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Il secondo passo della seguente discussione riguardante l’entropia va mosso in direzione di un’opera che apparentemente ha poco a che vedere con tale argomento, in

facendo riferimento a Il castello dei destini incrociati30. Tale opera, sebbene, come

appena accennato, dal punto di vista contenutistico abbia poco a che fare con l’argomento chiave del presente capitolo, in realtà, ad un’analisi più accurata, nella totalità delle opere calviniane rappresenta uno dei migliori esempi di tentativo di fuga

28 ITALO CALVINO, La nuvola di smog¸ in Romanzi e Racconti, vol. I, cit., p. 929. 29 Ivi, p. 230.

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Si intende qui prendere in esame non solo i racconti presenti in Il castello dei destini incrociati, ma anche quelli de La taverna dei destini incrociati, raccolte contenute entrambe in ITALO CALVINO, Il

castello dei destini incrociati, Torino, Einaudi, 1973 (edizione usata ITALO CALVINO, Il castello dei destini

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dall’entropia universale. La narrazione inizia in un modo che ricorda indubbiamente il cominciamento dei tipici racconti cavallereschi, un po’ sullo stile dei poemi di Chrétien de Troyes, o, per citare uno scrittore ancor più caro a Calvino, di Ludovico Ariosto: «In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio»31. Poche righe dopo si legge:

) pena: da quando ero entrato nel bosco tali

erano state le prove che mi erano occorse, gli incontri, le apparizioni, i duelli, che non riuscivo a ridare un ordine né ai movimenti né ai pensieri.32

Fin da subito, notiamo un termine a noi caro ai fini della nostra analisi: il cavaliere è stanco dopo il lungo vagare, talmente affaticato da non riuscire a dare un «ordine» a ciò che era accaduto prima, nel «fitto bosco». Il castello che compare davanti agli occhi del protagonista, dunque, appare come un luogo nel quale potersi riposare, un luogo dove rilassare il fisico e la mente, un luogo che si contrappone alla foresta, così fitta, così intricata, da non permettere nessun tipo di sosta al cavaliere, nemmeno per poter mettere un po’ d’ordine fra i suoi pensieri. Il bosco, in questo caso, sembra quasi un labirinto, figura che fa riferimenti a vari autori precedenti:

Ne Il castello dei destini incrociati, l’immagine del bosco come luogo labirintico, come Irrweg naturale ed inestricabile in contrasto con il labirinto artificiale del giardino (l’Irrgarten), ha come fondamento intertestuale, accanto alla fiaba, i poemi di Tasso e Ariosto (si pensi in particolar modo alla “foresta incantata” del tredicesimo canto della Gerusalemme Liberata e alle varie scene della fuga d’Angelica nell’Orlando Furioso).33

31

ITALO CALVINO, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 5.

32

Idem.

33C

OVADONGA FOUCES GONZÀLEZ, Il gioco del labirinto – Figure del narrativo nell’opera di Italo

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Per combattere il caotico labirinto esteriore, dunque, il cavaliere errante si rifugia in questo maniero, apparente immagine dell’ordine primordiale che egli vuole ritrovare. In realtà, anche il palazzo si rivelerà, a sua volta, un labirinto, proprio come il palazzo incantato dell’Orlando Furioso, creato dal Mago Atlante per confondere i cavaliere che vi fossero entrati. Anche questo castello «cessa d’essere uno spazio esterno a noi, con porte e scale e mura, per ritornare a celarsi nelle nostre menti, nel labirinto dei pensieri»34. Ma una precisazione va fatta: se, infatti, il labirinto-bosco è indice di caos e disordine, il labirinto-castello è, invece, simbolo di ricerca di un ordine ormai perduto, e probabilmente impossibile da recuperare. Per Calvino, perciò, l’immagine del labirinto non è solamente simbolo del disordine, ma, anzi, può essere il mezzo attraverso il quale cercare di combattere l’entropia. Infatti,

Lontano dall’essere un sinonimo di caos e confusione o di enigma irresolubile, come spesso nel gergo letterario mondiale (…) il labirinto è (sempre stato) in Calvino, si sa, la figura del controllo dell’addomesticamento del caos e del caso. Naturalmente dove vada a parare il cammino non si sa o può essere tremendo saperlo: un centro vuoto, com’è vuoto il nucleo intermedio dei tarocchi distesi in schiera sul tavolo ma, la persistenza di una direzione o una serie finita di ventagli possibili dà senso al procedere.35

I racconti dei vari personaggi, dunque, rappresentano un metodo per poter «vincere lo stato iniziale di disordine e di confusione»36, un modo per liberarsi dal caos nel quale tutti i viandanti si erano imprigionati, prima di entrare nel castello (o nella taverna: anche in questo caso, infatti, l’inizio è sempre basato su di un contrasto fra l’entropia

34Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, raccontato da ITALO CALVINO, Milano, Mondadori, 2006, p. 173. 35

GIORGIO BERTONE, Italo Calvino. Il castello della scrittura, Torino, Einaudi, 1994, pp. 146-147, in COVADONGA FOUCES GONZÀLEZ, Il gioco del labirinto – Figure del narrativo nell’opera di Italo Calvino, cit., p. 156.

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esterna e la possibilità di creare un ordine artificiale interno). Questa immagine fa concepire il racconto come un

rito iniziatico (un lungo percorso contrassegnato da intralci, da oscurità, da fermate,

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risolvere niente, senza finire niente, l’ordine è il complemento, ciò che riempie, satura e congeda appunto tutto ciò che minaccerebbe di supplire: la verità è ciò che completa, che chiude.37

Il giardino selvaggio e incolto esterno, viene separato grazie a delle pareti dal giardino coltivato interno, un giardino “dei sentieri che si biforcano”38, un cortile (il tavolo) i cui fiori (i tarocchi) crescono per mano dell’uomo che li pianta, in un ordine ben preciso e determinato. Ma ciò non implica che pure nel definito intricarsi di storie e nel continuo sovrapporsi di tarocchi, il lettore rischi comunque di perdersi, un po’ come il cavaliere all’inizio della narrazione. Il libro stesso diviene il labirinto, proprio come viene spiegato da Borges nel racconto appena citato:

- Un labirinto di simboli, - corresse. Un invisibile labirinto di tempo. A me, barbaro inglese, è stato dato di svelare questo mistero diafano. A distanza di più di cent’anni, i particolari sono irrecuperabili, ma non è difficile immaginare ciò che accadde. Ts’ui Pên avrà detto qualche volta: «Mi ritiro a scriver un libro». E qualche altra volta: «Mi ritiro a costruire un labirinto». Tutti pensarono a due opere, nessuno pensò che libro e labirinto fossero una cosa sola.39

Il labirinto interno tenta di riprodurre quello esterno, mentre il groviglio-libro cerca di replicare il labirinto-mondo. Il lettore diviene il cavaliere, che è a sua volta voce narrante

37

ROLAND BARTHES, S/Z, Paris, Seuil, 1970 p. 73, in COVADONGA FOUCES GONZÀLEZ, Il gioco del

labirinto – Figure del narrativo nell’opera di Italo Calvino, cit., p. 160.

38 J

ORGE LUIS BORGES, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni, Torino, Einaudi, 2011. 39 Ivi, pp. 86-87.

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della vicenda, proprio perché entrambi hanno come obiettivo il tentare di tradurre il mondo non scritto. Quest’ultimo, non può essere descritto con la parola, troppo imprecisa, troppo indefinita, per questo i protagonisti si esprimono solamente per immagini, in maniera silenziosa, in modo da ricreare l’universo nella maniera più precisa e ordinata possibile.

Purtroppo, ciò non è del tutto possibile: anche l’ordine del palazzo è, infatti, un ordine contaminato, non più puro, come si evince dalle prime impressioni del protagonista nel momento in cui varca la soglia:

Provai, al guardarmi intorno, una sensazione strana, o meglio: erano due sensazioni distinte, che si confondevano nella mia mente un po’ fluttuante per la stanchezza e turbata. Mi pareva di trovarmi in una ricca corte, quale non ci si poteva attendere in un < =>" nello stesso tempo avvertivo un senso di casualità e di disordine.40

Questa non è solo una mera impressione: da uno studio più accurato compiuto da Gian Paolo Renello in merito all’opera in questione41, è emerso che le carte utilizzate da Calvino sono in tutto settantatré, non settantadue, dato che i personaggi sono dodici e presentano sei carte a testa. E nemmeno settantotto, cioè tutte le carte del mazzo dei tarocchi. Le carte sono settantatré perché nell’ultimo racconto ne viene inserita una esterna. Come sottolinea lo studioso,

è proprio l’inserzione dell’ultima carta a marcare la presenza di un elemento di disgregazione del rapporto matematico fra le varie storie. Quando tutto sembra perfettamente costruito e funzionante ecco quel quid di irrazionale che scompagina tutta

40

ITALO CALVINO, Il castello dei destini incrociati, cit., pp. 5-6.

41G

IAN PAOLO RENELLO, Irretire Calvino: Il castello dei destini incrociati e i grafici di Petri, in

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l’organizzazione e la obbliga a ricominciare da capo. Il mazzo viene distrutto […] perché l’equilibrio faticosamente raggiunto nella narrazione è stato distrutto.42

L’elemento di disturbo, dunque, non rende perfetto l’ordinato labirinto interno del castello o della taverna, ma lo scompone, facendogli comunque seguire un disordine definito, non casuale. Per questo motivo, la vera entropia non è presente, come si potrebbe intendere ad una prima lettura, nel fitto bosco, ma nelle mura del palazzo. Il vero disordine controllato e probabilistico si situa far gli arazzi del castello, in mezzo a quel tavolo che raffigura esso stesso un tappeto, un disegno, un’immagine del tarocco- mondo.

Il castello dei destini incrociati è, per concludere, un quadro di Arakawa, che dopo averlo osservato «comincio a sentire che la mia mente “somiglia” al quadro»43, è un dipinto pieno di frecce e linee, che permettono al lettore di seguire i vari sentieri creati dai personaggi, ma formato anche da «parole rarefatte»44. E ci si chiede: «le frecce e le linee e le parole, quando escono dal margine del quadro, dove vanno? Vanno in un altro quadro di Arakawa: è sicuro che i suoi quadri comunicano tra loro»45, proprio come lle dei gas che si dispongono in microsistemi disordinati, formando un enorme macrostato termodinamico. Infatti, come afferma l’autore, «il gioco di prestigio che consiste nel mettere dei tarocchi in fila e farne uscire delle storie, potrei farlo anche coi quadri dei musei»46. E così si conclude tale riflessione: «Così ho messo tutto a posto. Sulla pagina, almeno. Dentro di me tutto resta

42 Ivi, p. 216. 43

ITALO CALVINO, Per Arakawa, in Saggi 1945-1985, vol. II, cit., p. 2001.

44

Ivi, p. 2003.

45 Idem. 46 I

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come prima»47. L’animo dello scrittore è proprio come una fiamma nel tentativo di venire imprigionata in un cristallo.