singoli aspetti della messa in scena dall’altra.

E’ evidente che qualsiasi conclusione non potrà che essere tratta a livello ipotetico. La prassi teatrale delle opere tragiche e comiche coeve a nostra disposizione, a cui è inevitabile fare riferimento in cerca di precedenti e paralleli, non può fornire certezze, trattandosi di un campione ridotto, e almeno in parte casuale, di esempi giunti fino a noi. Alla base di tutte le ricostruzioni si trovano in ogni caso le aporie di cui si è discusso, e altre legate nello specifico alla singola opera. Infine, come è noto, alcuni aspetti della performance teatrale antica sono per noi irrimediabilmente perduti -si pensi ad esempio alla musica o alla danza, ed è quindi inevitabile che anche la ricostruzione più accurata risulti incompleta, e non possa tenere conto di alcuni elementi potenzialmente rilevanti60.

Ogni ricostruzione è dunque, in linea di principio, possibile, presupponendo che il campione di testi drammatici che leggiamo oggi sia più o meno rappresentativo e che i dati parziali in nostro possesso sulla messa in scena ci guidino o meno nella giusta direzione.

Considerato tutto questo, in particolar modo nel caso di un’opera come la

Pace, per cui gli interpreti hanno avanzato ogni tipo di soluzione

immaginabile, mi sembra che lo scopo di un lavoro di ricostruzione debba essere quello di analizzare gli indizi reperibili al fine di distinguere in primis gli accorgimenti di messa in scena che sono realmente necessari da quelli che non lo sono.

60Nel caso della Pace, ad esempio, non siamo in grado di apprezzare a pieno il meccanismo

paratragico attivo nella scena del volo, perché non sappiamo come la detorsio in comicum che riguardava il testo e la messa in scena si applicasse alla musica. Essa avrà certamente giocato un ruolo notevole in tutti i contesti paratragici, poiché i brani lirici, come le arie d’opera, venivano più facilmente memorizzati dal pubblico, rendendo ben riconoscibili anche i riferimenti inseriti in commedia. Cfr. in proposito Fraenkel 1962, p.178 e Mastromarco 2006, pp. 137ss.

(22)

Per necessario si deve intendere un oggetto di scena o un tipo di organizzazione dello spazio-tempo teatrale senza il quale un’azione scenica di cui troviamo traccia evidente nel testo non potrebbe avvenire, o risulterebbe incomprensibile per il pubblico.

In secundis si può cercare di stabilire quali opzioni sono non necessarie, ma

almeno auspicabili, perché funzionali ad una certa economicità e soprattutto fluidità della rappresentazione. In questo modo sarà possibile formulare l’ipotesi più verosimile.

(23)

Capitolo 1

La “drammatizzazione del dislivello”

61

Diversi tipi di dislivello entrano in gioco in varie delle opere che compongono il corpus aristofaneo: alle Vespe e alle Nuvole, che prevedono scene in cui i personaggi agiscono su un tetto, si aggiungono la Lisistrata in cui si fa riferimento alla geografia del territorio ateniese, con l'Acropoli posta in alto rispetto al centro abitato, e infine le commedie che si svolgono in ambienti ultramondani, Rane e Uccelli, che si prestano immediatamente al confronto con la Pace.

Le somiglianze fra queste ultime e la Pace non sono tuttavia, al contrario di quanto si potrebbe pensare, così stringenti: è infatti stato più volte notato che esse sembrano poco interessate a dilungarsi nella narrazione del viaggio che porta i protagonisti nel nuovo mondo, di modo che in nessuno dei due casi il tema del superamento del dislivello emerge in modo significativo. Nelle

Rane l'avventura che conduce Dioniso e Xantia fino alla casa di Plutone

comincia ad essere descritta dettagliatamente da quando i due si affacciano sulla palude dove incontrano Caronte, mentre sul percorso grazie al quale essi sono giunti fin lì partendo dalla casa di Eracle, dove l'azione aveva avuto inizio, non abbiamo nessun indizio. Anche nel dialogo iniziale fra i due dèi, in cui Dioniso chiede al fratello di fornirgli le indicazioni necessarie per il viaggio, Eracle risponde descrivendo il percorso che porta dalla palude infera alla casa di Plutone, tralasciando completamente tutto ciò che viene prima: Διόνυσος: οὐκ ἂν βαδίσαιμι τὴν ὁδὸν ταύτην. Ἡρακλῆς: τί δαί; Διόνυσος: ἥνπερ σὺ τότε κατῆλθες.

61Riprendo nel titolo di questo capitolo un’espressione coniata da Paduano 2002, pp. 32-33.

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