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Rita D’Attorre — Politecnico di Torino

ribadirlo, in un suo scritto dal titolo Sulla produzione del mobile in Italia del 1962, quando è già considerato un affermato architetto e urbanista:

«Io non mi considero un vero e proprio designer o per lo meno un desi- gner di mobili. I miei interessi si rivolgono verso altre direzioni e penso che il design del mobile richieda invece un interesse diretto e univoco. Sarebbe assai opportuno che gli architetti scegliessero fra le tante possibilità di specializzazione che hanno e smettessero di esercitarle tutte insieme, come spesso fanno. Io ho scelto altre specializzazioni, per cui quella del mobile, a livello operativo, mi interessa sempre meno. Mi interessa molto, invece, a livello culturale, perché mi sembra che co- stituisca un fenomeno la cui comprensione può aiutare a chiarire alcuni problemi di architettura e soprattutto alcuni problemi di urbanistica, oltre che di metodologia progettuale». [2]

De Carlo in pochissime occasioni si cimenta nel ruolo di de- signer, in particolare nel 1954, quando si occupa dell’allestimento dei nuovi interni della Motonave Lucania, in origine un traghetto americano adibito al trasporto di truppe oltreoceano da trasformare in una nave passeggeri per il Venezuela, per la quale, in collaborazione con Artflex, realizza l’omonima serie di sedute. Il primo pezzo della serie è la sedia

Lucania, con supporto in tubo di ferro verniciato nero, scocca in compen-

sato curvato e rivestimento in tessuto; il secondo è la poltrona Lucania, la cui struttura è in lamiera stampata, dove schienale e braccioli formano un corpo unico, come una conca.

Nel progetto per la colonia Sip di Torino a Riccione (1961- 1963), opera ancora poco valorizzata nell’ambito della produzione dell’architetto genovese, e che oggi verte in uno stato di completo abbandono, De Carlo progetta un edificio che s’inserisce in quella tendenza che, tra gli anni cinquanta e sessanta, mette al centro della rappresentazione architettonica la partecipazione del bambino alla vita di gruppo della colonia stessa.

L’organizzazione dei volumi, in netto contrasto con il ca- rattere unitario (e autoritario) delle colonie estive di epoca fascista, mette in luce un’architettura pensata e costruita a misura di bambino, dove le istanze sociali che quel particolare tipo di convivenza richiedeva

all’interno e all’esterno dell’edificio, diventano le linee guida progettuali anche degli arredi, tutti minuziosamente progettati dallo stesso De Carlo.

Concluse queste esperienze di progettazione a una scala così dettagliata che in pochi casi affronterà nei suoi progetti successivi, inizia una riflessione teorica che lo porterà a essere definito, in più occasioni, l’architetto della partecipazione. Egli è stato uno dei primi architetti ita- liani a teorizzare e sperimentare la partecipazione nell’ambito della pro- gettazione, ne sono un esempio il Villaggio Matteotti a Terni (1969-1975) alla scala di quartiere, e il Piano Particolareggiato di Rimini (1970-1972) a scala urbana, con una riflessione teorica volta alla ricerca di un sistema capace di esprimere la geometria del grande numero, che s’intreccia con la lunga esperienza del Team X e che corre parallelamente a un altro filo- ne di interessi che caratterizza l’attività di De Carlo, quello per la geogra- fia fisica e sociale, dove il contesto, con tutte le sue specificità, è messo in un continuo confronto con l’utente.

Rileggere Giancarlo De Carlo alla luce del progetto partecipato [3], aiuta a chiarire il significato del termine partecipazione, parola abu- sata e tradita, tanto in ambito architettonico-urbanistico, quanto riferita al design. Ma cosa significa partecipazione per De Carlo? E quale contri- buto può dare oggi la riflessione culturale (e progettuale) di De Carlo, in riferimento all’idea di progetto partecipato che presenta una dimensione politica di acquisizione di potere per l’utente e di democratizzazione?

«La partecipazione non è solo informazione e neppure gestione, ma in- tervento nel processo di decisione» una definizione a cui bisogna prestare attenzione, perché «la partecipazione parziale può essere più pericolosa della non partecipazione. Tanto è vero che la partecipazione è stata un tema propagandato anche dalle forze conservatrici che vedevano in que- sto procedimento un utile strumento per strappare il consenso». [4] Quali sono i motivi che portano De Carlo a tale affermazione? Due ragioni distinte: in primo luogo l’idea che in una società moderna ormai fortemente articolata come quella degli anni sessanta e settanta, si passa dall’ottenere il controllo sociale, a catturare il consenso. Il pro- getto partecipato quindi come processo decisionale aperto, cooperativo e collettivo, e non volto a cercare un consenso generale per aumentarne

l’efficacia e l’effettività in una società sempre più diversificata, flessibile e competitiva [5].

In secondo luogo perché il potere – anche e soprattutto politico – dispone di mezzi di persuasione così potenti, in termini di mass me- dia, da rendere possibile e facilmente attuabile il condizionamento delle opinioni e quindi il consenso coatto [6]. Partecipare per De Carlo non significa solo che l’utente venga messo a conoscenza delle decisioni, ma che abbia un ruolo attivo nella progettazione, rendendo la partecipazione stessa non consultiva, ma operativa.

Ma qual è la pratica più corretta della partecipazione? Secon- do De Carlo non limitarsi a compiere indagini conoscitive, ma avere un contatto diretto con quello che più volte viene definito il pubblico (dell’architettura, nel caso specifico) [7], ovvero la società per la quale si è chiamati a progettare. In questo modo si fornisce la base politica neces- saria, ovvero quell’insieme di obiettivi, metodi, mezzi – ancorati a scelte precise – senza i quali un’azione di partecipazione sfocia inevitabilmente nella protesta rassegnata.

Senza addentrarci nella specificità di due tra i più importanti progetti partecipati decarliani, i già citati Villaggio Matteotti a Terni e il Piano Particolareggiato di Rimini, conviene soffermarci su alcuni aspetti che li hanno caratterizzati e che nei loro assunti, hanno validità tutt’oggi.

L’esperienza del Villaggio Matteotti a Terni vede De Carlo con- frontarsi in un dialogo continuo con cittadini, amministrazione e grande industria. È interessante vedere come la partecipazione dei futuri utenti delle case non fosse stata interamente compresa, ma intesa inizialmente come una delle tante astuzie dell’architetto per cooptare i veri destinata- ri del suo progetto, portandoli a decidere su aspetti di dettaglio per far passare inosservate le decisioni di fondo prese da chi finanzia e da chi amministra. Fu un’operazione estremamente complessa che partì da una chiara impostazione metodologica. Essendo case da assegnare secondo le logiche dell’edilizia sovvenzionata e quindi assegnate solo quando completamente realizzate, De Carlo si trovò costretto a rivolgersi a tutti i potenziali utenti, ovvero a tutti gli operai – circa 1800 all’epoca – che avevano bisogno di una casa.

Per impostare i colloqui con i potenziali futuri abitanti, si partì da una mostra in cui vennero presentati i progetti eseguiti che si consi-

deravano accettabili, scelti nella produzione di diversi paesi e non neces- sariamente a basso costo. Si trattava di un’operazione volta a spostare l’attenzione su modelli differenti da quelli normalmente offerti e che con- dizionano l’immaginario collettivo, in modo da far esplodere i conflitti fin dal primo momento con un innesco dirompente, costringendo tutti, soprattutto chi conduceva l’operazione – il progettista, il sociologo coin- volto (Domenico De Masi) e i tecnici collaboratori – a interagire con la massima trasparenza. Solo a partire da questi colloqui, si riuscì a defini- re i bisogni reali specifici e quindi a formulare le prime ipotesi progettua- li; colloqui essenziali non per l’elaborazione degli elementi linguistici del progetto, che rimangono prerogativa dell’architetto, ma per il supporto attraverso cui è stata articolata l’organizzazione dello spazio. Senza que- sto dialogo continuo con i consumatori finali, alcuni spunti progettuali – nel caso specifico le terrazze giardino, l’interdipendenza degli alloggi, le varietà delle configurazioni organizzative – dettati da bisogni reali o da inclinazioni culturali, non sarebbero emersi.

Diverso il caso del Piano di Rimini. «Rimini è la città italiana dove un processo di partecipazione urbanistica è stato portato avanti ed è anche la città italiana dove un processo di partecipazione urbanistica è più clamorosamente fallito proprio perché era andato molto avanti» le parole di De Carlo sintetizzano questa esperienza progettuale, che inizia nel 1970 quando viene chiamato dal Comune a dirigere il nuovo Piano Particolareg- giato del centro storico, secondo le indicazioni date dal Piano Regolatore che aveva redatto Giuseppe Campos Venuti. Sulla scia dell’esperienza di Terni, pone come condizione essenziale che i problemi sollevati dal nuovo piano fossero discussi pubblicamente con tutte le componenti sociali.

Le discussioni iniziarono da subito nella sala del Consiglio Comunale della città di Rimini, affrontando uno per volta, ogni due settimane, con grande partecipazione soprattutto dei giovani, tutti quegli argomenti considerati importanti e urgenti come la residenza, la scuola, l’industria, il commercio, la cultura.

Gli interventi, una volta deregistrati, venivano pubblicati e di- stribuiti a tutta la popolazione prima della riunione successiva. Questo processo di trasparenza, subisce una brusca battuta d’arresto nel momen- to in cui il dibattito si sposta sulla città, aprendo la strada a un dibattito più generale sulla produzione, sui luoghi di lavoro, sul costo delle aree

fabbricabili, sulla speculazione edilizia – che sempre accompagna opera- zioni di piano – fino al modo stesso di amministrare la città e quindi alle ragioni politiche. E sono le ragioni politiche, spinte dalle ragioni di forze economiche esterne, che bloccano il Piano, a dispetto della forte curiosi- tà e partecipazione che aveva suscitato nella cittadinanza.

Questi progetti sono pensati ed elaborati in un momento in cui la riflessione decarliana è concentrata sul paradigma del grande numero e su come l’architettura possa dare risposta a un nuovo tipo di complessità all’interno della società di massa [8].

L’evolversi dell’idea stessa di società contemporanea – e quindi di città – ha fatto sì che oggi, al paradigma del grande numero, si sostituisca quello della complessità. Nella società liquida [9], dove «l’unica costante è il cambiamento e l’unica certezza è l’incertezza», la trasformazione della struttura delle famiglie, così come del tenore e degli stili di vita, mette in luce nuovi bisogni che portano a una necessaria ridefinizione degli approcci metodologici del progetto partecipato. Anche nel design sem- pre più si parla di progetto partecipato (che talvolta viene confuso con la mera personalizzazione del prodotto), all’interno di un meccanismo complesso dove i diversi soggetti coinvolti, portatori di interessi diversi, cercano soluzioni condivise all’interno di un processo di contrattazione. Tra l’ineluttabilità dei processi in atto e la sfida di farne parte, si colloca il progetto partecipato che deve coinvolgere istituzioni, capitali privati (soprattutto in un periodo lungo di forte crisi finanziaria come quello attuale) e utenti, affinché il consenso più ampio delle scelte – attra- verso la concertazione, negoziazione e mediazione – garantisca la realiz- zazione concreta delle azioni.

In questo scenario l’utente finale è consumatore e produttore [10], progettista di nuove opportunità economiche e sociali che devono essere redistribuite equamente, e la capacità del progettista sta proprio nel semplificare, rendendo accessibili a tutti gli attori coinvolti, le infor- mazioni necessarie al processo decisionale. Parafrasando Lefebvre solo garantendo il diritto all’accessibilità e alla trasparenza è possibile rendere il progetto partecipato vera pratica democratica.

Una prospettiva che ribalta i punti di vista, alla prerogativa di produrre un oggetto per soddisfare un bisogno, si sostituiscono sistemi e strategie,

«cioè nuove interazioni fra utenti e risorse […] dove i prodotti materiali sono previsti come funzionali ad attuare queste strategie, ma inseriti in un’ottica di accesso invece che di possesso, focalizzati al benessere della comunità e non alla crescita economica delle forze produttive». [11] Un progetto partecipato, a qualsiasi scala o livello, richiede un’approfondita conoscenza dei bisogni degli utenti, non solo perché parte dal riconoscere i bisogni da soddisfare, ma anche perché il progetti- sta deve considerare abitudini, atteggiamenti e limitazioni dei potenziali fruitori e osservare gli effetti concreti del progetto potenziale, in modo tale che divenga effettivo. Il che non significa trascrivere quello che gli interlocutori al progetto chiedono, perché nel processo di partecipazione tutto è sottile, contraddittorio, mutevole, e bisogna accettare questa con- dizione altrimenti il processo si falsifica. Come direbbe De Carlo

«Ci vuole molto più talento nella progettazione partecipata di quanto ce ne voglia nella progettazione autoritaria, perché bisogna essere ricetti- vi, prensili, agili, rapidi nell’immaginare, fulminei nel trasformare un sintomo in un fatto e farlo diventare punto di partenza». [12]

— NOTE

[1] Continua la voce dedicata a De Carlo: «Pur negando identità di metodo tra urbanistica e architettura e partecipando perciò al dibattito sulla crisi del razionalismo, ha costantemente tenuto presente la necessità di una verifica della “forma” a scala urbana. Il problema della città e della pianificazione territoriale ha costituito il tema centrale dei suoi saggi e dei suoi interventi e congressi di urbanistica, in cui si è battuto per il superamento di una nozione esclusivamente tecnica e perciò accademica di tale disciplina mediante la formulazione di ipotesi di studio sul rapporto “città-campagna”, che lo hanno portato ad elaborare i concetti di città-territorio e di area metropolitana», “Giancarlo De Carlo” (1969). In Dizionario Enciclopedico dell’Ar- chitettura e dell’Urbanistica, Roma: Istituto Editoriale Romano, vol. ii, p. 141. [2] Dibattito sulla produzione del mobile in Italia,

Fondo GDC, Archivio Progetti di Venezia. [3] «Partecipare e condividere riecheggiano

ancora oggi, nella letteratura di settore e nelle realizzazioni […]. Il fuoco del ragionamento – o meglio il passaggio della sua riflessione che supera l’applicazione del processo parteci- pativo come tecnica di ascolto, le prerogative politiche dell’architettura degli anni Settanta – è la questione culturale: l’architettura come questione culturale», Marini Sara (2013). Intro- duzione. Scegliere la parte. In Giancarlo De Car- lo, L’architettura della partecipazione, a cura di Sara Marini, p. 33. Macerata: Quodlibet. [4] Manoscritto s.d., Fondo GDC, Archivio Pro-

getti di Venezia.

[5] Joseph Rykwert definisce Giancarlo De Carlo e Lucien Kroll «sostenitori dell’urbanistica e dell’architettura del consenso: secondo i quali le questioni di gusto non hanno peso, perché le persone che abiteranno le case dovrebbero “esprimere” i propri desideri e aspirazioni sugli edifici che andranno a dimorare […] come tutti gli architetti per tutti i clienti, essi offrono una gamma di scelta limitata. Volume, sito, costo sono condizionamenti inevitabili; certe varianti di una pianta standard, e una rosa di elementi strutturali e di rifiniture sono i punti su cui si consente ai clienti di intervenire. La progettazione “partecipativa” proietta a livello di opinione pubblica il tipo di rapporto che un cliente privato doveva aspettarsi di stringere col proprio architetto personale mezzo secolo fa. Questo modello […] implicherebbe che l’architetto debba metter su una specie di posto d’ascolto per raccogliere i desideri della gente circa il proprio alloggio; desideri che egli dovrebbe poi cercar di tradurre, il più direttamente possibile, in forma costruita. […]. L’architettura partecipativa è pertanto, per sua stessa natura, restrittiva, poiché non ci si può realmente attendere un generale consenso su cose fuori dell’ordinario», in Rykwert Joseph (1988). Necessità dell’artificio, pp. 168-169. Roma: Edizioni di Comunità.

[6] «Il pubblico italiano è […] una entità ancora ignota ma precisa con una certa quantità di bisogni, un certo tipo di cultura, un certo red- dito, e quindi una certa capacità di acquisto. E non è ancora stato scoperto, non è ancora stato investito dalla produzione del mobile moderno perché la produzione del mobile moderno si è occupata di tutt’altro», Dibattito sulla produ- zione del mobile in Italia, cit.

[7] «Ne Il pubblico dell’architettura, vero e proprio manifesto dell’architettura partecipata che De Carlo scrive alla fine degli anni Sessanta, la contrapposizione tra il “come” e il “perché” si traduce nel contrasto tra la “progettazione imperativa” e la “progettazione processo”», Samassa Francesco (2004). Un edificio non è un edificio non è un edificio. In Id. (a cura di). Giancarlo De Carlo. Percorsi. Padova: Il Poligrafo, p. 145.

[8] De Pieri Filippo (2018). Il breve e il lungo ’68 di Giancarlo De Carlo. In Giancarlo De Carlo, La piramide rovesciata. Architettura oltre il ’68, a cura di Filippo De Pieri, p. 25. Macerata: Quodlibet.

[9] Bauman Zygmunt (2007). Inferno e utopia del mondo liquido. Bari-Roma: Laterza. [10] Cfr. Peruccio Pier Paolo (2015). Forme di parte-

cipazione tra architettura e design in Diid, 15. [11] Iadarola Antonio. Il luogo di lavoro sociale, mi-

lieu collaborativi per la progettazione. Origini, discontinuità e prospettive della progettazione partecipata, disponibile presso http://www. aisdesign.org/aisd/luogo-lavoro-sociale-mi- lieu-collaborativi-la-progettazione-origini-di- scontinuita-prospettive-della-progettazio- ne-partecipata, corsivo mio.

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Il design come