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Ciò che, comunque, qui più ci interessa è la connessione tra la nuova concezione moderna del Principe – nuovo soggetto politico della modernità, appunto4 – e il primato della legge quale

strumento giuridico della sovranità. È sempre Grossi a guidarci:

«Lentamente ma incessantemente, alla vecchia psicologia di indifferenza verso larghe zone del giuridico si sostituisce una psicologia di occhiuta attenzione, un atteggiamento invadente, un coinvolgimento sempre maggiore nella produzione del diritto. Tutto questo, ben inserito all’interno di una visione del potere politico quale potestà omnicomprensiva, potestà sempre più compiuta. Inizia una lunga strada che vedrà il Principe su una battagliera trincea contro ogni forma di pluralismo sociale e di pluralismo giuridico.» (Grossi 2001, 29)

Tale lento e inesorabile percorso ci ha, dunque, condotto in Francia, alle soglie del XVII secolo: il Principe assoluto diventa ora l’assoluto legislatore, il sovrano ormai svincolato da quelle catene politiche e sociali entro il cui giogo la feudalità medievale lo tiene ancora, in qualche modo, allacciato. La loy diventa una norma che si autolegittima come legge, come volizione, appunto, di un soggetto sovrano:

«L’organismo politico, ormai assestatosi in una robusta – sempre più robusta – struttura autenticamente statuale, ha necessità di uno strumento normativo capace di contenere il fenomeno giuridico e di vincolarlo strettamente al detentore del potere, strumento indiscutibile e incontrollabile, che permetta di sbarazzarsi finalmente delle vecchie salvaguardie che parlavano, con un linguaggio sempre più irricevibile dalla Monarchia, di accettazione da parte del popolo o di organismi giudiziari e corporativi.» (Ivi, 32)

Il pluralismo delle fonti medievali (leggi, consuetudini, opinioni dottrinali, sentenze, prassi) si contrae ora nell’unica fonte rappresentata dalla volontà del Principe, soggetto politico «forte» (fortificato dall’umanesimo secolarizzatore), «individuo modello» svincolato dagli usi e dai costumi, «capace di leggere il libro della natura e tradurlo in norme» che si possono legittimamente pensare come universali ed eterne quali traduzioni in regole sociali di quella armonia geometrica che sorregge il mondo. Ed è così che, a partire da questa politicizzazione e formalizzazione della dimensione giuridica, si spezza quel legame essenziale fra società e diritto che (sia pure in un groviglio spesso non chiaro) caratterizzava ancora l’esperienza medievale.

Dal momento in cui, dunque, si costituisce lo Stato moderno, alla monopolizzazione del potere coercitivo corrisponde una monopolizzazione del potere normativo da parte dello Stato: solo le norme poste dallo Stato sono norme giuridiche. Lo capiamo anche, ad esempio, andando oltremanica, dalla posizione espressa da Hobbes contro la legittimità della common law, ovvero, di un diritto preesistente allo Stato e indipendente da esso. Nel Dialogo fra un filosofo e uno

studioso del diritto comune d’Inghilterra, scritto fra il 1665 e il 1666, Hobbes (il Filosofo),

polemizzando contro la common law difesa da un discepolo di sir Edward Coke (il Legista), così esplicitamente affermava: «Non è la sapienza, ma l’autorità che crea la legge» (Hobbes 1988, I, 401). E più avanti diceva, sempre per bocca del Filosofo: «le leggi vennero create d’autorità, e non ricavate da altri princìpi» (Ivi, 420).

4Un Principe, senza dubbio, diverso da quello medioevale che si identifica soprattutto in funzioni altamente

giudiziali, che produce poche leggi lasciando ad altre fonti – prassi e scienza – l’ordinamento giuridico della società.

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In tali definizioni, come ha sottolineato ancora Bobbio (1996, 25-7), già si evidenziano due caratteri tipici della concezione positivistica del diritto: il formalismo (la definizione del diritto è data solo in base all’autorità che pone le norme, e quindi in base a un elemento puramente formale) e l’imperativismo (il diritto è un comando); caratteri questi, come presto vedremo, che accompagneranno il processo di razionalizzazione del diritto fino a gran parte del XX secolo. Ma ciò che adesso a noi più interessa evidenziare, è che a partire da qui, dal momento in cui si registra il posizionarsi assoluto di tale sovrana “autorità”, si rende più esplicito quel processo che prima abbiamo già individuato: la legge, riducendo ai suoi termini l’intera dimensione giuridica, comincia a comprimere ogni spazio di autonomia del sociale: la legge che, appunto, dà ordine – ed ordina secondo il suo ordine – in quanto comando astratto, indifferente al suo contenuto, dapprima identificata politicamente con l’autorità del Principe e poi, nelle moderne democrazie, con la volontà generale. D’ora in avanti, il diritto coinciderà sempre di più con il potere: lo vediamo soprattutto attraverso le teorie politiche dei razionalisti del Settecento (e qui alcuni elementi delle concezioni assolutistiche si coniugano con le aspirazioni liberali), dove, appunto, l’idea dell’onnipotenza del legislatore (e, di conseguenza, quella della monopolizzazione del diritto da parte dello Stato) giunge a sua piena coscienza.

Su questa base – sulla continuità di elementi assolutistici nelle teorie liberali – si svilupperà, paradossalmente il positivismo giuridico, fino a quella stessa concezione “normativista” che ha pervaso la mentalità giuridica del secolo scorso: l’idea, cioè, di un diritto ridotto a norme e sanzioni. Pensare, infatti, il diritto come norma (e, di conseguenza, come sanzione) significa continuare a pensarlo in modo potestativo, come potere, perché – come spiega sempre Paolo Grossi – «significa coagulare ed esaurire l’attenzione dell’ordinamento nel momento in cui il comando si produce e si manifesta» (Grossi 2001, 55).

Ecco il punto. Il diritto, «tessuto ordinante del corpo sociale», specialmente quel diritto che registra i rapporti quotidiani tra i privati e che, per tutto lo scorrere della civiltà medievale, era stato dimensione della società, espressione dell’autonomia sociale, diventa dimensione del potere; di un potere sempre più separato dal sociale. È la mentalità codicistica, quella che, appunto, all’inizio del XIX secolo trova la sua massima espressione (e il suo più compiuto modello) nel Code civil napoleonico, che ora si appropria dell’intera esperienza giuridica, della sua storicità; una mentalità sostenuta dall’illuminismo e dalla concezione liberale dello Stato che assorbono inconfessabilmente e surrettiziamente i criteri dell’onnipotenza del legislatore e della monopolizzazione del diritto tipici delle teorie assolutistiche. Si afferma così un nuovo modo di concepire la produzione del diritto entro le strette maglie di un ordine giuridico sempre più annesso al potere politico. Espressione e modello del giusnaturalismo illuminista (di un giusnaturalismo che viene inevitabilmente a sfociare nel positivismo giuridico), la statalizzazione del diritto finisce per investire delle sue geometrie eterne ed universali anche il diritto civile, il più restio a farsi controllare nelle maglie del potere. Il Codice, anche se diretta manifestazione di valori universali, si riduce a voce del sovrano nazionale, a legge positiva dello Stato. Il gioco è fatto: il vecchio pluralismo giuridico finisce per contrarsi in un rigido monismo.

Ricapitoliamo, dunque, il percorso finora tracciato. Paolo Grossi individua i fondamenti essenziali della concezione moderna del diritto in quel lungo processo politico e sociale che sfocia storicamente nella figura del Principe assoluto. Come il soggetto-individuo della rappresentazione prospettica (di cui a breve ci occuperemo), così, il nuovo soggetto politico della modernità («individuo dall’assoluta insularità») diventa il “legislatore assoluto” del nascente ordine spaziale e territoriale. Il diritto, si è detto, si contrae nella legge (nel comando autoritario, nella volizione sovrana) e la ragione “oggettiva” (ontica, ordinamentale, inscritta nella natura delle cose, realizzata in un ordine preesistente il soggetto) cede il passo ad una ragione “soggettivamente

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ordinata”, ovvero, illimitatamente posta da una volontà (singolare ed astratta, ma non meno universalistica) sottratta ad ogni vincolo oggettivo. È attraverso la prospettiva autorevole della volontà del Principe (del nuovo soggetto sovrano) che ora la legge può ordinare i rapporti sociali secondo una ragione “soggettiva” desostanzializzata e svincolata dai suoi contenuti oggettivi (etici e sociali). Ed è proprio a partire da qui che la legge, riducendo al suo ordine l’intero diritto, finisce per assorbire nella sfera politica ogni spazio residuo di autonomia sociale. Siamo alle origini dell’individualismo moderno, alle soglie di quel processo storico (e antropologico) teso a liberare l’individuo (ora pensato nella sua astrattezza e artificialità morale) dai vincoli (e dai privilegi) in cui la società precedente (quella feudale) lo aveva collocato. Individuo fra tutti (sul piano politologico) il Principe, «individuo modello e modello di ogni individuo», ascrive alla sua volontà ordinante, al suo progetto ordinatore, ogni pluralità giuridica e sociale. Il suo strumento è la norma che si autolegittima come legge, come volizione di un soggetto sovrano; la stessa legge la cui «autorità» Michel de Montaigne, nella seconda metà del Cinquecento, riconduceva appunto ad un «fondamento mistico» e la cui «essenza» più tardi, nella seconda metà del Seicento, Blaise Pascal nei suoi Pensées (pubblicati postumi nel 1670), vedeva «tutta raccolta in sé»: «È legge e niente più», così affermava ponendo le basi di quella “critica genealogica” che in tempi più recenti (specialmente con Nietzsche, Foucault e Bourdieu) trova un suo proprio spazio (Pascal 1983, I, 141). Questa linea di sviluppo attraversa i secoli tardo-medievali e proto-moderni, e dalle normazioni dei Principi raggiunge l’assolutismo regio e la Rivoluzione fino all’affermazione del positivismo giuridico ottocentesco (e del normativismo novecentesco) dove appunto la legge, ormai svincolata da ogni altro valore che non sia quello della sua autorità, giunge alla coscienza del giurista come “pura forma”.

A conclusione, dunque, di quel lungo processo che si consolida in Francia alla fine del XVIII secolo, la legge, quale espressione della volontà generale e quale norma suprema posta al vertice della “piramide normativa”, si annuncia come il migliore strumento politico capace di produrre e condizionare ogni espressione della giuridicità. D’ora in avanti – si è detto – il diritto finisce sempre di più per coincidere con il potere. Se, infatti, l’impianto positivo del diritto continua ad essere concepito come una “piramide normativa”, un universo di comandi, posto (positum) da una volontà e da una autorità formalmente investita del potere e pertanto munita del crisma della ufficialità, si continua ad avere di esso una visione essenzialmente potestativa (legata al potere), astratta (svincolata dai processi sociali), legalista (legata cioè – come aveva già compreso Max Weber nella sua analisi dei processi di razionalizzazione formale del diritto5 – al rispetto della

forma-legge) e statualistica (limitata, cioè, ai confini nazionali dello Stato). Detto altrimenti, la visione imperativistica moderna, che identifica il diritto in una norma (posta al vertice di una rigidissima gerarchia), ossia in una regola autorevole e autoritaria, finisce per vincolare la legge al potere politico quale comando di un superiore a un inferiore. È la strada, come è noto, che conduce direttamente al formalismo astratto di uno tra i più autorevoli e influenti giuristi del Novecento: l’austriaco Hans Kelsen.

Non stupisce, pertanto, se proprio qui, nel “normativismo” kelseniano, ritroviamo fatalmente l’immagine della piramide: la piramide geometrica come “forma simbolica”6, come

“momento stilistico” tramite il quale è possibile rileggere l’intera teoria delle norme proposta da Kelsen. Qui si tratta, infatti, di pensare una vera e propria “piramide normativa”, un’idealizzazione

5Ci riferiamo, come si può ben capire, alla sua Sociologia giuridica (Weber 1961, II, 1- 200).

6Usiamo qui l’espressione “forma simbolica” nello stesso senso datogli da Cassirer e ripreso da Panofsky:

una forma attraverso la quale un particolare contenuto spirituale viene connesso a un concreto segno sensibile e intimamente identificato con questo.

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geometrica attraverso la quale si rende “cartesianamente” visibile la struttura gerarchica dell’intero sistema giuridico.

Come, infatti, sappiamo, elemento essenziale e originario dell’esperienza giuridica è, per Kelsen, la norma, cioè la regola di diritto che esprime un dovere (di condotta): un “dover-essere” (Sollen) distinto dalla sfera dell’“essere” (Sein). Conferendo, poi, all’ordinamento giuridico una struttura a gradi, l’esistenza specifica di una norma viene legata a un più vasto sistema internormativo disposto in senso gerarchico. Una norma giuridica esiste solo se è stata prodotta in conformità ad una norma di grado superiore. Ne consegue che le norme giuridiche presentano un ordine gerarchico che procede per gradi fino alla Grundnorm, la “Norma fondamentale”, che fonda la validità e l’efficacia del sistema secondo una catena più o meno lunga di delegazioni.

Nella prospettiva adottata da Kelsen, la struttura complessiva dell’ordinamento giuridico si dispone, pertanto, in forma piramidale, basandosi l’intero sistema su un’unica Norma fondamentale (la Grundnorm, appunto). Solo la Norma fondamentale, posta al vertice della piramide normativa, può dare validità ed efficacia all’intero sistema normativo. Scrive il giurista nella Teoria generale del diritto e dello Stato (testo del 1945):

«Il rapporto fra la norma che regola la creazione di un’altra norma e quest’altra norma può essere raffigurato come un rapporto di sopra-ordinazione e di subordinazione, per avvalersi di espressioni spaziali. La norma che determina la creazione di un’altra norma è la norma superiore, la norma creata secondo tale regolamentazione quella inferiore. L’ordinamento giuridico, e specialmente l’ordinamento giuridico la cui personificazione è lo Stato, non è pertanto un sistema di norme coordinate la une con le altre, che stiano, per così dire, a fianco a fianco sullo stesso piano, ma una gerarchia di diversi piani di norme. L’unità di queste norme è costituita dal fatto che la creazione di una norma – quella inferiore – è determinata da un’altra – quella superiore –, la cui creazione è determinata da una norma ancora superiore, e questo regressus ha termine con la norma più alta, quella fondamentale, la quale, essendo il fondamento supremo della validità dell’intero ordinamento giuridico, ne costituisce l’unità.» (Kelsen 2000, 126)

Al cuore del formalismo giuridico moderno ritroviamo, dunque, l’immagine prospettica della piramide normativa. E la troviamo proprio nella costruzione della nota “Dottrina giuridica pura” proposta da Kelsen, in quella struttura gerarchica risolta in un castello di forme che traggono forza soltanto da se stesse, in quel sistema geometrico astratto fondato e scaturito dal nulla.

Ritroviamo pertanto la “forma-piramide” al cuore di quelle “mitologie giuridiche della modernità” (prendo ancora in prestito tale espressione dalla felice e mirabile penna di Paolo Grossi) che vedono ormai il diritto formalisticamente ridotto ad un sistema di norme, comandi e sanzioni, la legge indissolubilmente associata al potere e la società irrimediabilmente contratta nella cristallizzazione statale.

È in tale prospettiva giuridica, quindi, che il percorso storico ricostruito da Paolo Grossi mostra il crescente legame stabilitosi tra la concezione potestativa, normativista e formalista del diritto (rafforzata dalla mentalità tipicamente illuminista, testimoniata storicamente nei diversi processi di codificazione e largamente presente nel positivismo giuridico europeo) e il consolidarsi, sul piano politico, dello Stato nazionale moderno quale nuovo soggetto sovrano capace di ridurre l’intero processo di normazione al primato della legge – come comando imperativo sovrano – rispetto alla pluralità delle fonti giuridiche. Ma mostra anche, sul piano giuridico, quel processo di concentrazione del potere politico e di rarefazione del diritto nella legge (nel principio di legalità, di conformità alla legge) su cui poggia, in parte, e in via generale, il

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principio della statualità moderna, almeno nella misura in cui lo stesso, per potersi giuridicamente esercitare, presuppone la legge come pura forma, come comando astratto, come atto indifferente ai contenuti valoriali.

Sono questi gli esiti del processo di riduzione del diritto a legge e della sua «trasformazione in legalità statale»; gli esiti della crisi della scienza giuridica europea, di quella «letale riduzione del diritto a legge», nello «stile francese», che già lamentava Carl Schmitt, con orgoglio giuridico, nel 1943-44 (Schmitt 1996, 80-88).

Come nella Dioptrique, nella “teoria della visione” che Cartesio derivava dalle tecniche prospettiche della pittura del Rinascimento, occorreva idealizzare lo spazio (giuridico-legale), concepirlo come un essere perfetto nel suo genere, chiaro, malleabile, ordinabile ed omogeneo. E ciò, presupponeva, appunto, la contrazione del diritto nella legge dello stato, nella norma positiva imposta, dotata di mezzi coercitivi, sancita dalla volontà statale.

4. Percorsi artistici.

Il percorso fin qui tracciato – che attraversa, sia pure in modo schematico e sommario, alcune categorie del politico e della riflessione giuridica – meriterebbe sicuramente una trattazione più approfondita; prima ancora dello Stato moderno, sarebbe, ad esempio, opportuna un’analisi della statualità medievale (quel “corpo politico” che non muore mai7), come, del resto,

avrebbe una sua utilità una lettura più attenta dell’opera di Bodin o di Hobbes.

Tuttavia, quello che qui più ci interessa è, come prima si è detto, una rilettura di tale percorso sul piano della riflessione estetica, o meglio, alla luce di quel laboratorio di immagini che l’arte pittorica è in grado di offrire al pensiero, nella misura in cui la stessa si rende capace di dare una compiuta visione delle trasformazioni storiche, sociali e semantiche che definiscono e investono il mutare delle “strutture mentali”.

Ci concentreremo, dunque, su un particolare momento, su un fondamentale processo nella storia della pittura italiana, che, a partire dal XV secolo, vede il progressivo affermarsi, attraverso la rappresentazione prospettica lineare e “centrale”, di una nuova realizzazione (e razionalizzazione) “scientifica” che non interessa soltanto i valori legati alla percezione, alla visualizzazione e alla raffigurazione“spaziale”, ma anche l’elaborazione teorica di una precisa struttura concettuale capace di anticipare e riflettere – ed è ciò che più ci interessa – la costruzione giuridica della realtà. Se, quindi, ci interessiamo adesso a tale problema non è tanto per un interesse puramente estetico risolvibile nella contemplazione di opere d’arte più o meno importanti per il loro contenuto esteriore (l’immagine rappresentata) o per la loro connessione puramente formale con la cultura giuridica, quanto perché siamo fortemente convinti che nell’esperienza pittorica riposi tutta una capacità di anticipare, esprimere e configurare (attraverso la rappresentazione simbolica) la riflessione logico-analitica sul piano non solo della percezione visiva (l’idea dello spazio, appunto) ma anche su quello, per noi più importante, del mutamento delle strutture giuridiche, politiche e sociali (l’organizzazione, ad esempio, dei rapporti societari)8.

Detto altrimenti, ciò di cui adesso ci dobbiamo in primo luogo occupare, è l’impalcatura

7E qui, come si può ben capire, mi riferisco essenzialmente al noto libro di Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del re (Kantorowicz 1989).

8 Si tratta, in tal caso, di pensare l’estetica non tanto quale teoria della sensibilità come forma

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logica e formale che sostiene l’immagine pittorica e che definisce ed interpreta, a partire dal Rinascimento italiano, un nuovo modo di intendere i valori formali della percezione9, riflettendo

in tal senso, nella sua struttura gnoseologica costitutiva, le dinamiche storiche di quei processi sociali, specialmente di natura giuridica, entro i cui termini, appunto, si viene a ordinare la sua stessa capacità riflessiva (sul piano estetico). E si tratta di un modo, possiamo già dirlo, che vede nella costruzione prospettica il dispiegarsi di una razionalità soggettiva ordinata alla sovranità di uno sguardo individuale, trascendente e, insieme universale.

4.1 Lo spazio prospettico del Rinascimento italiano

Già nella prima metà del XV secolo, nel mondo cristiano di Occidente, alcuni pittori come Cimabue, Giotto, Taddeo Gaddi, Duccio da Buoninsegna, dietro l’influsso dell’intellettualismo scolastico, si erano allontanati da quella realtà mistica e invisibile espressa ancora nella regola liturgica dell’icona orientale (l’arte, per eccellenza, del “trascendente” e del “sacro”). Introducendo, infatti, lo sguardo dell’osservatore come elemento strutturante il quadro, dando una “forma visiva” dello spazio e offrendo le linee di profondità nella rappresentazione (nonché il realismo ottico e il chiaroscuro), la loro pittura rompeva con i “canoni iconografici” stabiliti dalla Chiesa d’Oriente ed affermava, così, la sua indipendenza dal rituale. Proprio a partire da questo momento, la visione pittorica occidentale, sempre più “soggettiva” (e sempre più soggetta ai trasporti psichici individuali), non trovava più integrazione nel “mistero liturgico”. L’opera perdeva pian piano il linguaggio dei simboli e la forza delle “presenze invisibili”: da “sacra” – come spiega ancora Evdokìmov – diventava semplice «rappresentazione religiosa». Lo possiamo già comprendere dalle nuove ragioni tecniche e compositive che definiscono adesso lo spazio pittorico. Dato che l’arte della nuova epoca vuole rendere materialmente omogenea la superficie dell’opera, esclude dalla superficie corpi materialmente “estranei”, lo sfondo dorato, le pietre incastonate. «Il quadro – lo spiega Werner Hofmann (2003, 61) – ora è dominato interamente da una pennellata soggettiva» che allude a «pre-figurazioni elementari», a zone «pre-oggettuali» . E siccome la pittura rinascimentale si propone di dare sul piano l’illusione della solidità corporea e della profondità spaziale, ci si deve definitivamente sbarazzare dei legami medievali di superficie.

Avremmo dovuto, però, aspettare ancora due generazioni di pittori per poter correttamente parlare di prospettiva “centrale”, “lineare”, “matematica” o “artificiale”. Le nuove esigenze culturali e sociali del tempo – di cui tra breve parleremo – avevano bisogno di una lunga elaborazione teorica e pratica (capace di incidere significativamente sul processo di trasformazione delle forme mentali dell’epoca) prima di maturare e trovare adeguate risposte sul piano della riflessione pittorica; una riflessione, appunto, che divenne, in virtù di una costruzione matematica della rappresentazione, essenzialmente “prospettica”. Di questa ci dobbiamo adesso