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2. La proprietà nell’ordinamento cinese: tra retaggio socialista e capitalismo

2.1. La proprietà collettiva in Cina

La Costituzione della Repubblica Popolare cinese include nella categoria generale della “proprietà pubblica” la proprietà statale e quella collettiva, senza però offrire alcuna definizione in merito a quest’ultima forma, sebbene la menzioni in numerose disposizioni.

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A tal riguardo, è stato affermato che l’indeterminatezza che connota la disciplina proprietaria ben potrebbe

essere considerata come il “lubrificante” che abbia consentito al sistema economico cinese di funzionare. In tal

senso, ex multis, P. HO, Who Own’s China Land?, cit., p. 400; A. SERAFINO, op. ult. cit., p. 578, il quale ha sostenuto che «l’ambiguità delle regole consente di conseguenza al sistema del regime giuridico relativo alle terre di funzionare efficacemente nei vari stadi di sviluppo della riforma economica. Non pare, di conseguenza, fuori luogo parlare di una sorta di deliberata ambiguità del dato legale e delle norme concernenti le relazioni istituzionali, le quali, in attesa di pagare un probabile tributo in termini di conflitti sociali futuri, per il momento consentono al sistema economico e giuridico di plasmarsi secondo le contingenze politiche di medio termine». Più in generale, altri autori sottolineano che la mancanza di riforme “democratiche” nella Cina contemporanea possa esser ritenuta come uno dei fattori che hanno maggiormente contribuito all’impetuoso sviluppo economico del colosso orientale. In questo senso, M.E. GALLAGHER, Reform and Opennes: Why China’s Economic Reforms

have Delayed Democracy, 54 World Politics 338 (2002).

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Orbene, la previsione – accanto a quella statale ed a quella privata – della proprietà collettiva rappresenta una tra le più paradigmatiche infiltrazioni normative dell’ideologia comunista. A tal riguardo, è d’uopo rilevare che subito dopo la vittoria dei comunisti maoisti sulle forze nazionaliste venne avviato un processo, parzialmente invertito soltanto a partire dal 2004, finalizzato a ridurre sensibilmente – mediante confische ed espropriazioni295 sovente poste in essere con modalità tutt’altro che garantiste – la diffusione della proprietà solitaria, proudhonianamente concepita comedemone borghese, nonché, specularmente, ad ampliare l’estensione di quella pubblica e, in particolare, di quella collettiva. Invero, quando il partito comunista proclamò, nel 1949, la nascita della Repubblica Popolare Cinese, la distribuzione delle terre era tutt’altro che equanime: mentre i ricchi latifondisti – che rappresentavano meno del 10% della popolazione – occupavano il 70-80 % dei terreni agricoli, più della metà della popolazione, costituita da contadini poveri, era costretta, per sostentarsi, a prendere in affitto dei fondi.

Per far fronte a siffatta situazione il governo centrale promulgò nel 1950 la “Legge di riforma della terra della Repubblica Popolare Cinese”, in forza della quale confiscò ai facoltosi proprietari terrieri i fondi, gli attrezzi, il bestiame e le case.

La fase successiva del processo di cui si discorre, completata nel 1952, si concretò nella riassegnazione, attuativa del celebre precetto marxiano per il quale «a ognuno secondo i suoi bisogni»296, di circa 700 milioni di mu di terre ad oltre 300 milioni di contadini poveri.

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Per vero, non può tacersi che a tutt’oggi le procedure espropriative non garantiscano in Cina adeguata tutela al

cittadino. A tal riguardo, è stato sostenuto che negli ultimi anni la confisca delle terre ai contadini da parte dei funzionari locali sia diventata una delle maggiori cause di instabilità sociale. Invero, dalle poche statistiche esistenti in merito emerge che oltre 70 milioni di contadini siano stati privati delle loro terre e che, nel solo 2006, le autorità locali abbiano espropriato circa 200mila ettari per edificare fabbriche o immobili per abitazioni o uffici, riconoscendo ai contadini indennizzi irrisori. In tal senso, J. YARDLEY, Farmers being moved aside by China’s

real estate boom, New York Times, internet ed., 8. 12.2004.

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A tal proposito, si noti che l’asserzione «ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni» resa

Conseguenza di siffatta, imponente, opera di ridistribuzione – posta in essere «mediante piani di assegnazione più o meno regolamentati»297 – fu un costante aumento della produzione agricola, la quale subì un incremento annuo medio del 13.14% tra il 1949 ed il 1952.

Tuttavia, ben presto si comprese che la coltivazione frammentata ponesse delle invalicabili restrizioni all’aumento della produzione. Di talché, il governo decise di organizzare i contadini in “Gruppi di mutuo aiuto”298(GMA), ossia corpi intermedi composti da più famiglie dello stesso villaggio, le quali riunivano lavoro, attrezzi e animali al fine di incrementare la produzione agricola. A tal riguardo, non può omettersi che la costituzione di tali gruppi non sia stata la tappa che ha scandito la transizione verso una proprietà collettiva, poiché i proprietari dei fondi continuarono a conservare la titolarità degli stessi.

Se fino al 1952 i provvedimenti adottati dal governo cinese furono diretti a demolire la grande proprietà privata, a partire da tale anno si diede inizio al processo dicollettivizzazione della proprietà rurale: a questo proposito, deve rilevarsi che siffatta opzione politica prendeva le mosse dalla convinzione – assai diffusa tra i quadri del partito comunista – per la quale la piccola economia contadina non fosse «in grado di fornire prodotti alimentari e capitali sufficienti per lo sviluppo del settore industriale»299.

297

Così M. MAURO, Decentramento e governo locale nella Repubblica Popolare Cinese, Milano, 2009, p. 86.

298

I gruppi di mutuo aiuto «non erano altro che una ufficializzazione della consuetudine, da parte di un numero di famiglie dello stesso villaggio, di solito unite da vincoli di parentela, di mettere insieme lavoro, attrezzi e animali da tiro durante i periodi di intensa attività». Sono parole di M. GIURA LONGO, Contadini, mercati e riforme. La

piccola produzione di merci in Cina, Milano, 1998, p. 104.

299

Così M. GIURA LONGO, op. ult. cit., p. 100, ove si evidenzia come in seno al partito comunista non vi fosse unanimità di vedute in ordine alle modalità mediante le quali attuare la collettivizzazione: «sebbene tutti i quadri

del partito comunista fossero d’accordo nel ritenere che la collettivizzazione dell’agricoltura fosse il fine ultimo

della rivoluzione comunista, non tutti, però, erano convinti, come Mao, che questo passaggio dovesse esser realizzato al più presto possibile. Alcuni dirigenti, come Liu Shaoqi, allora presidente della Repubblica popolare,

avevano un’opinione diversa. Questa corrente, che chiameremo dei moderati, temeva le conseguenze di una rapida

collettivizzazione in Cina, a causa della perdita di incentivi che questo nuovo sistema avrebbe comportato per i

contadini. Essi ritenevano perciò che la proprietà privata della terra dovesse essere mantenuta finché l’economia

non si fosse ristabilita, e che il governo dovesse promuovere ed incoraggiare gli investimenti diretti dei contadini, allo scopo di migliorare il tenore di vita nelle campagne. […] Dall’altra parte, la corrente maoista o radicale

Il processo di collettivizzazione – lungi dall’essere attuato, come nell’Unione Sovietica, in maniera radicale – fu progressivo e si articolò in vari passaggi300. Dapprima, infatti, il governo invitò, appellandosi alla necessità di soddisfare superiori esigenze di carattere nazionale, i contadini ad unirsi in collettivi organizzati, noti come “cooperative elementari di produttori” (CEP). Tratti salienti della disciplina di tali formazioni sociali erano essenzialmente tre: 1) i contadini rimanevano formalmente proprietari delle terre che avevano assegnato alle cooperative301, ma le determinazioni riguardanti l’utilizzo e la gestione dei fondi de quibus competevano esclusivamente agli organi deliberativi della cooperativa, i quali erano a loro volta sottoposti ad una stretta supervisione da parte di funzionari del partito; 2) alla fine di ogni anno le cooperative distribuivano – non prima di averne versato una consistente quota allo Stato – il raccolto tra gli individui membri; 3) ai contadini era riconosciuta la facoltà di abbandonare la forma di organizzazione collettiva in discorso.

Orbene, la costituzione delle “cooperative elementari di produttori”, pur consentendo ai contadini individualmente intesi di conservare formalmente la proprietà dei terreni agricoli, inflisse un duro colpo alle prerogative proprietarie, poiché attribuiva ai membri della collettività il diritto di prendere decisioni in ordine

credeva che la collettivizzazione avrebbe incontrato minori resistenze tra i contadini se fosse stata realizzata il più velocemente possibile. In particolare Mao temeva che, con la ridistribuzione della terra e con un sistema di mercati privati rurali in funzione, vi fosse già in atto, nelle campagne cinesi, un processo di trasformazione capitalista. Questo processo doveva essere fermato con la collettivizzazione della proprietà privata, portando così a compimento la rivoluzione socialista nelle campagne. Inoltre, Mao era convinto che ciò avrebbe favorito la

risoluzione di problemi quali la povertà e l’ineguaglianza nelle zone rurali».

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In ordine al processo di collettivizzazione della proprietà rurale messo in atto in Cina, si è osservato che «questo

fu alquanto diverso da quello di altri paesi socialisti, ed in particolare da quello dell’Unione Sovietica, dove la

collettivizzazione fu imposta con metodi violenti e coercitivi». M. GIURA LONGO, op. ult. cit., p. 91. Tuttavia, non può tacersi che parte della storiografia moderna abbia superato la tralatizia ricostruzione del processo di

collettivizzazione messo in atto in Cina e sostenga che «il “grande balzo in avanti” dell’agricoltura cinese,

promosso da Mao Zedong, fu tentato con una incompetenza pari al disprezzo per le vite umane: essa risultò in un crollo drammatico della produzione agricola e una conseguente carestia, che mieté diverse decine di milioni di vittime civili». Così G. GIARDINA, Lettere a politici e intellettuali, Bologna, 2008, p. 36.

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Infatti, la cooperativa versava mensilmente un affitto ai proprietari della terra, degli attrezzi e degli animali

all’impiego del fondo, nonché quello di riservarsi una significativa quota del raccolto.

Nel 1954, con l’introduzione della c.d. “cooperative avanzate di produzione”, venne compiuto un altro, decisivo, passo verso il completamento dell’innescato iter di collettivizzazione. Con le cooperative avanzate, infatti, l’adesione all’organizzazione collettiva divenne obbligatoria: mentre in precedenza i contadini erano stati – non già coartati, bensì – invitati a prender parte ai corpi intermedi di cui si discorre, a partire da tale momento la partecipazione agli stessi diventò obbligatoria. Naturaliter, l’ingresso dei contadini nelle cooperative avanzate comportava ipso iure il trasferimento della proprietà delle terre di cui erano titolari alla formazione sociale di cui erano divenuti membri.

L’imposizione di tale forma di organizzazione societaria segnò un epocale cambiamento nella storia – non soltanto giuridica – cinese: invero, nelle aree rurali la proprietà privata venne integralmente soppiantata da quella collettiva.

L’opera di collettivizzazione venne ultimata nel 1958, quando furono istituite – nell’ambito della riforma c.d. “Grande balzo in avanti”, promossa da Mao Tse-tung allo scopo di raggiungere un livello di sviluppo pari a quello del Regno Unito nell’arco di 10 anni – le c.d. Comuni Popolari. Queste ultime, che presero il posto delle preesistenti amministrazioni distrettuali, divennero «l’unità di base della struttura sociale cinese302, riunendo industria, agricoltura, affari militari, commercio, istruzione»303 e, in pochi mesi, finirono per ricomprendere la quasi totalità della popolazione rurale.304

302

A questo proposito, è stato opportunamente rilevato che «nella storia del diritto cinese le situazioni di appartenenza della terra sono sempre state fortemente intrecciate con la disciplina giuspubblicistica. Anche in epoca anteriore alla fondazione nel 1949 della Repubblica popolare cinese, le autorità prima imperiali e poi

nazionaliste non disdegnarono di utilizzare, a fini di mantenimento dell’ordine pubblico nelle vaste aree rurali del

Paese, organi informali – a cavallo tra il diritto non ufficiale e quello semi-ufficiale – di amministrazione locale del livello di base». Cfr. M. MAURO, Decentramento e governo locale nella Repubblica Popolare Cinese, cit., p. 86.

303

A. CAVAZZINI, Zizek presenta Mao. Sulla pratica e sulla contraddizione, Roma, 2009, p. 149.

304

Orbene, in un paio di mesi la popolazione contadina venne comunizzata nella sua quasi totalità: le oltre 740.000 cooperative di produzione agricola si riunirono in 26.000 Comuni popolari comprendenti 120 milioni di famiglie,

Nell’intento degli artefici della riforma, le Comuni avrebbe dovuto «realizzare la collettivizzazione della vita, comprese le forme più elementari dell’esistenza umana […] e con ciò preparare il passaggio dal sistema socialista a quello comunista»305.

Orbene, gli elementi strutturali connotanti “l’unità di base” – rectius, vero e proprio, attesane la capillare diffusione, seminarium rei publicae – dell’ordinamento cinese erano due.

Innanzitutto, nell’ambito delle Comuni ogni res era oggetto di proprietà collettiva: non solo la terra, il bestiame e gli altri capitali di produzione, bensì anche i beni personali, come i letti e i tavoli. Dunque, tratto caratterizzante di siffatto paradigma di organizzazione sociale fu rappresentato dalla collettivizzazione della proprietà dei beni dei membri della stessa: sicché, in Cina l’archetipo dei diritti reali venne privato del carattere più connotante, di quello più immediatamente – se non agli occhi dei giuristi, certamente nella sfera laica – percepibile: l’esclusività, vero e proprio stigma proprietario sin dagli albori della modernità giuridica. Tuttavia, non deve erroneamente ritenersi che tutti gli individui fossero titolari del diritto di accedere ai fondi trasferiti ad una Comune, poiché tale diritto era riconosciuto soltanto ai membri di quest’ultima: apertis verbis, dall’appartenenza ad una determinata collettività discendeva la facoltà di poter usufruire dei beni della stessa. Pertanto, il carattere dello ius excludendi, lungi dall’essere espunto dal genoma proprietario, venne riplasmato alla stregua delle esigenze di un’organizzazione che si proponeva la collettivizzazione di ogni aspetto dell’esistenza umana: “omnes alios” non sarebbero più stati i soggetti diversi dal proprietario, ma coloro che non appartenevano ad una data comunità. Sicché, nell’opera di finium regundorum dell’ambito applicativo dello ius excludendi, il criterio dell’alterità individuale cedette il passo a quello dell’appartenenza ad una compagine sociale.

oltre il 99% del totale. Il numero delle Comuni, in seguito a suddivisione, sarebbe poi stato portato a 74.000, cifra

che nel ‘59 scese a 24.000.

305

Quanto alla gestione delle risorse condivise, in virtù di siffatta impostazione, competeva ai vertici della Comune prendere decisioni in ordine alla loro utilizzazione, nonché quelle riguardanti la produzione agricola e la distribuzione dei profitti derivanti dal lavoro dei consociati.

In secondo luogo, è indispensabile rilevare che nelle Comuni vigesse un principio di eguaglianza formale306 assolutamente inderogabile: era prescritto, infatti, che i membri delle stesse dovessero godere di un identico tenore di vita. Segnatamente, i consociati erano divisi in piccoli gruppi in ragione del sesso e della condizione fisica e ad ognuno di essi erano riconosciuti i medesimi compensi, prescindendo da ogni valutazione in ordine alle capacità dei singoli ed al contributo da ciascuno concretamente apportato al processo produttivo.

Orbene, un’eguaglianza così configurata finì ineludibilmente per soffocare ogni afflato di giustizia sociale, per ledere intollerabilmente la dignità umana. A tal riguardo, non può omettersi che, al fine di salvaguardare in maniera effettiva la persona, non sia sufficiente proclamare l’astratta eguaglianza di tutti gli individui, bensì occorra spingersi oltre. Invero, un’eguaglianza formale cui per nessuna ragione – ancorché palmarmente meritevole di tutela – sia possibile derogare è incontrovertibilmente destinata a rivelarsi un’eguaglianza cieca, insensibile ai bisogni della persona; un’eguaglianza perniciosa, in quanto causa di rancori e tensioni sociali; un’eguaglianza tiranna, poiché pretende che a situazioni tra loro diseguali sia irragionevolmente riservato il medesimo trattamento.

Conseguenza dell’edificazione dell’organizzazione sociale imposta dai vertici del partito comunista, nella quale la coesione fra gli individui era labilmente cementata da un’eguaglianza inane, fu la repressione di ogni slancio dei più capaci, la soppressione dell’entusiasmo dei più laboriosi, la sterilizzazione dell’impeto dei più ardimentosi: infatti, poiché la disciplina delle Comuni prevedeva che tutti i membri

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Tuttavia, non può tacersi che «rispetto all’uguaglianza dei salari fra uomini e donne si aprì un acceso dibattito: il cambiamento strutturale […] non era stato sufficiente a giustificare un’eguale retribuzione (benché raccomandata

dalla leadership); infatti lavoratori e lavoratrici, se non il loro lavoro, continuavano ad essere considerati sostanzialmente diversi». S. ONGARO, Le donne e la globalizzazione, Roma, 2001, p. 79.

dovessero godere del medesimo tenore di vita, gli sforzi personali, il pluslavoro, furono significativamente disincentivati.

Di talché, nella storiografia contemporanea molto accreditata è la tesi per la quale la collettivizzazione sarebbe stata la causa principale – ma non l’unica – della drastica diminuzione della produzione alimentare che si registrò in quegli anni307: invero, nel 1959 il raccolto diminuì del 15% e nel 1960 di un ulteriore 10%. In ragione di siffatto drammatico crollo della produzione agricola, sulla Cina si abbatté una carestia che, tra il 1960 e il 1963, mietette oltre 20 milioni di vittime. Pertanto, la collettivizzazione della proprietà e, più in generale, di ogni aspetto dell’esistenza della popolazione rurale – lungi dal favorire, come paventato da Mao Tse-tung, la risoluzione di problemi quali la povertà e la diseguaglianza – si rivelò un esperimento socio-economico del tutto fallimentare.

Ad onta delle nefaste conseguenze eziologicamente riconducibili all’istituzione delle Comuni popolari, queste furono soppresse soltanto agli inizi degli anni ’80308, una volta che fosse tramontata l’era maoista.

Tuttavia, nel ridelineare la disciplina della proprietà rurale, il legislatore cinese preferì optare, in ragione del preminente rilievo strategico a questa ecumenicamente riconosciuto nell’ambito del sistema di produzione della ricchezza, per una forma di appartenenza collettiva, riservando allaproprietà solitaria – almeno rispetto ai beni in discorso – un ruolo poco più che marginale: invero, si stabilì che, ove non diversamente previsto, le terre site nelle aree rurali e nelle aree suburbane dovessero essere oggetto di proprietà collettiva e, dunque, appartenere alle collettività contadine.

Orbene, in forza di quanto disposto dalla “Legge sull’Amministrazione della Terra”, il “collettivo dei contadini” (nongmin jiti), composto da tutti i membri di un villaggio, era titolare del diritto di proprietà sui fondi, mentre all’“organizzazione

307

«Durante le ultime fasi della collettivizzazione, e soprattutto negli anni del grande balzo in avanti (1958-59), quando il settore privato venne improvvisamente e bruscamente abolito nelle zone rurali, le condizioni di vita nelle

campagne furono seriamente compromesse e molte zone furono colpite da fame e carestie, mentre l’intero paese

sprofondò in una grave crisi agricola». Così M. GIURA LONGO, Contadini, mercati e riforme, cit., p. 91.

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economica collettiva” (jiti jingji zhuzhi) ed al “comitato dei contadini” (cunmin weiyuanhui) era attribuito il potere di gestione degli stessi: apertis verbis, le decisioni in ordine alle modalità di impiego dei beni collettivi erano prese – non già da tutti i contadini, bensì – dai due predetti organi.

Quanto alle possibili destinazioni dei fondi delle comunità rurali, deve osservarsi che, a partire dal 1978, sia stato introdotto il c.d. “sistema di responsabilità per contratto”, ritenuto da accreditata dottrina cinese «il perno su cui è stata impostata la riforma agricola»309. In virtù di tale istituto, una famiglia poteva acquistare, mediante un contratto all’uopo predisposto, il diritto di usufrutto di un praedium di proprietà della collettività. Diverse erano le situazioni giuridiche nascenti dalla stipulazione del predetto accordo: innanzitutto, la famiglia acquirente era obbligata a pagare un’imposta agricola ed a cedere una determinata quantità di derrate allo Stato ad un prezzo stabilito; inoltre, la collettività – che conservava la proprietà del fondo – aveva il diritto di ritenere una quota dei prodotti agricoli; da ultimo, la famiglia affittuaria era titolare esclusiva del raccolto rimanente (che avrebbe potuto utilizzare per sostentarsi oppure vendere al mercato libero)310.

Pare opportuno aggiungere che la “Legge sull’Amministrazione della Terra”, così come modificata nel 1998, abbia statuito che la collettività avrebbe potuto affittare i fondi anche a soggetti che non fossero membri del villaggio, all’uopo

309

In tal senso, ex multis, CHANG, Rural Responsibility Production Contracts, in Law & Contemp. Problems, 52, Summer 1989, p. 101.

310

«Definito quale “usufrutto contrattuale” per distinguerlo dall’istituto precedente dotato di una fonte esclusivamente normativa, esso prevedeva uno schema nel quale i diritti e le responsabilità potevano sensibilmente variare a seconda dell’accordo, fatti salvi in ogni caso i diritti dell’usufruttuario “per contratto” (chengbaoren) di occupare e di godere delle utilità ricavate dalla gestione della terra, libero dall’ingerenza altrui ma sempre soggetto al rispetto della titolarità pubblica del bene, della protezione dell’ambiente e delle relazioni intercorrenti tra il