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ENTEROCOCCHI E ANTIBIOTICORESISTENZA

PATOGENI OPPORTUNISTI E FATTORI DI VIRULENZA

1.5 ENTEROCOCCHI E ANTIBIOTICORESISTENZA

Gli enterococchi sono largamente studiati a causa della loro multi-resistenza agli antibiotici (Rubinstain et al., 2011; Medina-Polo et al., 2014). Non sono solo ceppi multi-resistenti di origine nosocomiale a destare preoccupazione, ma anche tutta una serie di enterococchi non patogeni che sempre più spesso ritroviamo nella pratica odierna, come ad esempio quelli utilizzati come fonte probiotica, ma potenzialmente in grado di acquisire fattori di resistenza. Alcuni autori, infatti, hanno indagato l’eventuale resistenza di ceppi probiotici, che seppur privi di geni di resistenza, possono potenzialmente acquisirla con rapidità (Klein et al., 2003; European Commission 2001). Tutti gli enterococchi posseggono una ridotta suscettibilità che potremmo quasi definire intrinseca, nei confronti di penicilline e penicilline, con MICs cento volte superiori a quelle riscontrate negli Streptococchi. Tale resistenza sembrerebbe legata ad una specifica mutazione del gene che codifica per la proteina PBP-5. Percentuali di resistenza a tali molecole da parte di E. faecalis ed E. faecium rispettivamente in Europa e negli Stati Uniti ammontano al 1%; 76% e 2%; 80% (Huycke et al., 1998). Questa situazione deriverebbe probabilmente dal fatto che le associazioni di beta-lattamici di diversa generazione, sono state per più di mezzo secolo, una valida scelta terapeutica nel trattamento delle infezioni da enterococchi, sia nell’uomo, che anche nel cane, dove l’ampicillina è uno degli antibiotici più utilizzati. Ad oggi, la resistenza all'ampicillina, seppur più rara in E. faecalis rispetto ad E. faecium, si verifica in circa il 90% dei ceppi isolati all’interno delle strutture ospedaliere umane. Una delle modalità per combattere tali molecole da parte dei microrganismi batterici risulterebbe proprio quella di sintetizzare beta-lattamasi. Tale strategia è piuttosto rara nel genere Enterococcus se non per alcuni ceppi di E.

faecalis. Il meccanismo attraverso il quale viene garantita resistenza all'ampicillina in E. faecium, infatti, è dato dalla produzione proprio di proteina PBP-5. Il gene in

grado di garantire questa ampicillino-resistenza può essere trasferito tra le cellule batteriche attraverso un trasposone. Risulta singolare osservare come un sensibile

preceduto un esponenziale aumento della resistenza alla vancomicina, prima in territorio Statunitense, poi in territorio Europeo (Arias & Murray 2013). In uno studio condotto nel 2003, invece, livelli di resistenza nei confronti di lincosammidi e amminoglicosidi risultano bassi (Kayser et al., 2003). Questa condizione, nel caso delle basse resistenze identificate verso gli aminoglicosidi, sarebbe conseguenza del fatto che tali molecole vengono poco utilizzate in ambito clinico sia umano che veterinario, data la loro scarsa maneggevolezza farmacologica, soprattutto legata alle loro potenzialità nefrotossiche. La resistenza nei confronti degli aminoglicosidi, ad eccezione della streptomicina, è garantita da uno specifico enzima, il quale interagendo con la molecola antibiotica ne ridurrebbe l’affinità di legame nei confronti della subunità ribosomiale del microrganismo stesso (Arias et al., 2013). Risulta inoltre una naturale resistenza alle cefalosporine (Kayser et al., 2003). Fino a qualche tempo fa solo alcuni agenti antimicrobici tra cui daptomicina, linezolid, quinupristina-dalfopristin e tigeciclina erano disponibili al fine di poter garantire una copertura crociata a possibili infezioni sostenute da ceppi di enterococchi multi- resistenti (Lee et al., 2007). L’antibiotico-resistenza di molti ceppi di enterococchi, in particolare di quelli appartenenti alle specie: E. faecalis ed E. faecium, risulta quindi una realtà ormai consolidata ed ampiamente avvalorata da dati scientifici. La resistenza, alla daptomicina ad esempio, un antibiotico lipopeptidico, comunemente usato negli Stati Uniti ed in altri paesi per il trattamento di infezioni causata da enterococchi vancomicina-resistenti (VRE), è stata già ampiamente dimostrata attraverso l’isolamento di ceppi di E. faecalis (con particolare riferimento al clone R712). Dati sconcertanti evidenziano il fallimento della molecola antibiotica, data la persistenza del microrganismo in soggetti umani infetti, sia prima che dopo terapia con il suddetto antibiotico. Alcuni studi mostrano inoltre che l’acquisizione della resistenza è avvenuta a seguito di alcune specifiche mutazioni genomiche del microrganismo ed in tempi estremamente rapidi (Lee et al., 2007; Balli et al., 2014). Data la rapida insorgenza di ceppi resistenti nei confronti della daptomicina, quest’ultima non può più trovare un suo impiego esclusivo nel trattamento delle infezioni sostenute da enterococchi. Nonostante i dati appena descritti, alcuni studi,

anche recenti e condotti da illustri autori, stanno dimostrando che, negli approcci terapeutici con più antibiotici, l’ausilio di questa molecola assieme ad altri antibiotici come ad esempio il ceftobiprole o l’ampicillina aumentano notevolmente l’efficacia delle molecole (Werth et al., 2014). Purtroppo non sempre questo approccio farmacologico vanta sicura efficacia, infatti, uno studio condotto nel 2014 ha dimostrato che, terapie mirate verso endocarditi enterococciche nell’uomo, mediante doptamicina e ceftriaxone, non ha generato risultati di fatto confortanti (Piszczek et

al., 2014), nonostante questo dato non trovi riscontro su alcuni studi effettuati in vitro, dai quali emerge invece una buona risposta antibiotica (Hall Snyderi et al.,

2014). Nonostante la maggior parte dei dati sulla resistenza nei confronti di questo antibiotico siano scoraggianti, alcuni lavori in medicina umana, ne vantano ancora un successo terapeutico. In un case report condotto nel 2014, un paziente che aveva contratto una infezione da enterococchi multi-resistenti a seguito dell’applicazione di un impianto protesico, è riuscito a debellare l’infezione proprio grazie all’uso della doptamicina (Yuste et al., 2014).

Il linezolid è stato il primo oxazolidinone introdotto per uso clinico nei primi anni 2000. È un inibitore della sintesi proteica nei microrganismi batterici, legandosi sulla subunità 50S del ribosoma (Balli et al., 2014). Le mutazioni sulla sequenza di DNA ribosomiale nel dominio V della subunità 23S sono il principale meccanismo che conferisce resistenza microbica al linezolid (Lee et al., 2007). In realtà la resistenza al suddetto antibiotico non risulta una evenienza molto frequente nel genere

Enterococcus, ma se presente in pochi cloni cellulari, la rapidità della trasmissione

del gene di resistenza è molto rapida, in quanto il fattore di resistenza è codificato in un plasmide. Alcuni studi effettuati in umana riportano tuttavia già una consistente casistica in cui viene ampiamente dimostrato che tale molecola risulta poco efficace, come nel caso di alcuni soggetti affetti da polmonite enterococcica con conseguenti difficoltà terapeutiche (Yu et al., 2014). Alcuni drammatici casi, sempre in ambito umano, che hanno riguardato infezioni nosocomiali da enterococchi linezolid resistenti, sono state descritte in Norvegia (Hegstad et al., 2014). Nonostante una

suddetta molecole, alcune eccezioni vengono ancora descritte, come in un case report del 2013 in cui un paziente umano affetto da meningite batterica sostenuta da VRE, è stato trattato con successo mediante monoterapia con linezolid (Frasca et al., 2013). Il quinupristin-dalfopristina, una miscela di due streptogramine semisintetiche potrebbe essere anch’esso utilizzato per il trattamento delle infezioni sostenute da (VRE). Anche quest’ultimo fonda il suo principio di azione sull’inibizione della sintesi proteica ed anche in tal caso la resistenza è stata ampiamente riscontrata attraverso studi scientifici effettuati da illustri autori (Chong et al., 2010; Isogai et al., 2013).

Dato che abbiamo più volte citato un importante antibiotico non riportato tra gli antibiotici d’uso comune, mi sembra doveroso introdurlo dal punto di vista delle caratteristiche molecolari e farmacologiche, per poi descriverne l’eventuale resistenza generata da taluni ceppi di enterococchi. Quest’ultimo viene conosciuto come vancomicina, un antibiotico ad azione battericida, in genere attivo nei confronti della maggior parte dei cocchi e bacilli gram positivi, compresi alcuni ceppi di

Staphylococcus aureus e ceppi di stafilococchi coagulasi-negativi, resistenti ad altre

molecole (Figura n.13). Nel cane questo farmaco viene utilizzato per la profilassi o il trattamento di infezioni da Staphylococcus spp., Streptococcus spp., causa di endocarditi e setticemia, enterocoliti clostridiche e per il trattamento di infezioni urinarie da Enterococcus spp. Nel gatto la vancomicina viene utilizzata per il trattamento di colangioepatiti batteriche. Il meccanismo di azione della suddetta molecola è deputato all’inibizione della sintesi della parete batterica, attraverso un blocco selettivo della polimerizzazione del peptidoglicano. La vancomicina blocca l’azione dell’enzima transglicosilasi il quale lega le diverse unità di disaccaridepentapeptide; l’antibiotico si lega tramite legame idrogeno, al gruppo terminale D-alanina D-alanina di ciascun pentapeptide, impedendo l’allungamento della catena glicanica della parete batterica. La vancomicinanon ha un’attività puramente battericida, ma in alcune specie batteriche la sua attività risulta essere prevalentemente batteriostatica proprio come nel caso degli enterococchi. Da un punto di vista puramente farmacocinetico, la vancomicina penetra in tutti i tessuti e

raggiunge alte concentrazioni nei liquidi corporei, come quelli pleurici, pericardici, sinoviali e nel liquor. Nel secreto biliare si riescono anche a raggiungere concentrazioni terapeutiche. Il farmaco viene escreto dal rene, senza subire alcun tipo di metabolizzazione (Mccormik et al., 1955-56 Mc Guire et al., 1955-56; Higgins et

al., 1957-58; Reynolds et al., 1961). La vancomicina viene generalmente scelta, in

ambito umano, per trattare tutte quelle infezioni da Gram positivi, come ad esempio

Staphylococcus aureus e Staphylococcus epidermidis, in genere resistenti alle

penicilline o alle cefalosporine e per gravi infezioni da stafilococchi, o nel caso in cui si dovessero verificare forme di endocarditi causate da streptococchi viridanti o da enterococchi. Purtroppo nei confronti degli enterococchi, la resistenza risulta essere più frequente e viene codificata da un trasposone, il quale contiene un insieme di nove geni che trasformano l’ultima alanina della catena peptidica della molecola in un lattato, impedendo in questo modo il legame tra antibiotico e subunità microbiche. I bacilli Gram negativi possono risultare naturalmente resistenti al suddetto antibiotico, a causa dell’incapacità̀ di tali molecole, piuttosto grandi, di attraversare la membrana lipidica esterna di tali microrganismi (Mccormik et al., 1955-56 Mc Guire

et al., 1955-56; Higgins et al., 1957-58; Reynolds et al., 1961; Cook et al., 1978;

Intorre L., 2009). La resistenza acquisita degli enterococchi ai glicopeptidi, ed in particolare alla vancomicina, è mediata da diversi meccanismi, tutti codificati da specifici geni di resistenza quali (Van A / B / D / E / G / L) (Figura n.14). I genotipi di resistenza VanA e VanB sono i più diffusi in Europa. Secondo alcuni autori, l'uomo sembrerebbe costituire il reservoir di ceppi di E. faecium portatori dei principali geni di resistenza quali VanA e VanB (Willems et al., 2005; Willems et al., 2007), in quanto ricordiamo che, microrganismi appartenenti al genere Enterococcus sono in primo luogo commensali del tratto gastroenterico e solo in un secondo momento patogeni opportunisti. Di fatto la situazione in Europa per quanto riguarda i VRE risulta piuttosto varia, con prevalenze che vanno dal1’1% al 40%, ma ciò che realmente preoccupa e che emerge da molti studi è l’aumento delle resistenze. Il problema spesso si traduce con la sempre più diffusa prescrizione di nuove molecole

antibiotica, come è accaduto e sta accadendo per la vancomicina, o peggio verso classi antibiotiche di ultima generazione come nel caso dei carbapenemi. Ormai da tempo alcuni ceppi di enterococchi vancomicina resistenti (VRE), si stanno sviluppando e stanno descrivendo una epidemiologia del tutto propria. Nell’uomo risultano, infatti, numerose situazioni di epidemie sostenute da VRE in ambito ospedaliero umano (Karanfil et al., 1992; Handwerger S. et al., 1993). Negli Stati Uniti le infezioni nosocomiali in ambito umano sostenute da ceppi di VRE, secondarie all’ospedalizzazione dei pazienti, sono raddoppiata nel periodo che intercorre dal 2003 al 2006 (Ramsey et al., .2009). La maggior parte dei VRE isolati durante alcune infezioni nosocomiali, sia nel cane che nell’uomo, appartengono alla specie E. faecium. La resistenza alla sopracitata molecola è stata riscontrata nel 60% degli E. faecium isolati, mentre nel caso di ceppi isolati di E. faecalis, la resistenza si aggira attorno al 2%. Dati scientifici ormai consolidati, mostrano che la tendenza alla resistenza verso tale molecola sarebbe di fatto in aumento, raggiungendo percentuali anche dell’80% nel caso di E. faecium e del 7% nel caso di E. faecalis (Uttley et al., 1989; Livornese et al., 1992; Bonten et al., 1998; DiazGranados et al., 2005).

La sola conoscenza dei ceppi, in relazione alla loro resistenza al suddetto antibiotico, non è rimasta unica fonte di interesse da parte della comunità scientifica, ma lo studio della intima relazione molecolare che legherebbe o meno talune delle popolazioni clonali osservate, ha spinto gli scienziati a mappare tali cloni attraverso l’ausilio di metodiche di fingerprint. Uno studio condotto da Klare (Klare et al., 2005) mostra che l'aumento della frequenza di VRE in alcuni ospedali umani Europei non è associata alla diretta diffusione di una particolare popolazione clonale. Inoltre la diffusione di talune popolazioni clonali derivanti da una unica popolazione di partenza sembrerebbe non essere legata al trasferimento dei pazienti nei diversi ospedali (Klare et al., 2005). Tale affermazione potrebbe essere avvalorata anche dal fatto che il clone CC-17 vancomicina resistente è stato riscontrato in vari ospedali, non solo Europei, ma anche negli Stati Uniti.

Numerosi sono gli studi che, in Medicina Veterinaria così come in ambito Medico Umano, stanno cercando di comprendere meglio le infezioni da degli enterococchi.

Cani e gatti, ormai sono parte integrante della vita dei loro proprietari, e questa quasi a volte simbiosi, potrebbe contribuire a complicare l’epidemiologia degli enterococchi stessi, i quali, albergando sempre più spesso come patogeni opportunisti nei loro ospiti, potrebbero, in maniera del tutto inosservata, colonizzare il tratto gastroenterico di nuovi soggetti, siano essi appartenenti al mondo umano, che al mondo animale. In ambito veterinario la distribuzione dei VRE è in continua crescita, infatti, in uno studio condotto da Monaghan su alcune popolazione canine in città e in ambiente rurale, il livello di resistenza agli antimicrobici in enterococchi e in E. coli isolati, si è rivelato piuttosto alto. Un dato interessante emerge dal fatto che nei cani che vivevano in città, i ceppi isolati mostravano un grado di resistenza inferiore rispetto a quelli che vivevano all’interno degli allevamenti di animali da reddito, nonostante i cani in ambiente urbano fossero prevalentemente sottoposti a cure antibiotiche da parte dei proprietari. Verosimilmente tale condizione deriverebbe dal fatto che i cani, all’interno degli allevamenti zootecnici, venivano indirettamente esposti agli antibiotici utilizzati negli animali produttori di alimenti (Monaghan et al., 1981).

La resistenza nei confronti della vancomicina da parte di ceppi di enterococchi isolati nei cani è un problema di fatto sempre più diffuso, non solo per l’utilizzo della vancomicina stessa, ma, probabilmente, anche a causa dell'uso dell'avoparcina in animali da allevamento (Van Belkum et al., 1996). Intorno alla metà degli anni novanta in Olanda, la prevalenza VRE nei cani fu del 48%, inoltre la metà dei ceppi isolati avevano affinità genetiche con ceppi isolati in pazienti umani (Van Belkum et

al., 1996). In Belgio, la prevalenza di isolamento è stata descritta attorno all’ 8%

(Devriese et al., 1996). A causa della sempre crescente problematica, l'uso della vancomicina per il trattamento degli animali fu legalmente proibito in Finlandia nel 1995. In uno studio condotto da Graef (Graef et al., 2004) su un’ampia popolazione canina ospitata in canili sanitari è stata riscontrata una elevata resistenza da parte di ceppi di enterococchi e di E.coli nei confronti di tetracicline, quinupristina, dalfopristina e di gentamicina. Parte dei ceppi resistenti alla gentamicina erano

erano inoltre resistenti ad eritromicina e tilosina (Butaye et al., 2001; SCAN, 2002). Studi condotti negli ultimi anni hanno cercato di disegnare un quadro più dettagliato possibile del fenomeno dell’antibiotico resistenza in ceppi di enterococchi isolati in animali da compagnia, quali prevalentemente cani e gatti. Uno studio effettuato in Giappone tra il 2011 e il 2012 mette in evidenza almeno tre aspetti cruciali. Il primo è legato al fatto che la prevalenza di isolati apparteneti al genere Enterococcus è di fatto molto alta: circa 83% nei cani e il 44% nei gatti indagati. In secondo luogo, è interessante osservare che la principale specie di enterococco isolato è proprio E.

faecalis (circa il 65% di isolati nella totalità dei campioni). L’ultima informazione

che salta all’attenzione della comunità scientifica è data da un aumento di ceppi caratterizzati della presenza, rivelata da metodiche molecolari, di fattori genetici di virulenza e di antibiotico-resistenza. A seguito di una analisi dei dati generati dal suddetto studio, l’antibiotico resistenza alle singole molecole e ad un approccio terapeutico di tipo multimodale, sembrerebbe essere in aumento (Kataoka et al., 2014). Sorge spontaneo dunque avanzare alcune importanti considerazioni in quanto, comparando le informazioni generate dai sopracitati autori con i dati riportati da studi effettuati in ambito umano, molti punti sembrerebbero di fatto comuni, dalla prevalenza di isolamento della specie E.faecalis anche in ambito veterinario, alla resistenza verso molecole comuni, ed infine, alle omologie genetiche indagate mediante metodiche di fingerprint sui i ceppi isolati nell’uomo e negli animali da compagnia. Questo lascerebbe pensare che l’epidemiologia degli enterococchi in ambito umano e veterinario sarebbero caratterizzati da momenti di sovrapposizione. Uno studio condotto da Leener nel 2005 ha messo in relazione la presenza, in ceppi di enterococchi isolati, di geni che codificano per fattori di resistenza all'eritromicina, alla tilosina, alla lincomicina, alle streptogramine, alle tetracicline, al cloramfenicolo, alla gentamicina, alla kanamicina e alla vancomicina con l’effettiva MIC testata per i ceppi isolati. I risultati, descritti in Tabella n.5 destano sempre maggiore preoccupazione, ed avvalorano la teoria che l’utilizzo di molecole analoghe od omologhe tra terapia antibiotica nell’uomo e nel cane, complichi l’insorgenza delle resistenze stesse (Leener et al., 2005). Uno studio condotto nel 2012, ha dimostrato

che ceppi di enterococchi appartenenti al complesso del clone CC-17 sono stati isolati con elevata frequenza sia in pazienti umani (ospedalizzati come descritto sopra), che in cani e gatti. Un aspetto interessante emerge dal fatto che molti dei fattori di virulenza, nonché di resistenza antimicrobica, risultavano comuni tra gli isolati nell’uomo e nel cane. Tuttavia, è possibile anche evidenziare alcune differenze tra alcuni fenotipi di resistenza come quella agli aminoglicosidi o ad alcuni geni di virulenza, come la presenza dei geni Esp e Hyl, che risultavano maggiormente rappresentati in ceppi isolati dall’uomo. Di fatto i cloni appartenenti al complesso CC-17 potrebbero avere una maggiore propensione ad infettare sia l’uomo che animali. Tale affermazione è avvalorata dal fatto che le indagini mediante metodica molecolare in PFGE hanno dimostrato che tra i ceppi isolati dall’uomo e quelli isolati dagli animali l’affinità genetica risultava molto alta (Kwon et al., 2012). Uno studio condotto da Trembly (Trembly et al., 2013) ha ulteriormente dimostrato che la cross- trasmissione di particolari ceppi di enterococchi antibiotico-resistenti è di fatto una realtà concreta. Come precedentemente descritto per il complesso del clone conosciuto come CC-17 VRE, in questo lavoro è stato dimostrato che alcuni ceppi di ARE (enterococchi ampicillino-resistenti), con particolare riferimento al clone ST202, sono stati isolati contemporaneamente in pazienti umani affetti da infezioni nosocomiali sostenuto dal suddetto clone e in cani. É inoltre possibile osservare che mentre nei pazienti umani la resistenza alla vancomicina risultava piuttosto alta, nel caso dei cani analizzati invece la resistenza apparirebbe nulla. Uno studio effettuato in Spagna ha dimostrato che a seguito di un’analisi condotta su campioni di feci di soggetti umani e di cani sani, i principali geni di resistenza alla vancomicina quali

VanA e VanB, non sono stati riscontrati. Tuttavia da circa il 12% dei campioni

analizzati, sono stati isolati ceppi di E. gallinarum e E. casselliflavus che sembrerebbero possedere una intrinseca resistenza non solo alla vancomicina, ma anche ad altre classi antibiotiche (Lopez et al., 2012). In realtà, studi di epidemiologia molecolare condotti in territorio spagnolo, avevano dimostrato la presenza in popolazioni umane e animali di enterococchi portatori di geni di

al., 2000; Torres et al., 2003). Questo suggerirebbe ulteriormente che la resistenza

degli enterococchi alla vancomicina o ad altre molecole non sarebbe solo legata alla trasmissione e alla diffusione di geni di resistenza, ma la stessa pressione antibiotica in un determinato areale di distribuzione potrebbe giocare un ruolo determinante. Una così ampia diffusione di quelli che sono i soggetti considerati portatori sani di ceppi VRE è un punto di notevole interesse e discussione soprattutto negli ultimi anni. La comunità scientifica, infatti, si sta interessando alla possibilità di approfondire e controllare l’epidemiologia dei suddetti ceppi attraverso il controllo e la gestione dei pazienti considerati portatori sani di microrganismi multiresistenti. Seppur in cani e gatti, infatti, le infezioni enterococciche non siano frequentissime, in studi recenti viene dimostrata che le multiresistenze antibiotiche potrebbero essere acquisite direttamente nel tratto gastroenterico di questi animali (De Graef et al., 2004). Tale condizione potrebbe verosimilmente generare dei reservoir di ceppi microbici i quali geni di resistenza verrebbero facilmente diffusi. L’interesse scientifico, infatti, non ha suscitato consenso solo in ambito medico umano, ma anche in ambito medico veterinario, in quanto cani e gatti appartenenti a nuclei familiari consolidati, potrebbero a loro volta essere portatori sani di ceppi multiresistenti e contribuire alla diffusione dei ceppi stessi in ambito familiare. Così come gli stessi proprietari,

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