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U

GUAGLIANZA NELLA DIFFERENZA

:

LE DONNE E IL GIURIDICO

Antonella Argenio

1.

Vorrei partire da un dato di cronaca: centoquindici donne uccise tra gennaio e novembre 2012 da uomini in Italia. È inquietante e l’indignazione porta a chiedersi: perché? Perché è potuto accadere? Non solo, ma anche: se gli eventi si fossero verificati a parti invertite, sarebbe stata la stessa cosa? Quel dato di realtà scioccante sarebbe caduto allo stesso modo, se non proprio nell’indifferenza, in una mancanza, almeno, di interesse diffuso? Non lo credo. E ancora: quei crimini sono dovuti al gesto omicida di un folle, come pure si è detto? Mi permetto di dissentire. Allora, torna ad incalzare la domanda: perché?

Molte sarebbero le risposte ipotizzabili, legate alle circostanze particolari di ogni singolo caso. Eppure, sembra esserci un filo rosso sotteso ad esse. Si potrebbe rispondere con una celeberrima battuta di Totò pronunciata in Totò a colori: “La serva serve” (Steno 1952). Viva, si dovrebbe aggiungere: se da viva non vuole più esserlo, diventa superflua, non più funzionale a, anzi insidiosamente concorrente, un pericolo per la stessa tenuta dello schema dissimmetrico delle relazioni interindividuali. Del resto la storia esperita ha già mostrato a sufficienza l’abisso dove può condurre, e di fatto ha condotto, la categoria della superfluità nella sua più trista e radicale declinazione: la desolazione dell’universo concentrazionario, il silenzio dei campi (Arendt 1997; Argenio 2005, 2012, 2013).

Ma la replica di Totò a Galeazzo Benti da sola, forse, non basta a decodificare il versante in ombra di quei fatti di cronaca. Bisognerebbe, forse, ricordare la doppia indicazione fornita dal De

cive come dal Leviatano di Thomas Hobbes e dal Secondo Trattato sul governo di John Locke

rispettivamente in merito al diritto naturale (Hobbes 1992: 84-86; 2001:76) e alla proprietà (Locke 1995: 22-39, 90). Per un verso, il meccanismo hobbesiano della paura e del potere suggerisce che il timore - fear - di perdere potere induce ad accumularne quanto più è possibile, a rafforzarlo attraverso l’eliminazione di chi risulta in competizione, di chi incarna la figura del concorrente che revoca in dubbio la posizione di dominio raggiunta, la sicurezza, sebbene relativa, di una superiorità acquisita. Per l’altro verso, la property lockeana parla il lessico dell’avere corpo e non dell’essere corpo: un corpo di cui si è proprietari, di cui si può disporre come meglio si crede affinché quel corpo reificato, trovi impiego al fine di incrementare la propria libertà. E il passo è breve dal corpo-cosa, il proprio corpo cosificato che si può usare a piacimento al corpo-cosa altrui

Seconda Università di Napoli, Italia.

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da piegare funzionalmente laddove all’altro si attribuisce il segno negativo dell’inferiorità rispetto a sé.

La logica del dominio proprietario non è affatto contraddetta dalla sua variante estroflessa, da una sua applicazione rivolta all’esterno, oltre i confini della vita individuale incarnata in un corpo; al contrario, il potere di disposizione esercitato sulla cosa corporea estranea, restando autocentrato, accresce il proprium, ne moltiplica i vantaggi ricavabili sia come appagamento di esigenze sia come ampliamento di ambizioni. Il ragionamento sul corpo in termini di cosificazione sembra contenere il presupposto di un suo sempre possibile svolgimento in direzione dell’appropriazione per espropriazione che non solo depriva l’altro della res che gli appartiene, ma ne cancella ogni autonoma valenza, riducendolo a mero strumento del proprio benessere. All’altro si riconosce significato in quanto gli si assegna un ruolo che deve svolgere nell’esclusivo interesse di colui che presume di trovarsi, per privilegio di natura o di cultura, in una sedicente condizione di superiorità con cui si giustifica il perpetuarsi delle dinamiche di subordinazione (Duby & Perrot 1991; DWF 2000; Nye 1988; Ragion Pratica 2004, 2011; Rossi 1973; Tong 2009; Young 2000, 2001).

I tre suggerimenti, ricomposti a mo’ di tessere di un mosaico, delineano in maniera un po’ più netta il lato in ombra di quei fatti di cronaca: i crudi dati di realtà possono essere decodificati come il segnale non del residuo di una logica di oppressione quanto piuttosto della sua presenza ancora molto forte, della sua tenace persistenza all’interno dello Stato costituzionale di diritto. Quegli accadimenti illuminano con luce sinistra la sua permanenza, sono una cassa di risonanza della voce dell’oppressione, quasi imponendo l’urgenza di tornare a riflettere, specificamente rispetto alle donne, sulle categorie di uguaglianza e di differenza, sulla relazione tra i due termini- concetto sotto il segno della libertà, o, per meglio dire, di una libertà intesa non solo e non tanto come liberazione-emancipazione, ma soprattutto come libertà-partecipazione contraddistinta dalla consapevolezza delle donne del proprio sé in quanto donne.

Proverei, dunque, a procedere fermando l’attenzione sui punti che seguono. Considerare in

primis le possibili articolazioni del rapporto uguaglianza/differenza sulla scorta della distinzione

tra differenza-esclusione, differenza-specificità e differenza-merito. Poi rintracciare, all’altezza della grande letteratura novecentesca, uno dei momenti in cui trova espressione la presa di coscienza da parte delle donne del proprio essere donne. Infine, sottolineare l’importanza cruciale, rispetto all’uguaglianza delle donne nella differenza, di quella libertà che Isaiah Berlin (2010: 169-222; v. anche Dworkin 2011) chiama liberty to distinguendola dalla liberty from.

Sono sommamente debitrice, per il mio tentativo di disamina, nei confronti di tre referenti, assunti a stelle polari che orientano il procedere del percorso di analisi: si tratta rispettivamente delle riflessioni di Letizia Gianformaggio, di Virginia Woolf e di Hannah Arendt, che consentono di mantenere fermo il reciproco richiamarsi del piano giuridico e del livello politico del discorso. Una compresenza, questa, sulle cui implicazioni la stessa pagina woolfiana invita a tornare con una prosa raffinata che unisce indissociabilmente l’eleganza della parola alla lucida coerenza del giudizio. Quanto al nome della Arendt, pronunciarlo potrebbe suonare provocatorio in un simile contesto, ma così non vuol essere poiché Arendt non è soltanto l’autrice della dicotomia privato/pubblico, personale/politico. Certo, nella sua prospettiva dire che il personale è politico sarebbe un’eresia. Nondimeno, le sue analisi in merito alla scissione privato/pubblico riescono a far comprendere bene una delle radici in cui affonda l’esclusione della donna dall’agora e la sua reclusione nell’oikos: i bisogni della zoe nel loro spettro di necessità riproduttive e accuditive. Arendt è anche la pensatrice che insiste sulla distinzione rule/power/violence con tutto ciò che ne deriva sul fronte dell’action e del “tesoro” della libertà senza altra aggiunta che per lei è sempre libertà politica (Arendt 1996).

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2.

Passando alla prima delle questioni da affrontare, il rapporto tra le categorie di uguaglianza e differenza può essere stringatamente espresso nei termini di una relazione di non incompatibilità. A tale affermazione va, tuttavia, immediatamente affiancata una precisazione indispensabile per fugare equivoci: solo l’uguaglianza valutativa, definita sameness dalla Gianformaggio, è in contrasto con la differenza. E si tratta di un contrasto irriducibile che segna l’impossibilità della loro coesistenza, la loro mutua esclusione: se c’è l’una, l’altra per ciò stesso viene elisa.

La sameness ovvero l’assimilazione, la forzata inclusione di individui in gruppi, classi o categorie al cui interno non si riconoscono - e dunque anche la rigorosa applicazione di regole contenenti misure ed esprimenti valori assimilazionistici -, viene respinta proprio in nome del valore dell’uguaglianza sostanziale, che vuol dire universalità dei diritti fondamentali e rispetto del valore intrinseco delle persone. (Gianformaggio 2005a: 99)

Ciò significa che per sostenere le ragioni della differenza non bisogna affatto far arretrare l’uguaglianza; al contrario, bisogna “prenderla sul serio” perché l’uguaglianza giuridica è un complesso di significati e di valori tra i quali assume rilievo, invero difficile da sottovalutare all’interno di uno Stato costituzionale di diritto, l’uguaglianza intesa come attribuzione a tutti gli individui degli stessi diritti fondamentali. Si tratta del principio di dignità e in questo senso l’uguaglianza coincide con la considerazione e il rispetto di ciascuna persona, di ogni singola identità peculiarmente e irriducibilmente diversa da ogni altra.

Nel cercare di spiegare una simile impostazione del problema che lascia sussistere la connessione stretta tra diversità e uguaglianza rafforzandole entrambe, si è ritenuto opportuno seguire il filo delle analisi, come di consueto rigorose, della Gianformaggio e considerare in via preliminare le distinzioni concettuali relative alle categorie di uguaglianza, differenza, discriminazione, identità.

Uguaglianza e differenza sono concetti comparativi - si riferiscono a due entità distinte -, reciproci e relativi ad un parametro, ad un metro con cui vengono misurate le entità. A seconda di un uso descrittivo o prescrittivo dei termini-concetto uguaglianza e differenza, il criterio è rispettivamente un fatto o una norma e il fine è alternativamente conoscitivo o direttivo. Per un verso, l’obiettivo è la conoscenza stessa del mondo; per l’altro, non si vuole ottenere il mero conoscere la realtà così come essa è, quanto piuttosto si intende dirigerla, si perseguono cambiamenti da introdurre nel mondo. Le due entità distinte rapportate al medesimo standard sono descrittivamente uguali o diverse qualora possiedono o meno una stessa caratteristica fattuale ritenuta rilevante per conoscere la realtà. Laddove esse sono prescrittivamente uguali o diverse se hanno o non hanno titolo ad un uguale trattamento in base ad una regola che indica nella condizione - fattispecie - gli elementi fattuali rilevanti e fissa nella conseguenza la maniera in cui devono essere trattate (su uguaglianza e differenza in senso descrittivo e prescrittivo Gianformaggio 2005b: 37-39, 2005a: 92-93, 2005c: 201-202). Altrimenti detto, l’uguaglianza prescrittiva coincide con la parità di trattamento.

In senso descrittivo e prescrittivo si è, dunque, dinanzi a due entità distinte e si dispone di un unico modello cui riferirle entrambe. Tuttavia, accanto ad un uso descrittivo o prescrittivo delle categorie di uguaglianza e differenza, va rintracciato anche un loro impiego valutativo (contra Comanducci 2006: 391-392; più in generale Ragion pratica 2006). Quando il significato di

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quei concetti diventa socio-culturale, si verifica una sovrapposizione tra il parametro e uno dei due termini della comparazione: il metro con cui si misurano le entità distinte viene a coincidere con una di esse, la quale risulta, di conseguenza, contemporaneamente entità misurata e misura. La con-fusione che si genera in tal modo cambia il senso stesso del lemma uguaglianza perché azzera la dimensione della reciprocità introducendo al suo posto la cifra della unidirezionalità che comporta corrispondenza, omologazione di qualcuno a qualcun’altro. Uno dei due termini, infatti, trasformandosi in standard, perde il suo carattere relativo ed assume valore assoluto. Si assolutizza e l’assolutizzazione non consente più alcuna considerazione neutra del rapporto tra i due poli messi a confronto.

Essa si converte in valutazione che, a sua volta, può essere positiva o negativa. Ciò dipende dal giudizio che viene espresso a riguardo dell’unico elemento ormai rimasto sottoponibile a verifica di conformità rispetto al criterio: se si ritiene che sussistono divergenze, allora scatta automaticamente una accezione svalutativa della diversità che letteralmente squalifica chi è differente dal modello come a-nomalo e lo relega nell’a-normale. Un fuori da parametri, un meno nei confronti di uno standard: il non che declina la differenza secondo il vettore dell’inferiorità.

Mi pare indubbio che ci sia, nell’uso, un senso del termine «diverso» alla cui stregua dire: «A è diverso da B» non sia la stressa cosa che dire: «B è diverso da A» e nemmeno sia lo stesso che dire: «A e B sono diversi». […] Infatti, la proprietà di cui secondo questo uso si fa questione, non è tanto «l’essere diverso, la differenza», ma è «l’essere diverso da B, la differenza da B» . […] Abbiamo un uso dei termini «uguaglianza» e «differenza» che si riferisce sempre ad una operazione di misurazione già compiuta. […] Propongo di chiamare eguaglianza valutativa questa specie di eguaglianza che ritengo debba essere aggiunta all’eguaglianza descrittiva e all’eguaglianza prescrittiva. (Gianformaggio 2005b: 40-41)

Una simile prospettiva introduce una perfetta sinonimia tra uguale e “degno” mentre diverso diventa l’equivalente di “inferiore”. Il giudizio di uguaglianza, emesso da chi si trova in una posizione necessariamente sovraordinata proprio perché configurante il criterio stesso del giudizio, passa attraverso le forche caudine del verdetto che reputa l’altro meritevole di essere accettato in quanto i suoi caratteri non collidono, non stridono e non revocano in dubbio quelli dominanti. Il che presuppone, almeno, l’autocostringersi a un atteggiamento di modificazione adattiva ai canoni vigenti da parte di coloro che desiderano ottenere riconoscimento e implica una rinuncia, almeno, parziale alle peculiarità del proprio sé. Molto alto, dunque, il prezzo che si è disposti a pagare nella sonante moneta dell’autolimitazione o, radicalizzando, dell’autosoppressione del versante scomodo, eccedente, difforme della propria identità, pur di scongiurare la condizione del pariah. Superarla, accedere alla dimensione del parvenu, parrebbe comunque capace di compensare un’altrettanto umiliante forma mascherata di misconoscimento con la conquista dell’equiparazione giuridicamente sancita. Cosa, questa, in se stessa niente affatto di poco conto, ma inficiata da tutte le insufficienze contenute nella cancellazione di una differenza che non sia marchio di inferiorità e sedicente legittimazione di sopraffazioni.

La logica inferiore/superiore è soltanto scalfita in superficie, non rimossa alla radice quando si resta entro l’ottica dell’octroyé, del mero concedere l’ingresso nella sfera dell’uguagliamento giuridico a esseri umani sessualmente definiti cui si nega la posizione di interlocutori alla pari e che al più possono rivendicare e ottenere solo a determinate condizioni, alle condizioni fissate

d’avance da chi in qualche modo si sente costretto a cedere terreno sul campo iniquo del

privilegio perpetuato per un tempo immemorabile. Su questo fronte si può arretrare, e di fatto così è gradualmente avvenuto lungo il corso dell’ultimo secolo, ma ciò non toglie che la valenza degli uguali diritti, comunque imprescindibili, sia quella di aprire un orizzonte dove la diversità

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venga contemplata e rispettata nei molteplici ambiti del vivere associato perché costitutivamente caratterizzante i soggetti portatori di diritti. Per questa via il giuridico può svolgere una funzione anche indiretta di enorme portata, andando ad incidere sui meccanismi mentali e umorali del cosiddetto comune uomo della strada, ancora fin troppo recalcitrante dinanzi a ragioni tarate su esigenze non condivise né reputate condivisibili.

Qualora ciò dovesse apparire velleitaria aspirazione, resta la resa a quel tipo di uguaglianza che grava come terribile livellatrice degli scarti differenziali: l’altrimenti è il continuare a ricevere una considerazione dimidiata alla stregua di amnistiati ai quali si perdonano tradimenti di ruoli e difetti di physis, offrendo la chance di pari condizioni giuridiche e nel contempo esigendo in contropartita all’elargizione compiuta che essa sia fonte di soddisfazione e che ci si accontenti senza avanzare “pretese” ulteriori. L’alternativa a un’idea regolativa cui tendere, malgrado l’incertezza del concreto risultato, consiste in un’omogeneizzazione il cui vessillo non potrebbe che essere la bandiera a mezz’asta della capitolazione, della rinuncia all’equità, del consegnarsi alle forme vecchie e rinnovate di una violenza invariabilmente esperita.

“Questo significato di uguaglianza è la sameness e la differenza è il segno dell’esclusione”, afferma la Gianformaggio (2005c: 203). Nel puntualizzarlo, l’autrice, da una parte, sottolinea che il diverso è escluso giuridicamente dal godimento di benefici e di vantaggi in nome di una inferiorità-non corrispondenza al modello, e, dall’altra, precisa che il trattamento dei comportamenti dell’escluso, trattamento peggiore rispetto a quello riservato al resto dei membri di una collettività giuridico-politica, costituisce una discriminazione in senso stretto in quanto il diritto in questo caso non tiene conto delle azioni del soggetto per distinguere tra lecito e illecito, ma guarda al soggetto e fa discendere dalle caratteristiche ad esso attribuite determinate conseguenze. Ben si giustifica, allora, che la rivendicazione del discriminato in senso valutativo sia innanzitutto una richiesta di uguaglianza prescrittiva, essendo l’inclusione l’obiettivo primo da realizzare, il traguardo più immediato da raggiungere. Ma altrettanto bene si comprende che la carica emancipativa della parità non esaurisce il raggio delle possibili positivizzazioni giuridiche: chi ormai non è più discriminato o chi lo è meno in confronto al passato sa perfettamente che

liberazione dal giogo e libertà di poter esprimere appieno se stessi non sono affatto la medesima

cosa. Ciò che sgrana l’unum et idem sono le condizioni, da creare in termini di diritto, che consentono a quella libertà di trovare realizzazione nella prassi. Si pensi a quanto ancora attende di compiersi attraverso lo strumento giuridico in merito alla piaga delle dimissioni in bianco, alla frontiera della flessibilità degli orari lavorativi o all’abuso del mobbing sessualmente orientato, solo per ricordare alcune delle inerzie - volendo usare un eufemismo - del legislatore di turno che vessano l’alterità nel suo essere specificamente donna-corpo-madre.

Permettere alle identità plurime di emergere, sottraendole alla morsa di un conformismo tanto forzatamente quanto arbitrariamente imposto che rispecchia e raddoppia la pente naturelle dell’homme démocratique di tocquevilliana memoria, già spontaneamente incline per propria attitudine psico-antropologica ad allinearsi alla cosiddetta acritica opinione di una maggioranza anonima (Tocqueville 1981). Tale è l’angolo prospettico in cui porsi. Da questo punto di vista, ad essere rivendicata non è l’uguaglianza in sé e per sé bensì la differenza intesa in un’accezione che non è né descrittiva né prescrittiva: si tratta di “una differenza valutativa che però è l’opposto dell’esclusione: la possiamo chiamare differenza-specificità” (Gianformaggio 2005c: 204). La categoria stessa di identità è distinta da quella dell’uguaglianza e richiama piuttosto la categoria di differenza. Il principio d’identità, infatti, dice che ogni ente è identico a se stesso. Non potrà mai A risultare identico a B, laddove è rispetto a B che A può essere uguale o diverso. Ma in che senso, allora, l’identità richiama la differenza? Essere identico a sé significa essere diverso da ogni altro soggetto. Voler affermare la propria identità equivale a rivendicare la propria differenza da tutti

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gli altri. Mantenere distinguo, accentuare distanze, privilegiare distonie, rafforzare unicità: in una parola, difendere l’irriducibile singolarità di ciascun vivente.

Se le cose stanno così, bisogna fare attenzione. È fuori luogo invocare la differenza contro l’uguaglianza e ritenerle incompatibili esattamente perché uno dei significati dell’uguaglianza giuridica è l’uguaglianza come attribuzione a tutti degli stessi diritti fondamentali, cioè a dire considerazione e rispetto riservati in egual maniera a ogni diversa identità. Negli Stati costituzionali di diritto, il principio della dignità della persona esclude che la sameness possa contenere la benché minima traccia valoriale e indica precisamente il contrario: è un valore giuridico l’uguaglianza-specificità. Ciò comporta che le violazioni dell’uguaglianza giuridica in tale accezione sono sia la discriminazione in senso stretto, la differenza-esclusione, sia l’uguaglianza

valutativa, la sameness, l’adeguamento omologante che schiaccia le singolarità comprimendole in

un singolare collettivo eretto a paradigma.

Letizia Gianformaggio (2005d: 63-84) insiste molto sull’ampiezza dello spettro semantico della categoria giuridica di uguaglianza, per porre in chiara evidenza che l’uguaglianza sostanziale, definita nei termini di diritti fondamentali, deve fungere da argine massiccio che ancora la corretta applicazione delle regole generali ad un nucleo di contenuti vincolanti (Gianformaggio 2008a: 173-204). Così facendo, essa trattiene il principio di legalità dal rischio di scivolamenti in direzione liberticida, scherma, attraverso le cristallizzazioni valoriali dello ius, il principio dell’uguaglianza davanti alla legge da sempre possibili derive, come le vicende dei totalitarismi e degli autoritarismi non smettono di dimostrare. Con le parole di Tecla Mazzarese, si può ricordare che:

Nello stato costituzionale di diritto i quesiti di Bobbio relativi al «che cosa», al «chi» e ai «criteri» di affermazione dell’uguaglianza trovano risposta, tutti, in termini di diritti fondamentali e in funzione della loro tutela e attuazione. […] Il «che cosa» dell’uguaglianza giuridica consiste nell’attuazione e nella tutela dei diritti fondamentali, […] nella molteplicità e varietà di forme che, l’una e l’altra, possono richiedere. E proprio in quanto l’attuazione e la tutela dei diritti fondamentali individuano il che cosa dell’uguaglianza, il «chi», i soggetti, cioè, tra i quali e per i quali farla valere, non possono che essere tutti gli esseri umani; non solo chi è titolare dello status di cittadino. E infine, proprio in quanto il «che cosa» dell’uguaglianza è l’attuazione e la tutela dei diritti fondamentali, l’individuazione dei «criteri» per garantire l’uguaglianza non potrà che variare in relazione e in ragione sia della specificità dei diritti