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Elisabetta Trincherini — Università degli Studi di Ferrara

Fig. 1 — Raffaello Giolli, «Problemi d’ar- te attuale», copertina, 1927.

de. Anche l’utilizzo dell’estetica crociana, di cui, professandosi alfieri, si dimostrano conoscitori profondi ma allo stesso tempo e forse anche per questo sufficientemente autonomi, è terreno condiviso ai due.

La ragione della presentazione di un confronto di questo tipo nell’ottica del presente convegno risiede nel comune punto d’arrivo di molti dei ragionamenti che Giolli e Ragghianti vanno parallelamente dipanando ed è da ricercarsi nell’idea che la cultura e le arti si qualifichino come uno strumento politico di civilizzazione. La bellezza del quotidiano, dal cuc-

chiaio alla città si sarebbe detto dopo, a loro giudizio deve avere l’obiettivo

dichiarato di intercettare necessità individuali e collettive, la rivoluzione culturale può e deve muoversi in parallelo a quella sociale.

Sempre poco praticata è stata in Italia l’idea che il patrimonio artistico, dal quale entrambi muovono in maniera concreta attraverso la loro attività teorico-critica, e per estensione le arti tutte, siano il risultato delle passioni dell’umanità, e che quindi si possa di fatto pensare l’arte come espressione di civiltà tout court, ascrivendole una ineliminabile componente etico-politica. Questo assunto, poiché concepito e professato parallelamente al formarsi e consolidarsi delle dittature europee, acquisi- va valenze anche più significative, finendo per far coincidere il patrimo- nio artistico-architettonico e paesaggistico, e il rapporto che si instaura con esso, con la famosa «indipendenza e libertà dello spirito» intuita da Persico nella sua celebre Profezia [1].

L’ultimo tratto, ma non meno significativo, che accomuna i due critici è la loro fine, drammatica la morte di Giolli il cui convincimento, a partire dalla sua idea civile di tutela dell’arte, lo porta come conseguenza diretta a farsi partigiano [2] col nome di “Giusto” (pseudonimo utilizzato già in precedenza per firmare articoli): sarà deportato e morirà a Mau- thausen. Meno tragica ma ugualmente meschina (“il caso Ragghianti” definito da Bruno Zevi alla Camera dei Deputati quando volle ricordarlo, il 5 agosto 1987 a due giorni dalla morte) è la parabola del critico lucchese che ha coinciso con un’emarginazione tanto del critico quanto del politi- co, aspetti questi che in lui è assai poco verosimile pensare di separare: «Tra questi due poli, storia dell’arte e lotta per la libertà, Ragghianti, pur religiosamente crociano, non fece distinzioni» [3].

La redazione di Casabella oltre a essere il luogo in cui Ragghianti incontra Giolli [4] è anche il luogo in cui Ragghianti conosce Persico, [5]

Fig. 2 — Edoardo Persico, copertina di “Profezia dell’ar- chitettura”, Milano, Muggioni Tipografo, 1945.

che vedrà una volta soltanto prima della di lui prematura scomparsa. Giolli aveva già conosciuto il critico di origine napoletana alla Galleria Bardi: stando alle testimonianze della moglie, Rosa Giolli Menni [6], è proprio il marito a introdurre Persico a Giulia Veronesi che di Giolli era stata allieva, e a essere tramite verso il ruolo di Persico come codirettore di Casabella, perché, pur all’interno di un confronto vivace su posizioni non sempre coincidenti, Giolli è tra i primi a intuire l’acutezza di Persico.

Saranno Giolli e Ragghianti [7], immediatamente all’indomani della prematura, tragica e misteriosa scomparsa dell’intellettuale napole- tano, a rendersi conto in maniera compiuta di come l’intuizione di Persi- co di ricollocare l’ambito architettonico in quello più vasto della fenome- nologia artistica, svincolandolo dalle svilenti interpretazioni meramente tecnicistiche, fosse un’intuizione estremamente feconda. Per fare questo Persico prendeva spunto, come è noto, dall’architettura di Wright che diventava simbolo dell’affermazione libertaria dell’arte come liberazione dell’umano. Posporre gli aspetti utilitaristici, cui l’architettura veniva invariabilmente associata, doveva essere considerato imprescindibile per la critica che volesse confrontarsi con profitto con la nuova architettura. Nell’ottica del presente convegno è doveroso ricordare come sia per Giol- li, sia per Ragghianti, l’adesione, appassionata e manifesta, alla nuova architettura, al Movimento Moderno, non solo è temporalmente precoce ma non ha coinciso mai con l’adesione all’ideologia fascista, mentre, come è noto, per come si era posto il dibattito in Italia, spesso le due cose avevano finito per procedere all’unisono.

Va poi tenuto presente che svincolare il giudizio rispetto a una produzione artistica dal suo fine, chiave utilizzata per la lettura del pensiero di Persico, è l’elemento che Ragghianti [8] riconosce a Riegl, sulla strada del superamento della distinzione svilente tra arti maggiori e arti minori o applicate. Per Riegl [9] è infatti necessario liberarsi dal preconcetto materialistico secondo cui lo “stile” debba essere identificato a partire dalla tecnica, dal materiale o, appunto, dalla forma di utilizzo finale, giacché il materiale artistico, cui non fanno eccezione stoffe o porcellane, vetri o arazzi, etc. va inteso come una sorta di proiezione diretta dell’idea. Più volte Ragghianti torna sulla gerarchizzazione delle arti così come torna, pur evidenziandone dei limiti, all’estetica di Riegl, ascrivendole il merito di aver contribuito in maniera determinante a su-

Fig. 3 — Carlo Ludovico Ragghianti, 1938.

perare i pregiudizi sulle arti applicate: «Uno dei più grandi critici d’arte, il Riegl, già mezzo secolo fa distrusse in un memorabile libro questo vie- to pregiudizio, mostrando proprio nelle arti dette minori la più autentica e perfetta espressione d’arte di molti secoli» [10].

I testi critici dedicati alla tutela e salvaguardia del patrimonio artistico sono innumerevoli per entrambi ed è impossibile in questa sede prenderli compiutamente in considerazione.

Possiamo dire che già in giovane età Giolli si esprime su queste tematiche in Verbania [11], rivista poco nota se non a livello locale, diretta da Antonio Massara che la fonda nel 1909, cui collaborano tuttavia critici autorevoli del calibro di Pietro Toesca, Guido Marangoni, Luca Beltrami. Si tratta di un periodico che svolse un importante ruolo di sensibilizza- zione per la salvaguardia delle opere d’arte e del paesaggio della zona. Giolli, dalle pagine di questa rivista, si fa promotore nel 1911 del neofon- dato “Gruppo Nazionalista Verbanese” anche se va precisato che cosa egli intenda per “nazionalista”: «[…] vogliamo che la scuola educhi […] che la vita non ha fine a sé, ma come deriva da un passato così prepara un futuro del quale ognuno è responsabile innanzi a sé stesso […]». E più avanti enuclea un concetto che avrebbe meritato maggior fortuna:

«Vogliamo che il cittadino sia abituato a considerare lo stato non come una cosa che è fuori di lui o sopra di lui, ma in lui: vogliamo che il citta- dino che ogni momento froda la legge con un sorriso compiacente della propria abilità comprenda invece quale stretta solidarietà c’è tra di lui e lo stato, solidarietà non solo di interessi spirituali ma pratici ed econo- mici». [12]

De Seta [13] rileva che sono gli anni del Primo conflitto mondiale a rappresentare per Giolli il momento della presa di coscienza del valore civile e morale dell’arte e della critica, portando a esempio articoli di Giolli editi tra il 1916 il 1918. In realtà ci pare sia plausibile si tratti di un convincimento che matura in lui già da prima, a testimoniarlo sia gli in- terventi ricordati sia il carteggio tra lui e Antonio Massara [14], fondatore anche del Museo del Paesaggio. Massara immagina e realizza un museo d’arte che nelle scelte curatoriali rimanda al pensiero di Ruskin, appel- landosi esplicitamente a una funzione morale dell’arte nel suo adeguarsi

al sentire naturale. All’interno della sua rivista e nella corrispondenza epistolare con Giolli, esplicita la necessità della salvaguardia del patri- monio, tanto artistico/architettonico quanto naturale, a opera degli enti pubblici, tale da rendere l’arte non elitaria ma fruibile a tutti come stru- mento di civilizzazione, e questa sarà certamente per Giolli un’influenza determinante.

Anche Ragghianti rivendica di aver posto sin dal 1945 il pro- blema di una spesa per il patrimonio artistico che fosse adeguata al suo valore in quanto “bene economico”. Ragghianti ribadiva il concetto in un articolo del 1965, non compreso e fortemente criticato, tra gli altri anche da Roberto Longhi, in cui si faceva promotore di un’iniziativa per valuta- re da un punto di vista monetario il patrimonio urbanistico, ambientale e monumentale fiorentino e della Galleria degli Uffizi. Non si trattava del “volgare listino” definito da Longhi ma della consapevolezza amara che «gli argomenti artistici e di civiltà per quanto plauditi e convintamente citati non bastano a drenare a favore del patrimonio il denaro pubblico necessario a convincere a una spesa commisurata» [15].

La situazione non è oggi molto migliorata, anzi, si pratica diffusa- mente un insistito sfruttamento economico del patrimonio a discapito non solo di una sua corretta tutela ma di una sua percezione come patrimonio condiviso e per questo dotato di una funzione “democratizzante” [16].

La questione delle arti applicate ha sempre rivestito per Giolli un’importanza sostanziale: da lui fondata nel 1927 la rivista 1927. Proble-

mi d’arte attuale, rinnovata nel 1928, nel 1929 prende il nome: 1929. Arte e arredamento, prima di diventare, con una veste grafica più curata, Poligo- no. Ma già nella Dedica ai lettori del primo numero di 1927. Problemi d’ar- te attuale Giolli scrive di voler impostare in Italia «il problema dell’arte

vivente», specificando che si tratta di un obbligo di coscienza, e la rivista è appunto dedicata a «chi ignora che l’arte è in una sveglia economica e in un apparecchio telefonico oltre che nel quadro» [17]. Qui non solo Giolli tributa la corretta importanza a una tipologia di oggetti allora largamen- te ignorata, ma compie anche quel passaggio che porta dall’artigianato al

design più propriamente inteso.

Ancora prima, all’inizio degli anni venti, scrivendo per La Sera, Giolli parla di “pubblico arredo” in chiave di responsabilità condivisa, non ne fa tanto una questione estetica quanto civile:

«Gioverebbe davvero se un po’ di controllo intelligente finalmente si manifestasse attraverso le pubbliche discussioni, anche sull’architettura e sull’arte decorativa […] bisognerebbe che gli architetti usino esporre i progetti delle loro case prima di costruirle» [18].

Recensendo la Biennale d’Arti Applicate di Monza nel 1923 sot- tolinea come il vero problema non risieda nello “stile” ma piuttosto nel mancato sviluppo, prima di tutto sociale e poi economico, del paese:

«Il problema dello stile è il problema della storia. È inutile discuterlo nell’atrio di un’esposizione. Investe tutta la vita. […] Uno stile moderno italiano ancora non esiste, non perché gli artisti non siano ancora orien- tati […] ma soltanto perché ancora non esiste una moderna Italia. Lo stile di un mobile non sta nelle sue decorazioni, ma nell’organica essenzialità della sua forma. Evidentemente, sin che i mobili nuovi devono andare a finire in case antiche, non saranno dei mobili moderni […] Ci sono ancora in Italia molte città, deliziose e ricchissime di bellezza, in cui non solo le case ma anche gli usi della vita sono ancora medioevali, e dove si ignora- no non solo i mobili inglesi ma anche i gabinetti inglesi […]». [19]

È su queste basi di civile democratizzazione e uguaglianza che attecchirà il suo antifascismo militante.

Nel 1929, di fronte alle ceramiche della Richard-Ginori guidata da Gio Ponti, elogia il suo modello che si pone non solo come «un esem- pio di gusto artistico ma di orientamento industriale» [20] e prosegue evidenziando per primo la specificità delle arti applicate: nella Coppa del

Circo Equestre (Gio Ponti), «il primo sapore è nel timbro della bella pasta

bianca, trasparente e sonora, e nell’accento limpido che il tono nero e netto sopra vi ha. […] Gli stessi disegni non dico in carta ma in acquaforte non avrebbero questo valore. […] Tentando lo stolido traslato della pittura dal quadro al piatto […] avevamo assistito a questo sadismo della pittura che si flagellava in mezzo agli equivoci» [21]. Così come riconosce a Ponti il merito di non aver spinto la ceramica verso effetti funambolici ma aver preferito «usarne tutte le risorse per un compito più raccolto, in funzione d’interesse quotidiano, per risultati di duratura educazione» [22].

Fig. 4 — Gio Ponti, “Circo equestre”, coppa, Richard-Gino- ri, 1927.

La stessa specifica rilevanza è assegnata da Ragghianti alle arti applicate in occasione della mostra, allestita a Palazzo Strozzi nel 1948,

La casa italiana nei secoli. Non una ricostruzione in falso antico, o ancor

peggio traslata da una rappresentazione pittorica, si affretta a precisare il critico lucchese nella Prefazione al catalogo, ma l’idea di presentare la storia «intesa nella sua sostanza spirituale, nel suo carattere universale» [23]. Così per Ragghianti le ceramiche, i vetri, gli smalti, le porcellane, i mobili, i tappeti, raccolti in ambienti, sono l’estensione, la traduzione più immediata e comprensibile dell’arte di un’epoca o di una tendenza, assolvendo così a quell’aspetto pedagogico che tanto gli sta a cuore. E più avanti non fa mistero che l’intento dell’esposizione sia quello di fare una mostra “popolare”, termine non da intendersi in senso dispregiativo o demagogico ma in linea col significato originale che implicava fattori di origine culturale e sociale.

Ugualmente Giolli, nella recensione al libro di Pagano Architet-

tura rurale italiana (1936) [24], vi elogia «non la storia sontuosa ma quella

invece popolare che non è mai altro che storia di cose di organismi utili e viventi» [25].

Giolli passa poi a enucleare la questione dello standard (in antici- po rispetto ai successivi studi di Argan e Dorfles), in due testi importanti: la recensione alla Mostra dell’abitazione del 1936 [26], e Case fabbricate

a macchina [27]. Nel primo parla di organizzazione dei concetti di serie

per l’organizzazione dell’alloggio e dell’arredamento, di componibilità e intercambiabilità di elementi di arredamento e di modulo costante. Nel se- condo auspica uno dei suoi più sentiti desiderata: l’incontro diretto tra arte e industria. Quando intuisce, in largo anticipo rispetto alla critica coeva, il valore della pianta aperta delle architetture di Wright è di nuovo sulla scor- ta di una presa di coscienza civile: «Si butteranno giù le pareti interne solo quando si sarà capito che i ragazzi si educano facendoli vivere con i grandi: che il lavoro delle donne non va recluso nelle stanze di servizio» [28].

Dal canto suo Ragghianti affronta in maniera compiuta il rap- porto tra forma e funzione dell’oggetto, a partire dalla filosofia estetica, in alcuni scritti degli anni cinquanta come Industrial Design [29]. È per lui il carattere di “intenzionalità” che nella pratica del design sovraintende la progettazione e risoluzione del problema. Il suo approccio fa sì che si appassioni a singoli episodi e sempre a partire dallo studio dell’aspetto

grafico, ovvero il disegno, che rappresenta il momento creativo che pre- cede la realizzazione del progetto vero e proprio. Ragghianti individua come centrale la scelta che caratterizza l’oggetto: se è vero che le forme plastiche che investono l’oggetto meccanico si modificano a seconda del periodo storico, a essere significativo, a suo modo di vedere, è il momen- to in cui l’artista manifesta la sua intenzione. È l’idea ad avere il carattere di opera d’arte più che l’oggetto prodotto in serie a partire da questa. Per esprimere questo concetto prende a esempio gli alfabeti progettati da Leonardo Da Vinci e Albrecht Dürer, sostenendo come il loro valore este- tico risieda nel progetto, cioè nell’idea alla base del modulo divenuto poi seriale. Ma già prima in Sedia di Chiavari antica e nuova [30] e nel succes- sivo Forma e funzione [31] arrivava a concludere che non è la destinazione d’uso a diversificare le forme di un oggetto ma l’humus culturale e sociale nel quale questo viene pensato e prodotto.

Probabilmente non è neanche casuale che la stessa rivista se-

leARTE, scientificamente ineccepibile ma redatta in un linguaggio e

con un obiettivo prettamente divulgativi (redatta quasi interamente da Ragghianti insieme con la moglie, Licia Collobi), fosse pubblicata dalla società Olivetti di Ivrea, allora la più importante industria italiana in am- bito tecnologico, che di lì a pochissimo, nel progetto di Roberto Olivetti, Mario Tchou ed Ettore Sottsass avrebbe immaginato di contrapporre alla società della competizione quella della collaborazione.

L’attività curatoriale di Ragghianti nell’ambito del design è stata fuor di dubbio centrale, ci limitiamo qui a citare la mostra Ricerche visive,

strutture, design, allestita alla Strozzina di Firenze nel 1962, in cui si

presentavano, con la consueta acuta lungimiranza, opere di Enzo Mari e soprattutto di Bruno Munari. L’idea che le Macchine di Munari presentifi- cassero l’immaginario dei bambini come spunto estetico nobile, sembra essere la medesima che intuisce Giolli, quando nel 1922 cura la Mostra

d’Arte infantile (o del giocattolo) [32] aprendo orizzonti impensabili per la

cultura italiana del tempo.

Il superamento dell’intuizione pura (a)spazio-temporale, di matri- ce crociana, nell’ottica della valorizzazione di una dimensione che fosse contemporaneamente etico-politica ed estetica, salda, pur controcorrente, Giolli e Ragghianti nelle pieghe luttuose del loro tempo, facendo della co- scienza storica la loro arma per l’aspirazione a una società democratica.

Fig. 5 — Carlo L. Ragghianti, “Forma e funzione”, in «seleAr- te», n. 2. 1952.

— NOTE

[1] Persico Edoardo (1945). Profezia dell’archi- tettura. Milano: Muggiani Tipografo. Il testo è quello della conferenza omonima tenuta a Torino da Persico nel gennaio del 1935. [2] Antifascista convinto, Giolli, pur scrivendo

prevalentemente d’arte, architettura e design, non lesinò mai giudizi estremamente critici verso il regime cosa che gli causò l’interdizione dalla possibilità di insegnare e pubblicare. Tramite per il suo ingresso diretto nella Resi- stenza è un suo ex allievo, l’architetto Filippo Beltrami, comandante di una brigata partigiana in Ossola e nipote di Luca Beltrami, architetto e critico che Giolli incontra già da ragazzo. [3] Sereni Umberto (2000). Intorno al ‘caso’

Ragghianti. In Scotini Marco (a cura di). Carlo Ludovico Ragghianti e il carattere cinematogra- fico della visione, pp. 77-83. Milano: Charta. [4] Ragghianti Carlo Ludovico (1976). “Saluto a Casabella”. Critica d’arte, a. XXII, 146, 65-67. [5] Ragghianti Carlo Ludovico (1991). “Lettera ad Alfonso Gatto, Firenze 8 aprile 1967”. seleAR- TE, IV, serie, 12, 53.

[6] Archivio Rosa Menni Giolli, Fondazione Bardacco (Milano). Una donna tra due secoli, B, 6, f. 7, Incontro con Persico, 1926-1928. [7] Ragghianti Carlo Ludovico (1936). “La profezia

dell’architettura”. La critica d’arte, I, fasc. VI, 300-304, Firenze: Sansoni; Giolli Raffaello (1936). “La Sala della Vittoria alla Triennale”. Casabella, 102-103, 14-21.

[8] Ragghianti Carlo Ludovico (1958). “Antiche Stoffe di seta”. seleARTE, 34, 42-45. [9] Riegl Alois, Spätrömische Kunstindustrie

(1927). Wien: Staatsdr (tr. it. Industria artistica tardoromana. Firenze: Sansoni, 1953). [10] Ragghianti Carlo Ludovico (1948). Prefazione

in La casa italiana nei secoli, p. 29. Istituto Italiano di Storia dell’Arte, Firenze, Palazzo Strozzi.

[11] Esiste un legame tra l’area del Verbano-Cui- so-Ossola e Giolli che vi risiede per un breve periodo da ragazzo dopo la morte del padre e dove ritornerà da partigiano. Per queste informazioni si fa riferimento sia alle note biografiche di Lacchini Cristina (2012) in De Seta Cesare (a cura di). Raffaello Giolli, Arte e Architettura 1910-1944. Cernobbio: Archivio Cattaneo; sia in parte al carteggio tra Raffaello Giolli e Gustavo Botta collocato nel Fondo Bot- ta presso la Fondazione Giorgio Cini, Isola di San Giorgio, Venezia, consultato da chi scrive a più riprese a partire dal 2012.

[12] Giolli Raffaello (1911, febbraio). “Il Gruppo nazionalista verbanese”. Verbania. Rivista mensile illustrata del Lago Maggiore del Cusio e dell’Ossola, 2, 44-45.

[13] De Seta Cesare (1972). Introduzione in Raffaello Giolli. Architettura razionale, Roma-Bari: Laterza.

[14] Trattasi di un carteggio al momento inedito, temporalmente collocato a cavallo tra 1910 e 1911, conservato presso il Museo del Paesaggio di Verbania, consultato da chi scrive nel 2014. [15] Ragghianti Carlo Ludovico (1965). “Patrimonio

artistico italiano”. Critica d’Arte, 72, 3-13. [16] A muoversi a partire da questi concetti sono

oggi, isolati, gli storici Tomaso Montanari e Salvatore Settis.

[17] Giolli Raffaello (1927). “Dedica ai lettori” in 1927. Problemi d’arte attuale.

[18] Giolli Raffaello (1921, 21 maggio). “In tempo di crisi”. La Sera.

[19] Giolli Raffaello (1923, 31 maggio). “Alla Bien- nale d’arte decorativa. Problemi di stile o di gusto?”. La Sera.

[20] Giolli Raffaello (1929). “Saggi della rico- struzione: l’esempio della Richard-Ginori”. Emporium, LXX, 150-153.

[21] Ivi, p. 155. [22] Ivi, p. 157.

[23] Ragghianti Carlo Ludovico (1948). Prefazione in La casa italiana nei secoli, cit., p. 28. [24] Pagano Giuseppe (1936). Architettura rurale

italiana. Milano: Hoepli.

[25] Giolli Raffaello (1938). “Architettura vivente”. Casabella-Costruzioni, 130, 20-21.

[26] Giolli Raffello (1936). “Mostra dell’abitazione”. Casabella, 106, 24-25.

[27] Giolli Raffaello (1939, 27 aprile). “Case fabbri- cate a macchina”. Panorama, 1.

[28] Giolli Raffaello (1936), “Dentro la villa”. Casa- bella, 107, 26-29.

[29] Ragghianti Carlo Ludovico (1956). Industrial Design, Estetica Industriale, in Ragghianti Car- lo Ludovico, Il pungolo dell’arte, pp. 205-222. Venezia: Neri Pozza.

[30] Ragghianti Carlo Ludovico (1952). “Sedia di Chiavari antica e nuova”. seleARTE, 1, 61-63.

[31] Ragghianti Carlo Ludovico (1952). “Forma e funzione”. seleARTE, 2, 2.

[32] Mostra d’arte infantile, 29 aprile-14 maggio 1922, Circolo d’Alta Cultura, Milano. Per lo stesso circolo Giolli aveva curato tra le altre la Rassegna d’arte del tessuto (ottobre 1922), prima mostra con criteri scientifici dedicata a questo tema.

Giancarlo De Carlo viene indicato nella voce relativa del Dizio-

nario Enciclopedico dell’Architettura e dell’Urbanistica del 1969 diretto da