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L’ Euclione moderno: la tragedia dei beni comuni

3. Rivalità e non escludibilità: i beni comuni nel pensiero

3.1. L’ Euclione moderno: la tragedia dei beni comuni

Prima che le tesi della Ostrom irrompessero sul proscenio economico internazionale, imperava la convinzione che la gestione dei beni comuni dovesse essere necessariamente affidata ad un soggetto – pubblico o privato –, ritenendosi assolutamente impossibile – a causa dell’egoismo insito in certa parte della natura umana – che il governo dei commons potesse essere attribuito alle comunità che ne godono delle utilità.

Tale conclusione fu originariamente rassegnata dallo studioso americano – in realtà un biologo e non un economista – Garrett Hardin161 in un celebre saggio scritto

nel 1968, dal titolo “The tragedy of the Commons”162, in cui si affrontava il problema della sovrappopolazione in relazione alla scarsità di risorse del pianeta163.

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A tal riguardo, non può omettersi che autorevole dottrina abbia constatato che «Hardin non fu il primo a notare la tragedia dei beni collettivi: Aristotele molto tempo prima aveva osservato che “ciò che è comune alla massima

quantità di individui riceve la minima cura. Ognuno pensa principalmente a se stesso, e quasi per nulla all’interesse comune.” (Politica, Libro II, cap. 3). La parabola di Hobbes dell’uomo allo Stato di natura è un prototipo della

tragedia delle risorse collettive. Gli uomini cercano il proprio tornaconto e finiscono per lottare l’uno contro l’altro. Nel 1833, William Forster Lloyd (1977) delineò una teoria delle risorse collettive che presumeva l’utilizzo non

accorto delle proprietà possedute in comune. La “tragedia dei beni collettivi.” è stata usata per descrivere problemi

diversissimi fra loro, quali la carestia del Sahel degli anni settanta (Picardi e Seifert 1977), le crisi della legna da ardere in tutto il Terzo Mondo (Norman 1984; Thomson 1977), il problema delle piogge acide (R. Wilson 1985),

l’organizzazione della Chiesa Mormone (Bullock e Baden 1977), l’incapacità del Congresso USA di limitare i

propri eccessi di spesa (Shepsle e Weingast 1984), la criminalità urbana (Neher 1978), i rapporti tra settore pubblico e settore privato nelle economie moderne (Scharpf 1985, 1987, 1988), i problemi della cooperazione internazionale (Snidal 1985) e il conflitto etnico di Cipro (Lumsden 1973). Gran parte del mondo dipende da risorse che sono soggette alla possibilità della tragedia dei beni collettivi». Così, E. OSTROM, Governing the

Commons [Governare i beni collettivi, ed. it. a cura di C.A. RISTUCCIA-G. VETRITTO-F. VELO, Venezia, 2006,

Per poter meglio esporre la questione, il biologo statunitense fece ricorso ad un – poi divenuto celebre – esempio: quello del pascolo aperto a tutti e condiviso da un certo numero di pastori. In siffatta situazione di sfruttamento del bene comune “pascolo”, uno dei pastori avrebbe potuto domandarsi quale utilità gli sarebbe derivata dall’aggiungere al suo gregge, che quotidianamente pascola sul campode quo, un capo di bestiame addizionale. I benefici, evidentemente, sarebbero stati quelli derivanti dai guadagni che avrebbe garantito l’animale aggiuntivo: poiché il pastore è proprietario esclusivo di ogni singolo capo di bestiame, la sua utilità positiva sarebbe stata di +1; invece, per quanto riguarda i costi, questi non sarebbero stati sostenuti esclusivamente dal pastore, poiché maggiormente legati al sovra-sfruttamento del pascolo determinato dall’aggiunta dell’animale, ma sarebbero stati condivisi da tutti gli allevatori adusi a far pascolare il proprio gregge sul campo comune. Pertanto, per colui che ha aggiunto un capo di bestiame alla propria mandria i costi, essendo ripartiti tra tutti i membri della comunità, sarebbero stati di una frazione di -1. Stando così le cose – privatizzazione dei ricavi aggiuntivi, collettivizzazione dei costi –, il pastore egoista concluderà che il comportamento da seguire – poiché più efficiente in senso economico – sarà quello di aggiungere animali al suo gregge sino a quando non avrà occupato ogni angolo del pascolo comune. Tale epilogo comporterebbe ineludibilmente la rovina del bene ed altro non sarebbe che l’atto conclusivo della “tragedia dei beni comuni”

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G. HARDIN, The Tragedy of the Commons, in Science, 162, 1968, pp. 1243-1248. Il predetto saggio di Hardin costituisce ormai un topos classico, sia come argomento a favore della scarsa efficacia della gestione comune, sia come riferimento polemico dei teorici dei beni comuni (L. COCCOLI-G. FICARELLI, The tragedy of the

commons. Guida a una lettura critica, in M.R. MARELLA, Oltre il pubblico e il privato, cit., p. 62). In realtà

l’argomento principale dell’articolo di Hardin verteva su una questione piuttosto differente: la possibilità e

l’auspicabilità di un controllo demografico della popolazione mondiale. Hardin riporta abbastanza acriticamente le tesi di Malthus, elaborate agli inizi dell’Ottocento (quindi in un contesto di crescita della popolazione e utilizzo delle risorse totalmente diverso da quello odierno), senza chiedersi se il problema sia quello della quantità delle risorse, della loro distribuzione o del tipo di produzione che media le risorse stesse in beni di consumo. Dunque la dottrina mostra come nel ragionamento del biologo americano agiscano dei presupposti inesplicati.

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A tal riguardo, non può tacersi che taluni autori (ex pluribus, U. MATTEI, Beni comuni, cit., p. 4) abbiano acutamente osservato che il saggio del noto biologo americano ottenne un successo straordinario per un’idea che in realtà non propugnava. Infatti, la tragedia dei comuni venne tosto letta come una teoria normativa della proprietà privata.

sceneggiata dall’ecologo statunitense: «questa è la tragedia. Ciascun uomo è intrappolato in un sistema che lo costringe ad accrescere la sua mandria senza limiti, in un mondo che è soggetto a limiti. La rovina è la destinazione verso cui tutti gli uomini concorrono, ciascuno perseguendo il proprio interesse, in una società che crede nella libertà delle risorse comuni»164.

Ordunque, secondo Hardin, ogniqualvolta l’uomo, moderno Euclione, sia chiamato a gestire risorse comuni finirebbe – spinto dall’insaziabile istinto di massimizzare le utilità da esse derivanti – per oltrepassare il limite sino a giungere ad un punto di collasso. Proprio l’inevitabile raggiungimento del predetto punto di collasso rappresenterebbe il momento in cui si realizza in tutta la sua drammaticità quella che non ha esitato a definire “tragedia dei beni comuni”. Apertis verbis, la tragedia altro non sarebbe che l’espressione della prevalenza della razionalità individuale rispetto all’interesse sociale della collettività: «nel caso dei beni collettivi o comuni, la situazione è spesso quella di una tensione drammatica tra la libertà degli individui e la distruzione delle risorse comuni: come se la moneta con cui si paga la conquista della libertà (e l’assenza di mediatori gerarchici e sacrali) fosse quella della distruzione delle risorse comuni dalle quali dipende la sopravvivenza delle nostre comunità (come l’ambiente o l’acqua)»165. Orbene, siffatta tensione integra pienamente l’accezione originaria del termine “τραγῳδία”, con il quale si designavano tutte quelle situazioni nelle quali non poteva rinvenirsi una soluzione ottima, perché ogni scelta comportava dei costi rilevanti: non c’era, dunque, nella tragedia una soluzione ottima che fosse tale per tutti.

Ciò atteso, il biologo statunitense approdava alla conclusione per la quale l’unico rimedio possibile alla predetta tragedia sarebbe stato quello di limitare l’accesso ai beni comuni. Tale risultato si sarebbe potuto conseguire assoggettando i commons ad un regime di proprietà pubblica, ovvero attraverso un processo di radicale privatizzazione. Tra le predette opzioni, Hardin propendeva per la prima, ritenendo che la gestione dei beni comuni avrebbe potuto condurre a un epilogo

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G. HARDIN, The Tragedy of the Commons, cit., p. 1244.

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meno drammatico di quello prospettato solo mediante l’intervento dello Stato. Invero, secondo l’ecologo statunitense, non si sarebbe potuto pretendere che una moltitudine desiderante di individui, dominata da un incontrollabile egoismo, si organizzasse in maniera orizzontale e con procedimenti sostanzialmente democratici, occorrendo la presenza di un organismo forte alla cui autorità tutti avrebbero soggiaciuto: in altri termini, era necessario che dallo Stato di natura, in cui la vita è anarchica, selvaggia e pericolosa, si passasse a uno Stato civile, consegnando i propri diritti in mano a un sovrano con un potere illimitato. I consociati, cioè, incapaci di limitarsi da soli in quanto votati all’utile, avrebbero dovuto concedere il potere a una istituzione che attraverso la coercizione e l’eteronomia guidasse le scelte della collettività.166

Negli anni successivi, l’approdo cui giunse Hardin è stato ampiamente condiviso tanto dagli economisti di scuola monetarista quanto da quelli di scuola keynesiana. Tuttavia, mentre i primi parteggiavano per la necessaria privatizzazione dei commons167, i secondi – aderendo in toto alle tesi dell’ecologo di Dallas –

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In tal senso, anche L. COCCOLI-G. FICARELLI, The tragedy of the commons, cit., p. 66.

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Secondo i monetaristi, l’unica via per evitare la tragedia sarebbe quella della privatizzazione. Sul punto, si veda R. J. SMITH, Resolving the Tragedy of the Commons by Creating Private Property Rights, in Wildlife, 1981, p. 467, a parere del quale «l’unica via per evitare la tragedia dei beni collettivi, nella preservazione dell’ambiente e della fauna, è sopprimere il sistema della proprietà collettiva, attraverso la creazione di un sistema di diritti di proprietà privata». L.’A. ha sottolineato che «è proprio considerando una risorsa come proprietà collettiva che siamo trascinati verso la sua inesorabile distruzione» (op. cit., p. 465). Nel medesimo senso, interessanti sono le riflessioni di W.P. WELCH, il quale appoggiava la creazione di diritti interamente privati sulle risorse collettive asserendo che «l’istituzione di diritti esclusivi di proprietà privata è necessaria per evitare l’inefficienza dello sfruttamento eccessivo» (W.P. WELCH, The Political Feasibility of Full Ownership Property Rights: The Cases of

Pollution and Fisheries, in Policy Sciences, 1983, p. 171).

Critico si pone U. MATTEI, Beni comuni, cit., p. V, il quale osserva che «in un processo di privatizzazione il governo non vende quanto è suo, ma quanto appartiene pro quota a ciascun componente della comunità, così come quando espropria un campo per costruire un’autostrada esso acquista (coattivamente) una proprietà che non è sua. Ciò significa che ogni processo di privatizzazione deciso dall’autorità politica attraverso il governo pro tempore espropria ciascun cittadino della sua quota parte del bene comune espropriato, proprio come avviene nel caso dell’espropriazione di un bene privato». Dunque, «consentire al governo in carica di vendere liberamente beni di tutti (beni comuni) per far fronte alle proprie necessità contingenti di politica economica è, sul piano costituzionale, tanto irresponsabile quanto lo sarebbe sul piano familiare consentire al maggiordomo di vendere l’argenteria migliore per sopperire alla sua necessità di andare in vacanza (...); il governo dovrebbe essere il servitore del popolo sovrano, e non viceversa. Certo, il maggiordomo (governo) deve poter disporre dei beni del suo padrone

ritenevano che la gestione degli stessi dovesse essere affidata allo Stato o all’ente pubblico più prossimo agli individui che avrebbero goduto delle utilità del common. Dunque, a prescindere dal soggetto – privato o pubblico – cui ne sarà affidata la governance, per entrambe le correnti di pensiero l’ottimo paretiano avrebbe potuto esser raggiunto soltanto conferendo lo sfruttamento del bene comune ad un soggetto capace di gestire la risorsa economica massimizzando i profitti e riducendo le perdite, secondo il classico approccio economico “costi-benefici”, riconducibile alla logica dell’homo oeconomicus.