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Utopia o Itaca? La società tridimensionale dei beni comuni

2. Tra personalismo e solidarismo: un nuovo modo di possedere

2.1. Utopia o Itaca? La società tridimensionale dei beni comuni

Non pare si possa negare che nella coeva temperie storica i rapporti di proprietà costituiscano le relazioni di potere intorno alle quali è edificata la modernità: tanto sul piano individuale, quanto su quello sociale, essi sono divenuti preponderanti nella definizione della sfera di potere e libertà di ciascuna soggetto. L’individuo sembra non essere più caratterizzato dall’essere ma dall’avere: mentre per Cartesio ciò che qualificava l’esistenza umana era il pensiero, l’attività cognitiva, oggi si assiste all’imperare della logica esasperatamente materialista dell’habeo ergo sum, per la quale il rilievo da assegnare a ciascun consociato si inferisce dal potere contrattuale di questo; dalle possibilità economiche; dalla consistenza patrimoniale. Il ruolo di primo attore assunto dalla proprietà sul proscenio del sistema di valori personali e sociali della modernità ha facilitato non solo l’espansione del capitalismo, ma anche la diffusione dell’individualismo, inteso quest’ultimo come tendenza generale a far prevalere gli interessi personali sulle esigenze della collettività, ovvero come inclinazione individuale dei singoli a considerarsi indipendenti dal proprio gruppo sociale. D’altronde, lo stesso modello statuale collude con l’espansione capitalistica, di cui l’«individualismo liberale borghese a sfondo accumulativo» rappresenta «il necessario sostrato esistenziale»144.

predominio della proprietà solitaria. Non è tanto un ritorno a “un altro modo di possedere”, ma la necessaria costruzione dell’opposto della proprietà».

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Cfr. F. RIMOLI, Universalizzazione dei diritti fondamentali e globalismo giuridico: qualche considerazione critica, in «Studi in onore di G.Ferrara», III, 2005, p. 323.

Orbene, a siffatta logica dell’“avere” e al modello dell’accumulazione, il comune contrappone la dimensione dell’“essere”, dell’“esser parte di” qualcosa: un intervento del legislatore volto a conferire tridimensionalità all’architettura ordinamentale comporterebbe anche il mutamento della declinazione dell’interesse, il quale sarebbe «certamente ciò che mi interessa, ma anche ciò che interessa agli altri, e ciò che sta tra di noi (inter-esse) e ci consente di incontrarci nello scambio»145. Icommons, pertanto, assurgono – almeno secondo i teoreti degli stessi – a categoria relazionale mediante la quale l’individuo è ricondotto entro una comunità e nelle relazioni con gli altri, poiché l’auto-realizzazione passa necessariamente attraverso l’esperienza dell’alterità146. I beni comuni costruiscono sistemi di produzione in comunità e contestualmente producono la comunità stessa: sicché, tra commons e comunità sussisterebbe una relazione perfettamente biunivoca. Infatti, una comunità sarebbe tale proprio in ragione dei legami sociali di solidarietà che esistono o dovrebbero instaurarsi in funzione della fruizione dei beni comuni: vi sarebbe, dunque, tra i concetti in discorso un legame autopoietico, poiché l’uno risulta costitutivo dell’altro e viceversa. Pertanto, un bene può dirsi “comune” se destinato a produrre utilità per un’intera comunità ed, al contempo, può discorrersi di “comunità” – e non di moltitudine indistinta di individui – soltanto quando sia ravvisabile una gestione delle risorse comuni informata al principio solidaristico: è il nesso tra il bene (che ha un valore in sé) e l’attributo (che è utile a soddisfare bisogni di più soggetti) a definire il binomio, perché rivela il costituirsi di relazioni tra persone che accettano di prendersi in carico un dono (munus) che obbliga a vincoli morali di reciprocità (cum) verso il donatore e gli altri beneficiari.

L’assegnare cittadinanza giuridica nel nostro ordinamento ai commons consentirebbe, a detta di numerosi autori, di transitare verso «un’altra narrativa,

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Sono parole di L. BRUNI, Le nuove virtù del mercato, nell’era dei beni comuni, Roma, p. 119.

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Martin Buber – nella sua opera più celebre, “Ich und Du” – sottolinea l’importanza della relazione Io-Tu. Secondo il filosofo, l’Io autentico (la persona) si costituisce unicamente rapportandosi con le altre persone – sullo sfondo vi è la lezione hegeliana (Fenomenologia dello Spirito) dell’autocoscienza che si relaziona ad altre autocoscienze –, giacché l’Io “si fa Io solo nel Tu”; né l'Io, né il Tu vivono separatamente, ma essi esistono nel contesto Io-Tu, antecedente la sfera dell'Io e quella del Tu.

secondo la quale prima vengono gli interessi di tutti (umani e non), concepiti come un ecosistema di relazioni di reciproca dipendenza, e solo successivamente gli interessi individuali. Poiché gli individui non sono neppure materialmente concepibili come monadi isolate […], i beni comuni smascherano gli assunti irrealistici dell’individualismo borghese. Il loro riconoscimento promuoverebbe la costruzione di un immaginario comune in cui la libertà individuale va considerata come parte del mondo dell’essere, consistente nella facoltà di accedere e godere dei beni comuni e delle relazioni sociali comunitarie (e politiche) che essi rendono possibili. La libertà nell’essere va nettamente separata dalla brutale soddisfazione degli appetiti acquisitivi dell’avere per accumulare»147.

Benché sia innegabile che il modello societario dianzi affrescato sarebbe più coerente con l’ordito costituzionale, il civilista è chiamato a verificare se sussistano i presupposti teoretici per realizzare l’invocata società tridimensionale oppure se il retroterra ideologico sotteso ai commons – pur essendo assiologicamente convergente al portato dell’opera di redazione del Costituente – risulti in concreto intraducibile in linguaggio normativo.

Apertis verbis, occorre che lo studioso del diritto civile si domandi se la meta verso la quale molti vorrebbero dirigere la rotta sia l’anelata Itaca di Ulisse – intesa come destinazione cui approdare all’esito di un tanto travagliato quanto proficuo itinerario ermeneutico – oppure l’isola di Utopia di Thomas More, tanto ammaliante quanto irraggiungibile.

A tal riguardo, occorre preliminarmente osservare, prescindendo da ogni valutazione circa la concreta configurabilità della dimensione del comune, che i commons, essendo portatori di un gene recessivo soccombente al cospetto di quello dominante che informa le dinamiche proprie del moderno capitalismo, necessitano di un’adeguata regolamentazione affinché possano essere effettivamente goduti dalla moltitudine dei consociati e, conseguentemente, risultare funzionali alla promozione dei diritti fondamentali: traspare, infatti, con folgorante chiarezza che

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vi sia una forte, quasi antitetica, tensione tra la logica inclusiva propria dei beni comuni e quella acquisitivo-appropriativa che connota il mercato, «che tende a immettere ogni cosa nell’abituale condizione della merce, assecondando così uno scivolamento in atto del diritto nelle braccia dell’economia, dell’eteronimia del contratto»148. Pertanto, nell’età del virtuale, la vocazione comunitaria – lungi dall’esser spontaneamente assecondata – è in grado di resistere al tumultuoso impeto di coloro che vorrebbero snaturarla, per destinarla al perseguimento di interessi egoistici, soltanto in forza di una disciplina all’uopo predisposta: mutuando un’espressione del lessico faunistico, potrebbe asserirsi che icommons siano fattispecie protetta, che senza una calibrata regulation sarebbe ineluttabilmente destinata all’estinzione. Invero, in una società intessuta su legami sociali quanto mai flebili, una risorsa può essere “comune” soltanto laddove il legislatore disponga espressamente in tal senso.

Dunque, invocare il riconoscimento dei beni comuni non significa – come pure da taluni sostenuto – chiedere al diritto di fare un passo indietro, di restare sull’uscio. I beni comuni, infatti, non sono luoghi di non diritto, bensì necessitano di una sapiente regolamentazione, la pretendono, non potrebbero in alcun modo farne a meno, poiché, in rerum natura, un bene ontologicamente proteso al soddisfacimento di interessi collettivi finirebbe ineludibilmente, in assenza di norme che ne assecondino – rectius, ne garantiscano – tale vocazione, per essere distratto dalla destinazione comunitaria, travolto dalle logiche di mercato.

Proseguendo lungo il solcato sentiero argomentativo, non risulta arduo asserire cherebus sic stantibus la dimensione del comune possa soltanto essere scorta in lontananza, auspicandosi al più che la struttura ordinamentale sia quanto prima tratteggiata dal legislatore adottando la tecnica prospettica che rese celebri le opere del Brunelleschi. Ed è qui che si innesta l’improbo cimento cui è chiamato il giurista: questi è tenuto a verificare se l’idea del comune possa esser proficuamente traslitterata nella grammatica giuridica.

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Orbene, onde tentare di fornir risposta al predetto quesito, non può prescindersi dall’indugiare su alcune tra le più accreditate ricostruzioni dogmatiche del concetto di cui si discorre.