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"Studio sull'antibiotico-resistenza in ceppi di enterococchi isolati dal cane".

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE VETERINARIE

Corso di Laurea Magistrale in Medicina Veterinaria

TESI DI LAUREA

Studio sull’antibiotico-resistenza in ceppi di

Enterococcus isolati dal cane

Candidato : Giulia Lotti Relatore : Prof. Domenico Cerri

Correlatore : Dott.ssa Valentina Ebani

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A tutti gli animali, le novelle e le merende con Pennacchio, alla mia infanzia che grazie a te è un paradiso di ricordi, sarai per sempre nel mio cuore.

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INDICE

RIASSUNTO

pag. 6

ABSTRACT

pag. 7

PARTE GENERALE

1.1 IL GENERE STREPTOCOCCUS

1.1.1 Introduzione e cenni storici pag. 8 1.1.2 Gli streptococchi, aspetti generali pag. 9 1.1.3 Streptococchi appartenenti al gruppo D, con particolare

riferimento agli enterococchi pag. 19 1.1.4 Enterococchi: Epidemiologia pag. 23 1.1.5 Enterococchi: Patogeni opportunisti e fattori di virulenza pag. 27

1.2 PATOGENESI

1.2 Patogenesi pag. 36

1.3 INFEZIONE DA ENTEROCOCCHI NEL CANE

1.3 Infezioni da enterococchi nel cane pag. 40

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1.5 ENTEROCOCCHI E

ANTIBIOTICO-RESISTENZA

1.5 Enterococchi e antibiotico-resistenza pag. 47

PARTE SPECIALE

1.6 SCOPI DELLA TESI

1.6 Scopo della tesi pag. 63

1.7 MATERIALI E METODI

1.7.1 Isolamento e conservazione dei ceppi batterici pag. 64 1.7.2 Determinazione della sensibilita’ in vitro agli antibiotici pag. 65

1.7.3 Valutazione della resistenza ad alti livelli di aminoglicosidi (High Level Aminoglycoside

Resistance, HLAR) pag. 69

1.7.4 Classificazione dei ceppi in multi-farmaco resistenti,

estesamente resistenti e panresistenti pag. 71

1.8 RISULTATI

1.8.1 Isolamento dei ceppi batterici pag. 72 1.8.2 Determinazione della sensibilità in vitro agli antibiotici pag. 73

(5)

1.8.3 Valutazione della resistenza ad alti livelli

di aminoglicosidi (High Level Aminoglycoside

Resistance, HLAR) pag. 77

1.8.4 Classificazione dei ceppi in multi-farmaco resistenti,

estesamente resistenti e panresistenti pag. 82

1.9 DISCUSSIONE

pag. 95

2.0 CONCLUSIONI

pag. 105

(6)

RIASSUNTO

Parole chiave : Enterococcus, cane, antibiotico-resistenza, ampicillina, vancomicina

Gli enterococchi sono comuni commensali e patogeni opportunisti del tratto gastroenterico di diverse specie, tra cui uomo e cane, inoltre sono dotati di elevata tolleranza alle condizioni ambientali che ne permette la sopravvivenza e la disseminazione.

Questi batteri, oltre ad essere una delle primarie cause di infezioni nosocomiali, sono intrinsecamente resistenti ai principali antimicrobici utilizzati negli ospedali e possono fungere da reservoir di numerosi geni di resistenza.

In questo studio sono stati analizzati 222 ceppi di Enterococcus spp. isolati da feci di cani sani, valutandone il profilo di antibiotico-resistenza con l'utilizzo della metodica Kirby-Bauer. Successivamente gli isolati sono stati suddivisi in classi di resistenza, con divisione dei ceppi in MDR (multiresistant), XDR (extensively drug-resistant) e PDR (pandrug-drug-resistant).

Le maggiori percentuali di resistenza sono state osservate verso streptomicina (94,1%), neomicina (92,3%), enrofloxacina (80,2%) e tetraciclina (88,7%). Rassicuranti i risultati dei ceppi sensibili verso vancomicina e teicoplanina (rispettivamente il 90,5 % e 92,3% di sensibili) e verso la classe delle penicilline, con ampicillina (87,8%) e amoxicillina più acido clavulanico (93,2%).

Sono stati individuati 136 isolati MDR e 6 XDR (nessun PDR).

Sui ceppi non sensibili alla gentamicina ed alla streptomicina è stata valutata la resistenza ad alti livelli per gli aminoglicosidi, 42 su 209 isolati testati sono risultati resistenti per la streptomicina e 16 su 126 testati per la gentamicina.

Infine è stata valutata la MIC per ampicillina e vancomicina : per ampicillina 18 isolati su 27 hanno rilevato una MIC ≥ 64 μg/ml; per vancomicina solo un isolato su 21 ha espresso una MIC ≥ 32 μg/ml.

Il cane, in quanto animale sociale con innumerevoli contatti con l'uomo, può essere un serbatoio di ceppi di enterococchi antibiotico resistenti e importante fonte di contaminazione ambientale.

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ABSTRACT

Keywords : Enterococcus, dog, antibiotic-resistance, ampicillin, vancomycin.

Enterococci are widespread commensal bacteria and opportunistic pathogens of the gastrointestinal tract affecting different species, including man and dog moreover they have high resistance in enviromental conditions allowing their survival and spreading.

These bacteria, in addition to be one of the most important nosocomial infection pathogens, are intrinsically resistant to the most common antibiotics employed and can be reservoirs of many drug resistance genes.

In the present study, 222 isolates of Enterococcus spp. from healthy dog feces have been analyzed with Kirby-Bauer method to evaluate antibiotic resistance profiles. The isolates have been splitted in drug resistance groups: MDR (multidrug-resistant), XDR (extensively drug-resistant) and PDR (pandrug-resistant).

The antibiotics with high resistance rates were streptomycin (94,1%), neomycin (92,3%), enrofloxicin (80,2%) and tetracycline. Encouraging results about efficacy of vancomycin and teicoplanin (respectively 90,5% and 92,3% of efficacy rate) werw observed such as ampicillin (87,8%) and amoxi-clavulanic (93,2%).

136 isolates MDR, 6 XDR and no PDR have been identified.

Gentamycin and streptomycin resistant strains have been evaluated for the resistance at high level of aminoglycosides: 42 on 209 isolates were again resistant to streptomycin and 16 on 126 to gentamycin.

MIC has been estimated for ampicillin and vancomycin: 18 isolates on 27 have shown a MIC for ampicillin ≥ 64μg/ml; 1 isolate on 21 has shown a MIC ≥ 32μg/ml.

Dogs, which often are strictly in contact with humans, may be important reservoirs of multidrug-resistant enterococci.

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PARTE GENERALE

1.1 IL GENERE STREPTOCOCCUS

1.1.1 INTRODUZIONE E CENNI STORICI

Dal punto di vista storico, il genere Streptococcus spp. vanta di una particolare importanza soprattutto in ambito umano. Tale affermazione è conseguenza del fatto che questo gruppo di microrganismi è stato più di ogni altro responsabile, nel corso dei secoli, di malattie spesso mortali per l’uomo, fatta forse eccezione per il bacillo tubercolare o talune malattie di origine virale. A tal proposito potremmo di fatto ricordare alcune forme morbose sostenute dai suddetti microrganismi, quali: la glomerulo nefrite acuta e insufficienza renale cronica o (malattia di Bright), l’intima correlazione tra affezioni da streptococchi e febbre reumatica (Coburn, 1932) e la sepsi puerperale di origine streptococcica (Pasteur, Kock e Neisser) (Allen S.D. & Dowell V.R., 1996).

Una rivoluzionaria ed innovativa scoperta, venne di fatto apportata grazie all’attività di ricerca della dottoressa Rebecca Lancefield, la quale intorno alla metà degli anni trenta identificò cinque diversi gruppi antigenici di Streptococchi; A, B, C, D, E, sulla base delle differenze sierologiche dei carboidrati costituenti la parete cellulare del microrganismo. Nella maggior parte dei casi i sierotipi che rivestono maggiore importanza appartengono ai gruppi A, B e D (Allen S.D. & Dowell V.R., 1996). Gli Streptococchi, sulla base di caratteristiche di habitat e patogenetiche, possono essere raggruppati in sette gruppi principali: enterococchi, lattici, termofili, viridanti, paraviridanti, piogeni e parapiogeni. In tale raggruppamento è inoltre possibile differenziare ventotto specie su base biochimica, enzimatica e sierologica (Ruffo G., 2002).

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1.1.2 GLI STREPTOCOCCHI, ASPETTI GENERALI

Il genere Streptococcus spp. comprende un ampio gruppo di microrganismi batterici largamente diffusi in natura come commensali, patogeni ed opportunisti della cavità orale, del tratto intestinale e genito-urinario, dell’uomo e degli animali. Seppur di minore interesse nel nostro caso, talune specie di streptococchi rivestono grande importanza nei processi di trasformazione degli alimenti, soprattutto lattiero-caseari e prodotti carnei trasformati (Ruffo G., 2002).

Tali procarioti da un punto di vista morfologico si presentano come cellule batteriche rotondeggianti od ovoidali, di diametro inferiore ai 2 μ. In genere immobili e asporigeni, assumono l’aspetto di cocchi o di cocco-bacilli positivi alla colorazione di Gram (Figura n.1) e sprovvisti di enzimi atti ad effettuare reazioni di catalasi. Per lo più sono anaerobi facoltativi, ma alcune specie sono in grado di crescere solo a date concentrazioni di CO2, mentre altre ancora, sono anaerobie strette (Ruffo G., 2002). Per la maggior parte posseggono un metabolismo glucidico di tipo fermentativo, con produzione di lattati ma non di gas, ed è proprio per questa ragione che rivestono un ruolo importante nei processi di trasformazione alimentare, soprattutto all’interno delle filiere lattiero-casearie. Le temperature di crescita variano dai 10C° ai 45C°. Potremmo tuttavia suddividere grossolanamente i range di crescita tra i 30C° e i 37C° per le specie patogene, intorno ai 45C° per la maggior parte degli streptococchi del gruppo D, quindi gli enterococchi e i 10C° ancora per una piccola parte degli enterococchi, degli streptococchi lattici e per Streptococcus uberis (Ruffo G., 2002). Dal punto di vista strutturale, gli streptococchi sono muniti di numerose strutture di superficie o appendici rappresentate da fimbrie e corti filamenti. Questi in teoria ne conferiscono e ne facilitano l’adesione e in taluni casi ne aumentano il grado di patogenicità, ma non ne permettono la motilità. La parete cellulare ha una composizione chimica tipica dei Gram positivi, in cui, di fatto, il componente prevalente è l’acido muramico e quindi il peptidoglicano, a cui risultano legati vari gruppi teicoici ed antigeni proteici di superficie. Incostante invece la presenza di

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galattosammina. Alcuni streptococchi sono muniti di acidi teicoici parietali in aggiunta all’acido lipoteicoico associato alla membrana (Ruffo G., 2002).

Seppur alcuni non di facile coltivazione, è possibile permetterne la crescita sia in terreni liquidi che in terreni solidi. In terreni liquidi i microrganismi si dispongono in coppie e catene, la cui lunghezza varia a seconda della specie e del ceppo, largamente influenzata dalla composizione del mezzo di coltura. Su terreni solidi, l’aspetto delle colonie è in genere rotondeggiante, di forma regolare e di 4 o 5 millimetri di diametro (Figura n.2). Inoltre è possibile osservare, in alcune specie, che durante le prime fasi della crescita, i microrganismi sintetizzano una capsula di acido ialuronico che conferisce alla colonia un aspetto mucoide (Ruffo G., 2002).

L’utilizzo di terreni complessi o meglio arricchiti, spesso risulta necessario, in quanto alcuni Streptococchi hanno particolari esigenze quali aminoacidiche, di purine, pirimidine, vitamine e peptidi. Alcuni stipiti microbici non crescono se il terreno non viene arricchito con piridossina. Al fine di favorire uno sviluppo ottimale all’interno dei terreni liquidi è necessaria l’aggiunta di carboidrati altamente fermentiscibili, evitando tuttavia l’aggiunta di glucosio in quanto determinerebbe una rapida caduta del pH e quindi conseguenti problemi di inibizione alla crescita (Ruffo G., 2002). I terreni solidi risultano ottimi per la coltivazione di tali microrganismi previa l’aggiunta di sangue o siero. Su agar sangue, dopo un periodo di incubazione di 24h a 37C° le colonie si presentano con un diametro di 0,5-1 mm, sono prive di pigmentazione ad eccezione di alcuni ceppi di Steptococcus agalactie e di alcuni enterococchi, che si possono invece essere caratterizzate da un aspetto giallo-arancio-rosso (Ruffo G., 2002).

In terreni agar sangue, alcune specie sono in grado di produrre emolisi. I tipi di emolisi che taluni ceppi sono in grado di effettuare sono di fatto due; alfa-emolisi, caratterizzata da una zona verdastra attorno alla colonia di circa 1-3 millimetri a margini non ben definiti (Figura n.3) e beta-emolisi, caratterizzata da un alone chiaro attorno alla colonia di ampiezza variabile da ceppo a ceppo (Figura n.4) (Ruffo G., 2002).

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L’identificazione di specie viene tuttavia effettuata mediante prove biochimico-metaboliche, enzimatiche e sierologiche. L’identificazione biochimica si basa sulla capacità che taluni streptococchi hanno di metabolizzare alcuni tipi di zuccheri o su reazioni enzimatiche del tipo: beta-galattosidasi, beta-glucoronidasi, fosfatasi e leucina amino peptidasi (Ruffo G., 2002).

La classificazione sierologica secondo lo schema di Lancefield, seppur non può essere adottato per classificare tutti gli streptococchi, risulta essere ancora un valido mezzo di identificazione degli streptococchi stessi, in particolare i beta-emolitici patogeni per l’uomo e per gli animali. La differenziazione antigenica avviene grazie all’utilizzo di un anticorpo specifico verso un antigene polisaccaridico denominato sostanza C (gruppi A,B,C,E,F,G) ma anche da acidi teicoici (gruppi D ed N) situati nella zona tra la membrana e la superficie interna della parete cellulare dal batterio. Quest’ultimo risulta essere gruppo specifico. Tra i differenti sierotipi ritroviamo appunto A, B e D. Le principali caratteristiche biochimiche e sierologiche degli streptococchi che più interessano l’ambito veterinario sono riportati nella (Tabella n.1) (Ruffo G., 2002).

Come abbiamo già citato, alcune specie di streptococchi suscitano notevole interesse in campo umano e veterinario, in quanto, in grado di comportarsi come patogeni od opportunisti. Tale comportamento è chiaramente legato ad una serie di fattori, tra cui l’ospite, l’ambiente e dalla eventuale probabilità di possedere strutture cellulari che consentono la colonizzazione e la diffusione del batterio all’interno dell’organismo e dei singoli apparati, dove in taluni casi sono in grado anche di eludere sistemi di difesa di natura fagocitaria. I principali fattori che da soli o in associazione sono in grado di determinare il potere patogeno di taluni streptococchi possono essere ad esempio; 1) Una capsula di acido ialuronico che si forma durante le prime 4-6 ore di crescita e che conferisce un aspetto mucoide alle colonie. Quest’ultima possiede ovviamente capacità anti-fagocitarie. 2) Fimbrie 3) Proteina M 4) Streptolisina O, S 5) Ialorunidasi 6) Streptochinasi 7) Streptodornasi (Ruffo G., 2002).

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piodermiti, fino a gravi forme di endocarditi o di glomerulo nefriti acuto/croniche. Tra questi lo Streptococcus pyogenes svolge un importante ruolo come patogeno per l’uomo e per i nostri animali.

Gli streptococchi appartenenti al gruppo B possono invece, di fatto, essere causa non solo di patologia in ambito umano, ma soprattutto in ambito veterinario.

Ad oggi la tipizzazione dei principali gruppi di Streptococchi viene effettuata anche tramite kit rapidi di elevata sensibilità e specificità (Figura n.5) oppure a sistemi automatizzati come i sistemi Vitek2 (Figura n.6).

Tabella 1: Principali caratteristiche sierologico-biochimico-enzimatiche degli

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Figura 1: Enterococcus casselliflafus, colorazione di Gram. Microscopia ottica 100X

ad immersione. (Giulia Lotti)

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Figura 2: Streptococcus pyogenes agar sangue. Da notare l’aspetto regolare e

rotondeggiante delle colonie. Attorno ad esse comincia ad essere evidente l’alone di emolisi (www.bacteriainphotos.com).

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Figura 3: Attività alfa-emolitica espletata da talune colonie. Quest’ultima si mostra

come una alone trasparente rotondeggiante attorno alla colonia batterica (www.bacteriainphotos.com).

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Figura 4: Streptococcus equi. Attività beta-emolitica espletata da talune colonie.

Quest’ultima si mostra come una alone di aspetto verdastro e rotondeggiante attorno alla colonia batterica (www.bacteriainphotos.com).

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Figura 5: Kit Strepto, con il quale è possibile determinare il gruppo di appartenenza

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Figura 6: Sistema automatizzato di identificazione batterica Vtek 2 (Foto di Giulia

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1.1.3 STREPTOCOCCHI APPERTENENTI AL GRUPPO D, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AGLI ENTEROCOCCHI

Gli streptococchi del gruppo D, otre a possedere un antigene polisaccaridico comune, si possono distinguere dagli streptococchi per la loro capacità di crescere in presenza del 40% di bile e di idrolizzare l’esculina. Questi vengono, di fatto, suddivisi in due gruppi: Enterococchi e non-Enterococchi (Allen S.D. & Dowell V.R., 1996).

Gli streptococchi del gruppo D non enterococchi differiscono dagli enterococchi per l’incapacità di crescere in NaCl al 6,5%. Essi generalmente non risultano essere emolitici su agar sangue, non danno reazione positiva al CAMP test e non idrolizzano l’ippurato. Il suddetto gruppo comprende tre specie: S.bovis, S.equinus e S. avium.

S.bovis si distingue da S.equinus dato che il primo è in grado di fermentare il lattosio

(Allen S.D. & Dowell V.R., 1996).

Gli Enterococchi sono, considerati una parte di quel gruppo di microrganismi denominati batteri acido lattico produttori, lactic acic bacteria (LAB) (Holzapfel & Wood 1995). Si presentano, infatti, con tutte le caratteristiche distintive tipiche del genere Streptococcus, ovvero come cocchi Gram positivi, asporigeni, catalasi e ossidasi negativi anaerobi facoltativi (Moreno et al., 2006). Sono per lo più microrganismi ubiquitari, e il loro habitat risulta estremamente variabile. Infatti, è possibile riscontrarli nel tratto intestinale dell’uomo o di una grande varietà di specie animali, tra cui il cane, nonostante le abitudini alimentari possano variare radicalmente da specie a specie (Klein, 2003). Nell’uomo, infatti, rappresentano una parte importante della normale flora intestinale (Murray, 1990), così come nel cane, dove è possibile isolare enterococchi anche da altre sedi (Devriese et al., 1992). Data la loro versatilità, alcune specie di enterococchi, vengono utilizzati grazie alla loro capacità di produrre acido lattico come starters, supplementi alimentari e probiotici (Klein, 2003). Nel cane, ad esempio, gli enterococchi possono essere utilizzati nelle preparazioni probiotiche, per regolare la microbiota intestinale, nel caso di enteropatie croniche (Shmitz et al., 2015) Gli enterococchi trovano oltremodo

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Alcuni di essi però sono potenzialmente patogeni, diretti oppure opportunisti, nonché degli ottimi bio-indicatori di contaminazioni fecali ed antibiotico resistenza, analizzando matrici di provenienza animale oppure dall’ acqua (Sapkota et al., 2007). Dal punto di vista della classificazione tassonomico il genere Enterococcus ha subito innumerevoli revisioni (Schleifer & Klipper-Baltz, 1987; Stackebrandt & Teuber, 1988; Devriese & Pot, 1995; Hardie & Whiley, 1997). La classificazione di Lancefield, a cui questi microrganismi sono stati sottoposti, seppur validissima ed ancora in vigore, ha trovato nuova frontiera a seguito degli studi di ibridazione DNA-DNA, DNA-RNA, 16S rRNA affrontati attorno agli anni ’80. Le differenze a livello genomico hanno portato a scindere tale gruppo di microrganismi dal genere

Streptococcus e collocarli all’interno di un nuovo genere, appunto quello nel genere Enterococcus proponendo 28 nuove specie: E.asini, E.avium, E. canis, E. casselliflavus, E.cecorum, E.columbae, E. dispar, E. durans, E. faecalis, E. faecium, E. flavescens, E. gallina rum, E. gilvus, E. haemoperoxides, E. hirae, E, malodoratus, E. moraviensis, E. mundtii, E. pallens, E. phoeniculicola, E. pseudoavium, E. raffinosus, E. ratti, E. saccharolyticus, E. saccharominimus, E.solitarius, E. sulfureus e E. villorum (Schleifer & Klipper-Balz, 1984; Moreno et al., 2006). Risulta

interessante notare inoltre che E. flavescens e E. casselliflavous non possono essere classificati separatamente dato le scarse differenze che intercorrono tra le due specie microbiche (Devriese & Pot, 1995; Descheemaeker et al., 1997) mentre E. villorum viene utilizzato come sinonimo di E. porcinus (De Graef et al., 2003). È tuttavia importante ricordare che E. faecium ed E. faecalis rimangono le due specie maggiormente rappresentate e di maggiore interesse anche dal punto di vista clinico nell’uomo. E. faecalis èla specie più comunemente isolata dalle tonsille e dallo sfintere anale di cani e gatti, anche se, nei campioni fecali, E. hirae è stato isolato con la stessa frequenza. La maggior parte dei ceppi di E. faecium isolato nelle tonsille differiscono da quelli associati con l’uomo ed altri animali, in quanto capaci di fermentare il sorbitolo. (Tabella n. 2) (Devriese et al., 1992; Franz et al., 1999; Franz

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Risulta chiaro che la distinzione molecolare ha giocato un ruolo calzante nella classificazione tassonomica degli enterococchi e lo conserva anche durante le normali attività di identificazione. Prima di un approccio di tipo molecolare, però, è importante ricordare che risulta doveroso un approfondimento attraverso un approccio legato, di fatto, alla batteriologia classica. È possibile, infatti, distinguere gli enterococchi da altri cocchi Gram-positivi, catalasi-negativi ed omofermentanti come gli streptococchi o i Lattococchi, grazie allo loro intrinseca abilità di crescita in un range che va da 10°C a 45°C, in 6,5% di NaCl o in presenza del 40%di bile a pH 9.6 (Franz et al., 2003; Moreno et al., 2006).

Eventualmente è possibile incorrere anche nell’impiego di terreni selettivi verso gli Enterococchi come il Streptococcus faecalis agar (SF), il KF Streptococcus agar con Triphenyltetrazolium Chloride (KF) e il hi veg broth base with glycerol (BAGG). Tali terreni contengono generalmente sodio azide per inibire la crescita di microrganismi diversi dagli streptococchi, uno o più carboidrati e un indicatore che mette in evidenza la produzione di acidi. La crescita e l’acidificazione di questi terreni è molto indicativa della presenza di Enterococchi (Allen S.D. & Dowell V.R., 1996). I modelli di enterococchi maggiormente oggetto di studio, in quanto più coinvolti nei principali processi patologici sono: E. faecalis e E. faecium. Quest’ultimi possono sopravvivere a temperature di 60 C° per 30 minuti, rendendo in tal modo Enterococcus spp. potenzialmente distinguibile da altri generi, seppur strettamente correlati, come Streptococcus spp. (Foulquié Moreno et al., 2006). Per poter valutare l'emolisi prodotta, si possono utilizzare terreni come TSA o agar Columbia arricchito con 5% sangue di montone privato della frazione fibrinica. I suddetti microrganismi sono di fatto in grado di crescere all’interno di un vasto range di pH (4,6-9,9).

L’optimum possiamo identificarlo a valori pari a 7.5 (Van den Berghe et al., 2006). Durante la fase di latenza, la temperatura risulta essere uno dei maggiori fattori in grado di influenzare la crescita microbica. (Gardin et al, 2001;. Martinez et al, 2003.). L’intrinseca resistenza di E. faecalis ad un range di pH abbastanza ampio,

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membrana ad acidi ed alcali, anche se, taluni autori, hanno suggerito che tale capacità possa riferirsi ad attività H + -ATPasi dipendenti (Nakajo et al., 2005). La resistenza a temperature più elevate è imputabile, di fatto, al contenuto di acidi grassi e lipidi costituenti la membrana citoplasmatica. Alcuni autori, hanno dimostrato che al crescere del contenuto di acidi grassi di membrana la resistenza a temperature più alte decresce (Martinez et al., 2003). La struttura citoplasmatica degli Enterococchi possiede, infatti, delle intrinseche capacità strutturali tipiche quasi esclusivamente di tale gruppo microbico, infatti la membrana ha dimostrato maggiore stabilità vicino a minime temperatura di crescita (Klein et al., 2003). La produzione di ammine è, come ampiamente dimostrato, strettamente correlata alla temperatura di crescita ed al pH. La produzione di enzimi decarbossilasi risulta invece ottimale a pH acido, mentre la produzione di amine biogene da E. faecalis EF37 diminuisce a pH tendenzialmente acidi (Gardin et al., 2001).

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1.1.4 ENTEROCOCCHI: EPIDEMIOLOGIA

Gli enterococchi costituiscono una parte essenziale della flora microbica intestinale propria di esseri umani ed animali. Tra questi, è sempre più frequente riscontrare E.

faecium ed E. faecalis negli produttori di derrate alimentari; in particolare E. faecium

risulta, di fatto, il più rappresentato (Klein et al., 2003). E faecalis ed E. faecium possono essere isolati da formaggi, pesce, salumi, carni macinate soprattutto di origine suina (Foulquié Moreno et al., 2006. Klein, 2003); questo suggerisce che le contaminazioni all’interno di tali prodotti possano verosimilmente provenire o dall’animale (contaminazione di tipo secondario) o eventualmente da maestranze o ambienti di lavorazione.

L’isolamento da uomo ed animali sembrerebbe essere sottostimato in quanto la sintomatologia manifestata, risulterebbe aspecifica e paucisintomtica, così da non giustificare una indagine che miri alla ricerca di Enterococcus spp. Uno studio condotto nel Regno Unito ha dimostrato che, a seguito della raccolta di tutta una serie di campioni prelevati da acque reflue urbane e da terreni agricoli normalmente fertilizzati con compostaggi derivanti da allevamenti suinicoli, sono risultati positivi al 100% per Enterococcus spp. . Come ulteriore dimostrazione che all’interno degli allevamenti di animali da reddito tale microrganismo è comunque fortemente rappresentato, là dove non sono stati utilizzati fertilizzanti di origine animale a fini agricoli, l'incidenza di Enterococcus spp ha visto una sensibile riduzione fino ad arrivare a valori pari al 33% (Kuhn et al., 2003). La distribuzione delle specie

Enterococcus è assai varia in tutta Europa. In Spagna e nel Regno Unito, E. faecalis e E. faecium appaiono le specie più comunemente isolate sia da matrici provenienti da

pazienti clinici che da matrici ambientali. La Svezia tuttavia risulta avere una minore incidenza di E. faecium ed un tasso di isolamento più elevato di E. hirae, mentre in Danimarca E. hirae è la specie predominante ed è isolata principalmente da animali produttori di derrate alimentari, soprattutto all’interno degli ambienti di macellazione

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(Kuhn et al., 2003). Negli ultimi anni sono aumentati i casi di infezioni da enterococchi in pazienti umani ospedalizzati. Tale condizione sarebbe, di fatto, da imputare non solo ad una aumentata virulenza dei ceppi in questione, ma anche dalla pressione selettiva esercitata negli ambienti ospedalieri, che sempre più spesso risultano essere bio-produttori di specie microbiche multi resistenti. Tale affermazione è supportata da studi effettuati dal Dipartimento della Salute del Regno Unito, il quale ha evidenziato la possibilità da parte di tali microrganismi di contaminare e sopravvivere in ambienti e pazienti per periodi prolungati (Brown et al., 2006). Dal punto di vista epidemiologico, infatti, numerosi sono i casi di infezione enterococcica all’interno di strutture ospedaliere. Tali dati sono di fatto sostenuti da numerosi autori (Patterson et

al., 1995; Zirakzadeh et al., 2006; Pericion et al., 2009 Kristich et al., 2014).

In generale negli animali da compagnia, in particolare nel cane, dove le infezioni da enterococco sono spesso asintomatiche, gli studi effettuati hanno prevalentemente lo scopo di studiare la diffusione di ceppi antibiotico-resistenti. Indipendentemente dallo scopo, questo ci permette comunque di stimare un quadro generale di distribuzione dei batteri nella popolazione canina: Jackson et al., (2008) ha isolato 275 campioni da 155 cani, rilevando 80% dei cani positivi per enterococchi; Anuradha et al., (2011) ha stimato la presenza di enterococchi in feci di cane, circa uguale a 2,2 x 108 UFC;

Kataoka et al., (2014) ha testato 84 cani, rilevandone 70 positivi (83,3%).

Il crescente tasso di resistenza agli antibiotici nel genere Enterococcus spp, ad esempio verso ampicillina o vancomicina, sono di grande importanza clinica (Patterson et al., 1995; Kristich et al., 2014). La prima descrizione di VRE (Vancomicin-Resistant Enterococci) risale al 1988 in Europa (Leclercq et al., 1988), e ad oggi la diffusione di quest’ultimi risulta radicata a livello mondiale. Tale condizione sarebbe favorita probabilmente dalla diffusione di ceppi portatori di geni di resistenza alla vancomicina (principalmente vanA e vanB) (Zirakzadeh et al., 2006; Pericion et al., 2009). Ad oggi, i ceppi VRE dominano l'epidemiologia delle infezioni nosocomiali sostenute da enterococchi negli Stati Uniti, mentre la situazione in

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Europa risulta essere più varia. In Germania, Grecia, Inghilterra, Irlanda e Portogallo sono stati riscontrati alti tassi di VRE (> 10%). Allo stesso modo, nei paesi europei, già dal 2000 si riscontra un aumento di ARE (Ampicillin-Resistant Enterococci) (Ecdc, ottobre 2013). Secondo il report annuale 2006-2007 del National Healthcare Safety Network (NHSN), le infezioni da enterococchi in ambito umano rappresentano il 12,1% delle infezioni nosocomiali, con una prevalenza preoccupante proprio in quei pazienti che vengono sottoposti ad ospedalizzazione in terapia intensiva. In tal contesto, è stato stimato che il 16,0% delle infezioni sono spesso sistemiche, mentre il 14,9% sono costituite da infezioni del tratto urinario conseguenti l’applicazione di catetere vescicale (Hidron et al., 2008). In uno studio epidemiologico effettuato a partire dal 2007, le percentuali di VRE isolati differirebbero ampiamente al variare della regione geografica analizzata: Europa Occidentale 31,1%, Europa dell'Est 31,4%, Centro / Sud America 46,9%, Nord America del 47,8%, Oceania 52,6%, e in Asia 37,0% (Vincent et al., 2009). Inoltre, è stato riscontrato che tra i pazienti ospedalizzati, ceppi di E. faecium ampicillina-resistenti sarebbero in forte aumento (Ruiz-Garbajosa et al., 2012). Al momento del ricovero, i tassi di infezione da VRE variano dallo 0,6% al 42,6% (Padiglione et al., 2003). Durante la degenza i soggetti che vengono colpiti da malattia sostenuta da ceppi di VRE variano dal 1,2%(Padiglione et al., 2003) al 41,4% (Bonten et al., 1996). I principali fattori di rischio che predispongono oltremodo a tali infezioni sono costituiti in prevalenza dalla lunghezza del periodo di ricovero (Bonten et al., 1998; Se et al., 2009), ma anche da alcune particolari terapie antibiotiche, che eserciterebbero una pressione, non solo sui ceppi patogeni in questione, ma anche nei confronti di quella parte di flora microbica che antagonizzerebbe, in condizioni di normalità, i suddetti patogeni. Risulta evidente infatti che soggetti in terapia con vancomicina (Bonten et al., 1996; Dan et al., 1999; Martinez et al., 2003; Batistao et

al., 2012; Yoon et al., 2012) metronidazolo (Ostrowsky et al., 1999; Martinez et al.,

2003;; Shorman et al., 2013), chinoloni (Martinez et al., 2003; Huang et al., 2011;; Shorman et al., 2013), cefalosporine (Bonten et al., 1996; Bonten et al., 1998;

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(Padiglione et al., 2003; Furuno et al., 2005; Huang et al., 2011; Batistao et al., 2012), e altre classi di antibiotici hanno manifestato malattia indotta da VRE. I dati mettono in evidenza che quei pazienti sottoposti a ricovero intensivo, qualora a contatto con ceppi di enterococchi VRE e ARE hanno un alto rischio di sviluppare una infezione sistemica (Petel et al., 2003). Per pazienti in terapia intensiva, i tassi di infezione da VRE raggiungevano percentuali del 45% (Hendrix et al., 2001).

Diversi studi retrospettivi sulla resistenza antimicrobica e sulla prevalenza delle infezioni nosocomiali sostenute da enterococchi, sono stati effettuati anche all’interno di ospedali Veterinari in ceppi di enterococchi isolati da cane, rivelando un quadro di fatto sovrapponibile a quello riscontrato in ambito umano (Ball et al., 2008; Thompson et al., 2010)

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1.1.5 ENTEROCOCCHI:

PATOGENI OPPORTUNISTI E FATTORI DI VIRULENZA

Il ruolo occupato dagli enterococchi come patogeni opportunisti riveste, soprattutto ai giorni nostri, una estrema importanza. Tale affermazione è, di fatto, sostenuta da dati concreti quali, un aumento d’infezioni nosocomiali da parte di enterococchi ed un aumento della resistenza a talune molecole antibiotiche posseduta o acquisita da quest’ultimi (Murray & Weinstock, 1999; Sorum et al., 2001; Sapkota et al., 2007; Magiorakos et al., 2010).

Il fatto che il genere Enterococcus costituisca, seppur non in larga misura, un gruppo di patogeni opportunisti, è stato dimostrato da uno studio condotto in Danimarca. I dati riportano che nei pazienti umani ricoverati è stata riscontrata una percentuale d’isolamento di E. faecalis del 57%, mentre negli individui sani mostrano solo un 39% - 40% di isolati (Mutnick et al., 2003).

Gli enterococchi sono, infatti, frequentemente associati ad altri patogeni, in grado così, di provocare infezioni intra-addominali polimicrobiche nell’uomo. Sono inoltre potenzialmente responsabili di infezioni del tratto urinario, batteriemia ed endocarditi nell’uomo (Malani et al., 2002); anche nel cane gli enterococchi sono i batteri più frequentemente isolati, dopo Escherichia coli, nelle infezioni urinarie ricorrenti (Seguin et al., 2003; Thompson et al., 2010). La translocazione degli enterococchi attraverso la barriera fornita dall’epitelio intestinale può verosimilmente esitare in un fenomeno batteriemico, con formazione di ascessi ed eventuali forme che vanno dalle endocarditi, fino alle insufficienze multiple d’organo, conseguenti un collasso delle resistenze (Jett et al., 1994). In tal contesto i fattori di rischio legati ad una elevata mortalità potrebbero essere ricondotti a gravi condizioni di salute, a fattori concomitanti, all’ età ed alla resistenza agli antibiotici (Sood et al., 1998).

Il grado di patogenicità più o meno rilevante in diversi ceppi di enterococchi è di fatto conseguenza della possibilità da parte di tali microrganismi di esprimere dei così detti fattori di virulenza (Tabella n. 3). La parete cellulare di tutti i microrganismi

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cellula batterica da tutta una serie di fattori che ne influenzerebbero negativamente la colonizzazione e la crescita, sia all’interno dell’organismo ospite, sia nell’ambiente circostante (Seltman et al., 2001). In tutti i microrganismi appartenenti al genere

Enterococcus la parete batterica contiene non solo peptidoglicano (Ogier et al.,

2008), ma anche complessi proteici, polisaccaridi, lipidi, lipoproteine e diversi glicoconiugati. I glicopolimeri più rappresentati sono l'acido teicoico (WTA) e l’acido lipoteicoico (LTA). L’acido teicoico è un polimero generalmente costituito da un alditolo fosfato, il quale può venire, o meno, glicosilato o subire l’aggiunta di D-alanina (Neuhaus et al., 2003). Alcuni studi dimostrano che, pareti batteriche, nella fattispecie riferibili a E. faecalis, deficitarie di D-alanina, espongono il microrganismo ad una maggiore suscettibilità nei confronti delle molecole antimicrobiche, nonché una ridotta capacità nel formare biofilm batterico (Fabretti et al., 2006). Diversi studi hanno dimostrato che un particolare complesso polisaccaridico, il ramnosio, sembrerebbe svolgere un ruolo importante nella composizione della parete batterica, influenzando anche la virulenza del ceppo in questione. Il suddetto complesso è codificato da diversi loci genici appartenenti al gene EPA (Xu et al., 1997; Teng et al., 2009). La struttura di questo polisaccaride non è stata ancora ben chiarita (Tenge et al., 2009). A dimostrazione del fatto che quest’ultimo svolga ruolo importante nella patogenicità degli enterococchi, alcuni dati mostrano che la delezione del gene EPA e quindi una mancata codifica e sintesi del ramnosio di parete, diminuirebbe sensibilmente la capacità del germe nel determinare la formazione non solo di biofilm batterico, ma anche la traslocazione batterica attraverso l’enterocita, nonché una minore capacità di resistenza a fattori esogeni, che siano essi fisici o chimici (Tenge et al., 2002; Mohamed et al., 2004; Zeng et al., 2004; Singh et al., 2009). Tale zucchero influenzerebbe inoltre la suscettibilità alle infezioni da parte di fagi (Tenge et al., 2002; Mohamed et al., 2004; Zeng et al., 2004; Singh et al., 2009). In aggiunta a tale dato, l’inoculazione sperimentale in taluni animali da laboratorio di tali varianti delete, mostrerebbero un ridotto grado di patogenicità nei confronti dell’ospite (Xu et al., 2000).

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La presenza di una capsula batterica, costituisce uno dei principali determinanti di virulenza per molti patogeni, contribuendo ad una strategia di mimetismo nei confronti del sistema immunitario dell’ospite impedendone l’attività fagocitante e spesso anche quella opsonizzante (Hancock et al., 2002; Turlow et al., 2009).

Le primissime molecole prodotte dal microrganismo, al fine di elevare le proprie

chance di colonizzazione, sono le adesine, di fatto grossi complessi glicoproteici che

potremmo distinguere in adesine deputate alla fase di colonizzazione, adesine deputate alla fase di adesione (agg, esp efa A, ace), ed infine adesine deputate alla resistenza nei confronti delle difese dell’ospite (efa A) (Ogier et al., 2008). Tra queste, la matrice aggregante (AS; aggregation substance), composta da complessi polimerici di adesina, viene codificata da un plasmide, la cui trascrizione e successiva traduzione viene mediata da un peptide idrofobico meglio conosciuto come sex

pheromones, prodotto da aggregati batterici (Clewel et al., 2000). Attraverso tale

sostanza aggregante, i microrganismi sono in grado di legare attraverso beta-2-integrine, non solo i macrofagi e differenti cellule epiteliali del tratto gastroenterico, ma anche matrici e complessi proteici extracellulari propri dell’ospite come: fibronectina, trombospondina, vitronectina e collagene di tipo I. Tale strategia, tuttavia, non ne permette la traslocazione (Sartingen et al., 2000; Rozdzinski et al., 2001). Un’altra adesina enterococcica è costituita da una proteina di superficie (ESP), espressa dal microrganismo e codificata a livello cromosomico e non plasmidico. Un aumento della patogenicità imputabile a tale complesso, è testimoniato dal fatto che la presenza all’interno di una popolazione clonale del gene ESP conferisce ai suddetti ceppi la capacità di provocare una forma clinica di malattia, riferibile nella fattispecie (seppur non costantemente) al tratto uro-genitale (Shankar et al., 1999; Shankar et al., 2000). Il gene che codifica per la proteina ESP, inoltre, sembrerebbe contribuire alla formazione del biofilm, il quale potrebbe verosimilmente portare ad un aumento della resistenza verso gli stress ambientali e favorire l'adesione nei confronti di tessuti come quelli del tratto urinario, incidendo così seppur indirettamente sulle capacità di virulenza dei microrganismi (Borgmann et al., 2004). A conferma della succitata

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affermazione, studi condotti da illustri autori, hanno dimostrato che la delezione del gene ESP compromette verosimilmente la capacità di formare biofilm da parte di E.

faecalis. Ancora a conferma dell’importanza della suddetta informazione genomica,

ceppi di E. faecalis ESP-negativi, sono stati in grado di sintetizzare le matrici costituenti il biofilm, dopo aver ricevuto attraverso metodiche di laboratorio il plasmide contenente il suddetto gene (Latasa et al., 2006).

Nel cane, la presenza del gene ESP, aumenta il grado di patogenicità e di resistenza, soprattutto per le infezioni del tratto urinario, dove, come già accennato sopra, gli enterococchi sono responbili di causare infezioni ricorrenti (Norris et al., 2000). I ceppi di E. faecium provvisti di tale informazione genetica, hanno tassi di coniugazione più elevati rispetto a quelli che non lo possiedono. Quest’ultimi dimostrano anche una maggiore resistenza ad alcune importanti molecole antibiotiche come ampicillina, ciprofloxacina e imipenem (Billstroom et al., 2008). Ace (adhesin

of collagen from a E. faecalis) invece, tipica dei Gram positivi, è una proteina che

possiede la capacità di legare il collagene (tipo I e tipo IV) e la laminina (Nallapareddy et al., 2000 A,B). Infine, le adhesin-like factor costituiscono un importante determinante di virulenza in quanto sembrerebbero giocare un ruolo cruciale nelle fasi di adesione endocardica, a cui spesso fanno seguito importanti fenomeni di endocardite batterica (Lowe et al., 1995). Tale affermazione viene supportata dallo studio di modelli in vivo, infatti tale sostanza sembra indurre nel coniglio l’insorgenza di una forma di endocardite vegetativa proliferante (Chow et

al., 1993).

Le citolisine tra cui citolisine/emolisine (CylA-M, gls 24) e le proteasi, costituiscono un importante fattore di virulenza del germe, in quanto favoriscono la lesione tissutale e la loro persistenza nell’ospite (Ogier et al., 2008). La capacità citolitica è dimostrata in vitro grazie alla zona di emolisi attorno alla colonia, coltivata su agar-sangue. L’informazione genomica contenente sei geni distinti, che codificano per un

cluster di enzimi citolitici, è situata sia a livello plasmidico, che a livello

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sembrerebbe essere quello di determinare la lisi della parete cellulare, sia essa procariota che eucariota (Jett et al., 1994). La citolisina non viene sintetizzata tal quale dal microrganismo, ma vengono prima prodotti due precursori proteici i quali, subirebbero ulteriori clivaggi enzimatici prima di acquisire la corretta conformazione (Ike et al., 1994). Il gruppo di geni cylLs che regolano l’espressione delle citolisine, sono maggiormente rappresentati in quei microrganismi isolati in pazienti clinici e quindi con manifesta malattia (Semedo et al., 2003) (Figura n.7). La trascrizione, nonché la successiva traduzione dei succitati geni è regolata di fatto da un meccanismo di quorum-sensing.

Le ialuronidasi hanno come target di azione l’ acido ialuronico, e rientrano in quel gruppo di enzimi associati al danno tissutale diretto. La capacità della ialuronidasi, è proprio quella di depolimerizzare i mucopolisaccaridi che costituiscono quella porzione di tessuto connettivo, favorendo così la diffusione degli enterococchi e quindi le tossine verosimilmente prodotte, attraverso i tessuti dell’ ospite (Kayaoglu & Orstavik, 2004). Le ialuronidasi sono, di fatto, codificate da un gene specifico (hyl), il quale risulta presente a livello cromosomico. Dati scientifici hanno inoltre dimostrato che, su ventisei pazienti clinici, nel 27% dei casi, sono stati isolati ceppi di

E. faecium vancomicina-resistenti portatori del gene hyl, di contro tale gene è stato

invece riscontrato solo nel 14% dei ceppi di E. faecium isolati da matrici fecali (Vankerckhoven et al., 2004).

Il ruolo principale delle gelatinasi e delle serin-proteasi nella patogenesi della malattia da enterococci, è verosimilmente riferibile all’idrolisi della gelatina, del collagene, dell’ emoglobina ed di altri peptidi bioattivi (Su et al., 1991). Secondo alcuni autori tali enzimi avrebbero un ruolo più o meno diretto nella formazione del biofilm batterico (Gilmore, 2002; Mohamed & Huang, 2007). Le gelatinasi tra cui

gelE e sprE, sono in grado di indurre un danno tissutale diretto (Ogier et al., 2008);

esse sono di fatto metallo-endopeptidasi secrete attivamente dal genere Enterococcus (Koch et al., 2004). Il gene Gele, che codifica la suddetta proteina, è situato a livello

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cromosomico. La sua espressione è regolata da una serie di fattori endocellulari, strettamente dipendenti dalle concentrazioni extracellulari dell’enzima.

Un ulteriore fattore di virulenza è rappresentato da Pili o Fimbrie. Quest’ultimi infatti vengono chiamati in gioco soprattutto nei fenomeni di adesione cellulare, specificatamente rivolti nei confronti delle cellule proprie dei tessuti dell’ospite oppure, seppur in maniera meno specifica, nei confronti di superfici anche inorganiche contribuendo così insieme ad altri fattori alla formazione di biofilm (Nallapareddy et al., 2006; Abbott et al., 2007). Questo gioca un ruolo chiave, nel cane, relativamente al pericolo per la salute pubblica: la sopravvivenza dei batteri nell’ambiente grazie al biofilm, infatti, ne consente la contaminazione nell’ambiente e la conseguente disseminazione di geni di resistenza (Cinquepalmi et al., 2012). L’informazione deputata alla successiva sintesi dei Pili batterici, è riferibile ad una serie di cluster genomici (PGC), i quali comprendono una serie di geni codificanti un gruppo di complessi proteici LPxTG-simili i quali risultano indispensabili per la struttura, nonché funzione e conformazione dei Pili (Hendrickx et al., 2008; Nallapareddy et al., 2006). Enterococcus faecalis ospita due PGC, verosimilmente identificabile nel locus EBP. Tale locus risulta essere presente in quegli isolati batterici in grado di provocare fenomeni di endocardite clinicamente manifesta e infezione del tratto urinario, nonché la formazione di film batterico. Tale dato rafforza la convinzione che queste strutture siano direttamente coinvolte in un aumento della patogenicità nei confronti dell’ospite e ad una maggiore resistenza nell’ambiente esterno (Nallapareddy et al., 2006; Tendolkar et al., 2006; Kemp et al., 2007; Singh et al., 2007). E. faecium invece è munito di quattro locus PGC, classificati come PGC-1 -2 -3 -4 (Hendrickx et al., 2008). Tali sequenze codificano per un complesso di proteine in grado di comporre due strutture di adesione diverse;

PilA e PilB. La loro presenza è stata dimostrata nel suddetto microrganismo isolato in

ambiente ospedaliero (Hendrickx et al., 2008). Di fatto rimane da stabilire tuttavia se tali strutture sono implicate o meno come fattori di virulenza.

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Tabella 2: Principali variabili in grado di influenzare direttamente la crescita di

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Tabella 3: associazione dei loci genici che, dove presenti, nel genere Enterococcus,

sono in grado di conferire un maggior grado di virulenza e di patogenicità (Sava et

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Figura 7: La figura mostra la trascrizione e la traduzione dei precursori della

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1.2 PATOGENESI

Come già introdotto dal precedente capitolo, gli innumerevoli meccanismi attraverso i quali gli enterococchi riescono ad esprimere un più alto grado di patogenicità, sono gli stessi attraverso i quali eludono le difese dell’ospite, permettendo così l’invasione, la translocazione ed eventualmente la manifestazione di un vero e proprio processo morboso (Kreft et al., 1992; Olmsted et al., 1994). Nonostante, negli ultimi anni, innumerevoli studi hanno dimostrato che le infezioni da enterococchi sono prevalentemente di origine esogena (Kayser, 2003), è doveroso ricordare che le principali vie attraverso le quali i microrganism riescono ad effettuare l’invasione sono di fatto due, nel cane e nell’uomo: attraverso la translocazione dall’epitelio intestinale, oppure attraverso la contaminazione di una soluzione di continuo, quale ad esempio potrebbe essere una ferita chirurgica nel periodo intra o post operatorio. Il tratto intestinale costituisce tuttavia una porta d’ingresso difficoltosa per il microrganismo, in quanto, le barriere fisiche, nonché immunitarie da superare sono numerose, considerando inoltre la competizione microbica a cui gli enterococchi sono sottoposti. I principali fattori che possono verosimilmente favorire l’enteroinvasione sono quelli intrinseci propri del microrganismo e quelli esterni, propri di ambiente e dell’ospite (Sartingen et al., 2000). Tra i fattori intrinseci è doveroso ricordare tutta quella serie di elementi di adesione, precedentemente citati, i quali conferiscono una più alta patogenicità agli enterococchi, nonché un notevole vantaggio nei primi processi di invasione. Tra i fattori estrinseci invece non possiamo escludere l’ambiente, che in questo caso è costituito dal quel microclima proprio del tratto intestinale spesso specie-specifico (Sartingen et al., 2000). Uno studio sperimentale condotto in vivo ha, infatti, dimostrato che un qualsiasi cambiamento delle normali condizioni intestinali, a seguito del quale viene favorito un forte dismicrobismo, con crescita esuberante da parte di E. faecalis, può creare le condizioni favorevoli alla migrazione degli enterococchi attraverso il tratto intestinale, con conseguente diffusione ad importanti organi quali milza e fegato

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(Wells et al., 1990). I meccanismi di difesa propri dell’ospite, costituiscono una barriera importante al fine di evitare l’insorgenza del processo morboso. L’epitelio intestinale è la prima barriera fisica in grado di rendere difficoltosa una eventuale translocazione batterica. Appare logico pensare che qualsiasi processo morboso in grado di alterare tale barriera, come processi infiammatori acuto/cronici a varia eziologia, possono di fatto favorire la translocazione. Infezioni sostenute da E.

faecalis, già entro le prime 48 ore, sono in grado di alterare radicalmente la struttura

dei villi, provocando una evidente sofferenza cellulare a carico degli enterociti, come dimostrato nella Figura n.8.

Oltre a tale barriera fisica, il sistema immunitario dell’ospite svolge un ruolo fondamentale al fine di poter arginare il processo patologico. L’insorgenza del processo morboso è quindi subordinata all’efficienza del sistema immunitario e a fattori di virulenza propri del microrganismo.

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Figura 8: Microscopia elettronica : immagine A : struttura microvillare normale;

Immagine B : struttura microvillare alterata, a seguito dell’azione patogena effettuata da E. faecalis, già a 48 ore dall’infezione sperimentale (Garsin et al., 2014).

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Tabella 4: Risultati di indagini microbiologiche espresse in percentuale, ottenute

dalla coltura di tessuti di ratto sperimentalmente infettato, e sul quale è stata ricreata la condizione di ischemia-riperfusione del tessuto epatico. Nella colonna di destra vengono riportate le crescite microbiche dopo l’utilizzo di vancomicina e ceftriaxone. Interessante notare la prevalenza dei ceppi appartenenti al genere Enterococcus spp (Van Der Heijden et al., 2014).

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1.3 INFEZIONI DA ENTEROCOCCHI NEGLI ANIMALI DA

COMPAGNIA

Come già ripetuto più volte nella parte relativa alla patogenesi, essendo gli enterococchi dei batteri opportunisti, il loro habitat principale è costituito dal tratto gastroenterico dell’ospite, dove costituiscono la normale microflora, come dimostrato in numerosi studi effettuati a proposito della composizione del microbiota intestinale del cane (Suchodolsky, 2011; Kil & Swanson, 2011). Ovviamente, rispetto ai modelli umani, gli studi che riguardano il cane sono di numero inferiore, probabilmente a causa della sintomatologia pressoché assente che possiamo avere in soggetti sani. Gli enterococchi risultano essere meno virulenti degli streptococchi, ma, rispetto a questi, posseggono un più alto grado di resistenza nell’ambiente e sono in grado di resistere ai più comuni antimicrobici.

Nel cane, esattamente come nell’uomo, gli enterococchi sono causa di infezioni specialmente in pazienti ospedalizzati e con deficit immunitari, che favoriscono complicazioni nosocomiali, per esempio in seguito ad infezioni post-chirurgiche. Anche se queste sono la primaria causa di infezione d enterococco negli ospedali veterinari, E. hirae può essere causa di diarrea nel cane. Un case report , le infezioni Molto frequente, come già accennato in precedenza, è il coinvolgimento degli enterococchi nelle UTI (urinary-tract infection), soprattutto quando le infezioni sono di carattere ricorrente (Thompson et al., 2010); probabilmente questo è spiegato dalla capacità degli enterococchi di approfittare di situazioni di dismicrobismo, create dall’instaurarsi di infezioni ravvicinate, e poi di moltiplicarsi, causando infezione. Possiamo dire, inoltre, che la resistenza agli antibiotici e l’elusione delle difese dell’ospite, li rende i batteri ideali per la colonizzazione del tratto urinario (Ball et al., 2008).

Rari sono in letteratura i casi di endorcardite da enterococchi nel cane; un case report di Vetzel et al (2003) descrive un caso di endocardite vegetativa causata da E.faecalis in un cucciolo di rottweiler di 5 mesi, portato a visita per una diarrea cronica da

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cinque settimane ed un murmure cardiaco auscultato dal suo veterinario; batteriologici di sangue ed urine erano positive per E.faecalis ed il cucciolo è stato sottoposto ad eutanasia per le complicazioni renali sopraggiunte successivamente.

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1.4 L’ ANTIBIOTICORESISTENZA

La resistenza dei batteri alle diverse molecole antibiotiche e ad una loro eventuale associazione, costituisce un problema che ormai da tempo preoccupa chi opera in campo medico-scientifico.

Tale problema deriva naturalmente dall’uso indiscriminato che è stato fatto e che viene fatto, della maggior parte degli antibiotici, nonché dalla rapida diffusione di geni in grado di codificare innumerevoli fattori di resistenza. Una delle principali cause dell’antibiotico-resistenza, è costituita di fatto dall’uso o dall’abuso di antibiotici a fini terapeutici o auxinici in animali produttori di derrate alimentari. L’incidenza, nonché l’aumento della resistenza, in ciascun patogeno inoltre è dipendente da una pressione selettiva esercitata sul germe stesso, attraverso la quantità di farmaco impiegata, in termini di dose e durata del trattamento.

L’allarmismo generato da tale situazione ha necessariamente portato le istituzioni pubbliche a pianificare ed attuare piani di sorveglianza, a seguito di una attenta valutazione della situazione, grazie anche all’aiuto conferito da dati ottenuti da studi di tipo retrospettivo. Un lavoro condotto nel 2013, ad esempio, propone una panoramica sulla resistenza di microrganismi zoonotici o commensali sul territorio Europeo nel periodo compreso tra il 2005 e il 2011, concentrandosi principalmente su ceppi microbici appartenenti al genere Salmonella spp, Escherichia,

Campylobacter ed Enterococcus. Tale conoscenza risulterebbe di fatto necessaria al

fine di poter disegnare e pianificare possibili strategie di intervento (Garcia-Mgura et

al., 2013). Alcuni batteri, compresi gli enterococchi, a seguito della pressione e della

selezione causati dall'uso di antimicrobici, vengono considerati dei buoni indicatori (Caprioli, 2000).

I pazienti, sia uomo che cane, possono venire in contatto con ceppi microbici resistenti in diversi modi, anche se resta importante ricordare che l’esposizione al patogeno non determina automaticamente l’insorgenza della malattia. Le modalità di trasmissione includerebbero strumentari quali: termometri elettronici rettali, superfici contaminate, operatori sanitari che non praticano buone norme igieniche, etc. È stato

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dimostrato infatti che le mani o i guanti del personale sanitario se contaminati, sono potenzialmente in grado di determinare una contaminazione in circa il 10% dei contatti, sia direttamente con i pazienti non infetti, oppure di contaminare a loro volta superfici o strumentari (Duckro et al., 2005). I fattori di rischio in umana, purtroppo, non sono unicamente limitati ad una contaminazione diretta, ma un fattore determinante è legato alla scelta della terapia antibiotica o addirittura al tempo di permanenza all’interno della struttura ospedaliera, in quanto maggiore è il tempo di permanenza, maggiore risulterebbe il fattore di rischio di esposizione (Weinstein et

al., 1996; Donskey et al., 2000; Ostrowsky et al., 2001; Elizaka et al., 2002). La

scelta degli antibiotici da utilizzare per un eventuale approccio terapeutico dovrebbe essere sempre subordinata ad un’ indagine attraverso la quale è possibile conoscere la minima concentrazione inibente (MIC) alla quale quella molecola mostra il massimo della sua efficacia.

I microrganismi, come abbiamo già detto, hanno la possibilità di modificare il proprio patrimonio genetico, sia attraverso mutazioni spontanee, (spesso sporadiche), sia attraverso il diretto scambio di materiale genetico, processo quest’ultimo, che può avvenire attivamente o meno (sex pilus oppure uptake di materiale genetico da cellule non vitali). Infatti, attraverso il complesso meccanismo trasposone-plasmide, i batteri possono, in linea teorica, avere a disposizione l’intero corredo cromosomico di tutte le specie batteriche esistenti (Russo S. & Turin L., 2005).

Tale capacità conferisce loro un notevole vantaggio, soprattutto legato all’eventuale possibilità di adattarsi a qualsiasi ambiente, ivi compresi quelli in cui interagiscono con molecole antibiotiche.

La reale capacità di resistenza è identificata nelle possibilità che il microrganismo generi sporadicamente, o acquisisca, una strategia molecolare attraverso la quale riesca a “gestire” la molecola antibiotica in questione. In alcuni casi, infatti, i microrganismi sono in grado di esprimere un corredo enzimatico capace di inattivare la molecola stessa, oppure di modificarla. A tal proposito, potremmo citare come esempio la beta-lattamasi che agisce sulla classe molecolare, notoriamente conosciuta

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generare la capacità di regolare scambi selettivi di membrana, impedendo così alle molecole antibiotiche di entrare all’interno della cellula (Russo S. & Turin L., 2005). In realtà, tra i fattori che possono, di fatto, predisporre i microrganismi batterici ad una sempre maggiore resistenza agli antibiotici, non possiamo unicamente contemplare fattori intriseci al microrganismo stesso, ma anche fattori estrinseci, quali la scelta della molecola. Tale considerazione nasce dal fatto che, l’utilizzo di una molecola antibiotica non adatta al contesto clinico (così come via di somministrazione, durata della terapia, interazione con altri farmaci, eventuale resistenza) già predispone ad uno o più dei fattori precedentemente descritti, attraverso i quali il microrganismo acquisisce la resistenza stessa.

I sistemi maggiormente diffusi attraverso i quali è possibile conoscere una eventuale e già presente resistenza antibiotica all’interno di una popolazione batterica, sono sostanzialmente due. Il primo è l’antibiogramma. Tale metodica si basa sul concetto di massima esposizione del microrganismo verso una o più molecole. La tecnica di elezione è il Kirby-Bauer. Quest’ultima viene effettuata con una coltura pura del microrganismo isolato. Si dispongono sulla superficie del terreno su cui è stato seminato il batterio, dei piccoli dischetti imbevuti di antibiotico alla massima concentrazione; nelle ore successive il principio attivo della molecola presente nel disco diffonderà radialmente nel terreno. Alla fine sarà valutata l’eventuale presenza e il raggio di ampiezza nei confronti della crescita batterica (Figura n.10). L’alone, espresso in millimetri, permette di classificare, sulla base di di criteri interpretativi suggeriti dal N.C.C.L.S (National Committee for Clinical LAboratory Standards), il microrganismo come sensibile, mediamente sensibile o resistente. Il successivo risultato viene interpretato ed in base alla misurazione metrica dell’alone di inibizione, il microrganismo può essere classificato come sensibile, mediamente sensibile o resistente ad una o più molecole antibiotiche. La resistenza si decreta nel momento in cui l’alone di inibizione attorno ad uno o più dischi risulti assente o troppo debole (per debolezza viene inteso un raggio troppo ridotto). La sensibilità, invece, si verifica quando una molecola risulta nettamente efficace, inibendo completamente la crescita, generando un chiaro ed ampio alone di inibizione. La

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condizione intermedia potrebbe suggerire che quel microrganismo sta iniziando a manifestare una possibile resistenza e che l’efficacia della molecola ancora potrebbe essere sfruttata, ma utilizzandola a concentrazioni di fatto assai maggiori rispetto a quelle consigliate (Barry et al., 1974; Kluge et al., 1975; Russo S. & Turin L., 2005; Intorre L., 2009). Una metodica ormai consolidata, che trova i suoi fondamenti sulla tecnica e metodica del Kirby-Bauer è l’analisi della MIC (minima concentrazione inibente). Questa tecnica prevede di sottoporre il microrganismo all’interazione con una serie di molecole antibiotiche a diversa concentrazione crescente. Questo offre una serie di notevoli vantaggi, tra cui la possibilità di conoscere la minima concentrazione alla quale data molecola avrà ancora efficacia nei confronti di quel determinato microrganismo. Tale metodica può essere riprodotta o con tecniche manuali come l’Etest, (Figura n.11) oppure con tecniche automatizzate (Sensititre) (Figura n.12). Tra le metodiche manuali, il test epsilometrico, detto anche Etest, è una variante oggi molto diffusa del metodo per diffusione in gel di agar. mettendo sul terreno una o più stick di carta bibula rettangolari (circa 0.4 cm x 8 cm), all’interno dei quali sono contenute concentrazioni scalari dell'antibiotico di cui si vuole testare l’eventuale efficacia. Dopo l'incubazione, qualora la molecola sia efficace, si può evidenziare un alone d’inibizione a forma di goccia subito attorno allo stick. La parte più ampia, data dall’inibizione di crescita, sarà rivolta verso la parte superiore dello stick, ovvero quella con maggior concentrazione di antibiotico. Il confronto dell'ampiezza dell’inibizione generata tra i vari stick contenenti diversi antibiotici, associato alla valutazione dei valori standard, permette la rapida e chiara identificazione del farmaco più efficace nei confronti del microrganismo in questione, avendo inoltre informazioni chiare sulla MIC. Un altro metodo manuale è il cosiddetto metodo per diluizione, effettuato anche in terreno liquido. Viene effettuato inoculando gli isolati batterici in una serie di pozzetti, nei quali sono posti concentrazioni scalari di antibiotici, con una concentrazione nota di microrganismo. Dopo incubazione i singoli pozzetti vengono valutati per verificare a quale concentrazione è avvenuta o meno l’inibizione della crescita. Il sistema Sensititre per

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facile utilizzo. Il sistema funziona come segue: viene generata una coltura pura del microrganismo oggetto d’esame in un terreno liquido. A seguito di questo la macchina distribuisce l’antibiotico all’interno di una serie di pozzetti (Figura n.12) in cui è presente una concentrazione nota di microrganismo. La piastra viene successivamente incubata a 37° per 24h e solo in seguito effettuata la lettura attraverso un sistema automatizzato. (Barry et al., 1974; Kluge et al., 1975; Gavan et

al., 1981; Allen S.D. & Dowell V.R., 1996; Russo S. & Turin L., 2005; Intorre L.,

2009; Chang et al., 2014).

Per prevenire quindi la resistenza, ogni qual volta si abbia la necessità di utilizzare una molecola antibiotica è buona norma effettuare un esame colturale seguito da un antibiogramma. Conoscere a priori se il microrganismo in questione già possiede resistenza ad una specifica molecola, risulta fondamentale ai fini, non solo del successo terapeutico, ma anche nella prevenzione dell’antibiotico-resistenza.

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1.5 ENTEROCOCCHI E ANTIBIOTICORESISTENZA

Gli enterococchi sono largamente studiati a causa della loro multi-resistenza agli antibiotici (Rubinstain et al., 2011; Medina-Polo et al., 2014). Non sono solo ceppi multi-resistenti di origine nosocomiale a destare preoccupazione, ma anche tutta una serie di enterococchi non patogeni che sempre più spesso ritroviamo nella pratica odierna, come ad esempio quelli utilizzati come fonte probiotica, ma potenzialmente in grado di acquisire fattori di resistenza. Alcuni autori, infatti, hanno indagato l’eventuale resistenza di ceppi probiotici, che seppur privi di geni di resistenza, possono potenzialmente acquisirla con rapidità (Klein et al., 2003; European Commission 2001). Tutti gli enterococchi posseggono una ridotta suscettibilità che potremmo quasi definire intrinseca, nei confronti di penicilline e penicilline, con MICs cento volte superiori a quelle riscontrate negli Streptococchi. Tale resistenza sembrerebbe legata ad una specifica mutazione del gene che codifica per la proteina PBP-5. Percentuali di resistenza a tali molecole da parte di E. faecalis ed E. faecium rispettivamente in Europa e negli Stati Uniti ammontano al 1%; 76% e 2%; 80% (Huycke et al., 1998). Questa situazione deriverebbe probabilmente dal fatto che le associazioni di beta-lattamici di diversa generazione, sono state per più di mezzo secolo, una valida scelta terapeutica nel trattamento delle infezioni da enterococchi, sia nell’uomo, che anche nel cane, dove l’ampicillina è uno degli antibiotici più utilizzati. Ad oggi, la resistenza all'ampicillina, seppur più rara in E. faecalis rispetto ad E. faecium, si verifica in circa il 90% dei ceppi isolati all’interno delle strutture ospedaliere umane. Una delle modalità per combattere tali molecole da parte dei microrganismi batterici risulterebbe proprio quella di sintetizzare beta-lattamasi. Tale strategia è piuttosto rara nel genere Enterococcus se non per alcuni ceppi di E.

faecalis. Il meccanismo attraverso il quale viene garantita resistenza all'ampicillina in E. faecium, infatti, è dato dalla produzione proprio di proteina PBP-5. Il gene in

grado di garantire questa ampicillino-resistenza può essere trasferito tra le cellule batteriche attraverso un trasposone. Risulta singolare osservare come un sensibile

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