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Elinor Ostrom e il cambio di canovaccio: la poliedricità scenica dei commons

3. Rivalità e non escludibilità: i beni comuni nel pensiero

3.2. Elinor Ostrom e il cambio di canovaccio: la poliedricità scenica dei commons

dei

commons

.

Alla fine dell’anno 2009, la Banca di Svezia conferì – per la prima volta dall’istituzione del premio – il Nobel per l’economia ad una donna, Elinor Ostrom, dell’Università dell’Indiana.

La decisione suscitò clamore nella comunità scientifica internazionale. La studiosa, infatti, aveva indagato una serie di tematiche per lungo tempo considerate minori o, comunque, poco rilevanti nell’ambito dell’economia neo-liberista: la gestione e l’impiego dei beni comuni.………...

Sino ad allora, invero, sia gli economisti keynesiani sia gli economisti monetaristi si erano interessati a questo tipo di beni economici considerandoli però semplicemente come un particolare tipo di beni, connotati da due specifiche proprietà: la rivalità e la non escludibilità168. Quanto alla prima caratteristica

(beni comuni della collettività) per poterlo servire bene, ma deve essere amministratore fiduciario (sulla base di un mandato o al massimo di una proprietà fiduciaria) e certo non proprietario, libero di abusarne alienandoli e privatizzandoli indiscriminatamente».

168

I beni comuni si distinguono dai beni pubblici poiché, a differenza di questi ultimi, sono caratterizzati dalla presenza di rivalità nel consumo. Infatti, secondo la teoria economica e la definizione di Paul Samuelson, premio

Nobel per l’economia, le caratteristiche peculiari dei beni pubblici sono due: tali beni possono essere

simultaneamente fruiti da più individui, principio della non rivalità, e nessun individuo può essere escluso dalla loro fruizione, principio della non escludibilità.

(rivalità), essa attiene alle possibilità di consumo del bene: il consumo (o l’uso) dello stesso da parte di un individuo ne diminuisce la disponibilità per gli altri individui. Trascorrendo alla non escludibilità, anch’essa si riferisce alla possibilità di consumo di un determinato bene: si concreta, infatti, nella difficoltà – se non addirittura nell’impossibilità – di impedirne la contemporanea fruizione da parte di una pluralità indefinita di utenti.

Il merito principale da attribuire alle ricerche della Ostrom è quello di aver – superando la dicotomia dominante tra Stato e Mercato e dimostrando come esistano alternative efficienti e sostenibili al predetto binomio per evitare il sovra- sfruttamento delle risorse collettive – confutato la validità sia degli approdi cui erano giunti gli economisti keynesiani sia di quelli raggiunti dagli economisti monetaristi in materia di sfruttamento e gestione dei beni comuni: infatti, nel lavoro del 1990 che le è valso il premio Nobel per l’economia, Governing the Commons, ha destituito di fondamento le predette teorie. La studiosa, infatti, ritenendo senza uscita tanto il sentiero indicato dalla scuola keynesiana quanto quello suggerito dalla scuola monetarista, ha tracciato una “terza via”, dimostrando che la gestione dei commons affidata alla comunità che ne gode delle utilità risulta essere più efficiente di quella pubblica (sistematicamente affetta da sprechi) o privata (a rischio d’essere elitaria), nonché maggiormente sostenibile nel tempo. Invero, secondo l’accademica statunitense, la privatizzazione dei commons non è assolutamente in grado di risolvere il problema del loro sovra-sfruttamento. D’altra parte, neanche la nazionalizzazione rappresenta la soluzione del problema, a meno che non si commetta l’errore di pensare che i funzionari pubblici abbiano dei geni particolari, che consentano loro di fare quel che – secondo quanto asserito dalla scuola monetarista e da quella keynesiana – le persone comuni non sanno fare: «la scelta del Leviatano burocratico non è l’unica via per risolvere il dilemma dei beni collettivi»169, vieppiù se

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Sono parole di E. OSTROM, Governare, cit., p. 21. L’economista statunitense constata che il modello di Garrett Hardin si basava su prescrizioni politiche, nella convinzione di «un Leviatano burocratico come “unica” via». L.’A. osserva che, secondo le prospettazioni Hardin, «se si deve evitare la rovina in un mondo sovrappopolato, la gente deve accettare una forza coercitiva esterna alle menti dei singoli, un “Leviatano”, per usare il termine di Hobbes»

si considera che nell’età globale – in cui, almeno nelle società occidentali, l’autodeterminazione dell’individuo assurge al rango di valore irretrattabile – «non può essere più il re, lo sciamano o il Leviatano hobbesiano a decidere quanto bene comune (si pensi all’acqua) deve consumare ciascuno (anche perché, pur volendolo costruire, un Leviatano mondiale che imponga agli USA o alla UE quanta acqua consumare non esiste, ed è bene che non esista)»170.

Dunque, secondo il premio Nobel, la più efficiente gestione dei beni comuni – nonché la più giusta – può essere conseguita soltanto affidando il loro governo alla communio personarum che dovrebbe goderne delle utilità. Invero, la comunità di gestione, grazie ai rapporti di fiducia, collaborazione e rapida comunicazione, può assicurare un uso dei “propri” beni comuni capace di resistere anche al consumo predatorio evitando, di conseguenza, la privatizzazione o la statalizzazione. La distanza con le tesi di Hardin non avrebbe potuto essere maggiore. Lo studio di quest’ultimo, secondo la Ostrom, aveva tratto le mosse da due assunti teorici errati: l’aver analizzato – come chiaramente si evince dall’esempio del pascolo comune –

(G. HARDIN, Political Requirements for Preserving our Common Heritage, in Wildlife and America, H.P. Bokaw (ed.), 1978, p. 314). L.’A. rileva che «l’affermazione che un Leviatano esterno sia necessario per evitare le tragedie dei beni collettivi porta a raccomandare che i governi centrali controllino la gran parte dei sistemi di risorse naturali. Heilbroner (1974) riteneva che sarebbero stati necessari “governi forti”, probabilmente governi militari, per poter arrivare al controllo dei problemi ambientali» (E. OSTROM, Governare, cit., p. 22).

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Così A. VESTO, I beni. Dall'appartenenza egoistica alla fruizione solidale, cit., p. 253, ove si osserva altresì che, «in fondo, la gestione “statale” o “comunale” dei commons in passato funzionava non solo perché molti beni comuni (soprattutto in ambito ambientale) non erano scarsi, ma anche perché il mondo era di fatto ancora comunitario e gerarchico: non sceglievano gli individui ma le comunità con i loro rappresentanti. Un elemento chiave nella gestione dei beni comuni è l’emergere nella modernità dell’individuo e delle sue libertà. Nelle società tradizionali (normalmente piccole) c’era essenzialmente uno strumento, la gerarchia, che consentiva a qualcuno o a pochi, normalmente sulla base di una legittimazione di tipo sacrale, di scegliere per tutti. In questo contesto gerarchico (tipicamente antico o arcaico, ma presente ancora oggi in molte comunità del pianeta) la tragedia dei

commons semplicemente non si pone, poiché non c’è un contrasto tra libertà individuale e bene comune, per il

semplice fatto che non esistono libertà individuali. Dunque, la tragedia dei commons ha bisogno, per emergere,

dell’esistenza e della libertà dei singoli individui: per questo essa è tipicamente un problema moderno. In altri

termini, laddove le istituzioni dello Stato sono forti sul territorio e riescono a rendere coerenti la teoria e la prassi dell’assolutismo (monopolio sul diritto e sulla violenza legittima), i beni comuni (e le comunità di riferimento) nella loro dimensione politica e giuridica «dal sotto in su» si rattrappiscono e tendono a sparire (a favore del binomio proprietà privata-Stato)».

dei sistemi a libero accesso privi di qualsivoglia forma di regolamentazione; l’aver postulato che non ci fosse alcun tipo di comunicazione tra coloro che usufruivano del bene comune. Proprio l’aver impostato la risoluzione del problema deicommons muovendo da condizioni di partenza errate – cioè l’assenza qualsiasi forma di regolamentazione e l’assoluta mancanza di comunicazione tra i consociati – ha comportato che Hardin finisse per affermare l’indispensabilità del conferimento del governo dei beni comuni ad un determinato soggetto, pubblico o privato. Invece, come sostenuto dalla Ostrom, le comunità – intese come l’insieme degli appropriatori e degli utilizzatori delle risorse collettive – sarebbero senz’altro in grado qualora sussistanodeterminate condizioni di gestire esse stesse i commons in modo efficiente e senza incorrere nella tragedia descritta da Hardin. Le condizioni a cui si riferisce la Ostrom sono essenzialmente due: la conoscenza, la fiducia e la comunicazione tra i componenti di una comunità; l’esistenza di sistemi di regole o istituzioni già consolidate sul territorio. Invero, le ricerche del premio Nobel hanno dimostrato che in tutti i paesi e in tutte le culture esistono istituzioni collettive, e cioè insiemi di regole condivise, che hanno permesso alle comunità locali di auto- gestire sistemi di risorse ambientali complessi in modo efficiente e sostenibile per periodi molto lunghi, talvolta per millenni171.

Dunque, secondo la Ostrom, premessa essenziale affinché il governo dei commons possa essere proficuamente affidato alla comunità è la presenza di un insieme di regole condivise finalizzate a disciplinare le modalità di sfruttamento e di gestione delle risorse collettive.

Orbene, soltanto laddove non fosse prevista una ben calibrataregulation delle risorse condivise, andrebbe in scena il drammatico epilogo prospettato da Hardin: gli individui non agirebbero spontaneamente al fine di favorire gli interessi della collettività, poiché – essendo certa parte della natura umana dominata dall’egoismo – cercherebbero di massimizzare i propri profitti, anche se a scapito del benessere

171

Tra i casi di sistemi d’uso di risorse collettive durevoli, l’Autrice annovera quelli approntati nel villaggio di Torbel in Svizzera; nei villaggi di Hirano, Nagaike e Yamanoka in Giappone; nelle huertas spagnole; nelle comunità di irrigazione zanjera nelle filippine.

dell’intera comunità172: apertis verbis, agirebbero come free riders173, cioè sfruttando

gratuitamente gli sforzi collettivi degli altri, senza contribuirvi.

Gli studi della Ostrom, pur confermando implicitamente che i commons – se non opportunamente regolamentati – siano ineluttabilmente destinati ad essere distratti dalla vocazione comunitaria che li connota, hanno irradiato di nuova luce i beni comuni, consentendo anche alla scienza economica – per la quale rappresentavano un monstrum in grado di scatenare incontrollabili pulsioni egoistiche nell’animo umano – di constatare che un paradigma di gestione informato alla logica comunitaria sia, a determinate condizioni, concretamente attuabile.

In altri termini, all’economista statunitense occorre riconoscere il merito di aver perspicuamente messo in rilievo, per restare nella metafora teatrale, la poliedricità scenica dei beni comuni, dimostrando che questi – se sapientemente diretti – possano interpretare un ruolo diverso da quello, tragicamente drammatico, per il quale erano stati scritturati da Garrett Hardin.