di Davide PETTINICCHIO
Università degli studi di Roma “La Sapienza”
doi.org/10.26337/2532-7623/PETTINICCHIO
Riassunto: L’articolo analizza i rapporti tra alcune realtà geografiche e culturali – la Marca pontificia, Roma, Firenze, Perugia – e l’attività letteraria di Giuseppe Gioachino Belli. Si prendono in esame, in particolare, le testimonianze epistolari, privilegiando alcune inedite o malnote lettere dei corrispondenti, e la poesia italiana che, a differenza di quella romanesca, fu spesso divulgata con il consenso dell’autore. Le indicazioni emerse invitano a rintracciare nella natura «occasionale» della poesia belliana un’esigenza di concreto radicamento nell’attualità e nel reale.
Abstract: The article analyzes the relationship between several geographical and cultural realities – the Marches, Milan, Florence, Perugia – and Giuseppe Gioachino Belli’s literary activity. By relating his correspondence (and, in particular, some unpublished or little-known letters that the writer received) to his Italian poems (which, unlike the Roman ones, were often disclosed with the consent of the author), it appears that the «occasional» nature of Belli’s poetry depends on the will to remain concretely rooted in his own time and in reality.
Keywords: Belli; reception; Italian poetry
Introduzione
È attualmente in cantiere l’edizione integrale, da me curata, della prima parte dell’epistolario di Giuseppe Gioachino Belli: prendendo le mosse dalle più antiche testimonianze pervenuteci, risalenti al giugno del 1814, essa giunge al 1837, un anno cruciale della sua biografia. La scomparsa della moglie Maria Conti, sopravvenuta il 2 luglio, pochi giorni prima che il colera iniziasse a imperversare a Roma, ingenerò infatti nello scrittore una crisi letteraria, oltre che umana, le cui avvisaglie si avvertivano da tempo.
La pubblicazione d’un corpus di documenti in parte già noti si lega, oltre che all’opportunità d’un cospicuo aggiornamento filologico, alla volontà di riconsiderare globalmente il retroterra di esperienze nel quale s’inscrisse la parabola intellettuale del poeta romano. L’epistolario disegna, infatti, un percorso in cui l’apertura a una geografia più articolata corrisponde a un graduale ripensamento delle finalità dell’opera letteraria e all’avvio della ricerca di un’espressione originale: in particolare, il complesso delle scritture degli anni Venti tratteggia un vivace romanzo di formazione in cui un vistoso impulso auto- costruttivo si misura con sollecitazioni ambientali di varia natura, recepite, naturalmente, sotto l’azione più o meno accentuata di filtri culturali. Da questo punto di vista, piuttosto studiati risultano gli incontri con i poli delle energie “progressive” del tempo, Firenze e Milano1, che innescarono in Giuseppe dei
tentativi di sintonizzazione istantanea; non è comunque opportuno trascurare la rete di contatti
* Per le missive di Belli, riscontrate sugli autografi, si offrono gli agganci a G. G. Belli, Le lettere, a cura di G. Spagnoletti, 2
voll., Milano, Del Duca, 1961 (d’ora in poi, Lettere). Delle lettere dei corrispondenti s’indica anche la collocazione archivistica, rimandando esclusivamente agli studi che le riportano in misura integrale: esse sono conservate presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, nel Fondo Autografi (d’ora in poi, BNCR, A). Nella presentazione dei documenti si sono conservati gli accenti eccedenti, ma non la distribuzione d’accenti gravi, acuti e apostrofi, essendo costante nella prosa epistolare belliana la tendenza a non distinguerli; le abbreviazioni si sciolgono tra parentesi ad angolo; le sottolineature sono rese con il corsivo; si sono sostituite con le virgolette le lineette doppie usate da Torricelli per le citazioni («= Lo so, Torricelli mio ec =» → «“Lo so, Torricelli mio ec”»). Per i sonetti in dialetto si segue la numerazione adottata in Id., Poesie romanesche, a cura di R. Vighi, 10 voll., Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1988-1994. Si farà spesso riferimento a ID., Belli italiano, a c. di R. Vighi, 3 voll., Roma, Colombo, 1975 (d’ora in poi, Belli italiano).
1 Su Firenze cfr. soprattutto C. MUSCETTA, Cultura e poesia di G. G. Belli, Roma, Bonacci, 19812, pp. 92-101, con E.RIPARI,
L’accetta e il fuoco. Cultura storiografica, politica e poesia in Giuseppe Gioachino Belli, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 105-152 e passim; Per
Milano si parta da Giuseppe Gioachino Belli ‘milanese’. Viaggi, incontri, sensazioni, a c. di M. Colesanti e F. Onorati, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2009.
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intrattenuta nella provincia pontificia, una realtà policentrica nella quale si coltivavano pratiche la cui rilevanza non tocca solo la storia del costume e della sociabilità letteraria. Innestato in questo tessuto di scritture ed esperienze performative, Belli diede chiari segni d’inquietudine: come è noto, con i sonetti in dialetto egli pervenne a un’esperienza di rottura il cui scotto fu l’isolamento, dipendente dalla clandestinità imposta all’opera, ma anche dalla sua costitutiva ambiguità, difficilmente armonizzabile con gli orizzonti d’attesa dell’epoca2; può essere allora utile soffermarsi sulla poesia italiana, che nei momenti migliori si
originò nella negoziazione tra pratiche diffuse ed esigenze personali. Si intende qui prestare attenzione, in particolare, a dei componimenti che – nell’arco cronologico sopra individuato – furono promossi in alcuni contesti esterni a Roma: si privilegeranno le testimonianze degli interlocutori del Belli, non accolte in misura integrale nell’Epistolario che sta per vedere la luce; altre utili informazioni si potranno desumere dal libro dedicato nel ’36 ad Amalia Bettini3.
Milano e l’elegia In morte di Rosa Bathurst
Nei primi anni d’attività Belli ha come polo di riferimento quasi esclusivo Roma; se alcuni testi prendono la via delle Marche, essi sono quasi sempre destinati a costituire le private letture d’amici cui egli era particolarmente legato4; l’adesione alla spoletina Accademia degli Ottusi, testimoniata da una
lettera indirizzata il 10 settembre 18205 al segretario Pietro Fontana, appare poi poco convinta, al di là
delle parole di circostanza. Le prime cospicue tracce d’apertura a orizzonti meno angusti si rintracciano pertanto nel ’24, quando Giuseppe si volge a due tra i più rilevanti centri culturali dell’Italia primo- ottocentesca, la Milano della querelle classico-romantica e la Firenze dell’«Antologia». Con l’aiuto di Giacomo Moraglia, cerca di pubblicare qualche sua opera nella città meneghina: il recapito d’un non meglio identificabile manoscritto a Davide Bertolotti, il direttore del «Ricoglitore», non darà i risultati sperati6; uno dei capitoli berneschi destinati qualche anno prima A messer Francesco Spada7 vedrà invece la
luce, per i tipi di Giuseppe Pogliani, nel ’25. Il testo, legato a un’esperienza compiuta dal poeta in area fermana, è già stato divulgato presso la famiglia picena dei Neroni, e sarà poi incluso nel libro per la Bettini: esso ha tutti i tratti di quell’«arcadia giocosa»8 in terza rima nella quale Belli seguiterà a individuare,
a lungo, una soluzione congeniale al divertissement conversevole e disteso, il cui indirizzo a un dedicatario ben preciso non osta, in genere, alla presentazione a pubblici più ampi.
È forse più interessante soffermarsi su un’altra informazione veicolata dalla missiva diretta a Moraglia il 4 giugno 1824: Giuseppe ha fatto giungere a Milano quattro copie dell’elegia, anch’essa in terzine, In morte di Rosa Bathurst9, una giovinetta inglese annegata a soli sedici anni nel Tevere durante una
gita a cavallo. L’evento luttuoso godé d’ampia risonanza nell’élite intellettuale dell’epoca10: nel vol. IX dello
Zibaldone belliano (c. 250r)11 è registrato il possesso d’un poemetto latino del ’30 sul medesimo argomento
d’un certo M. Kelsall, La tenera Clelia, corredato dalla versione italiana di Artemide Elèa (Maria Vittoria Perozzi). Allo scrittore è poi noto, già all’epoca della lettera, il recente impegno d’uno dei più illustri letterati del Settentrione, sul quale può perlomeno vantare – e non abbiamo motivi di dubitare della sua sincerità – la precedenza cronologica: «Quì è giunto ultimam‹ent›e sui giornali un componimento sullo stesso soggetto del Pindemonte. Non ottiene molto successo. Figurati il mio! Avrà almeno questo mio il
2 Cfr. D.PETTINICCHIO, Intorno alla ricezione dei sonetti romaneschi nei carteggi di Giuseppe Gioachino Belli, «Studi (e testi) italiani», 40
(2017), pp. 189-203.
3 G. G. BELLI, Ad Amalia. Il “libro scritto” di Belli per la Bettini, a c. di M. Teodonio, con presentazione di R. Vighi e M. Tassinari
Sismondo, Roma, Colombo, 1992.
4 Non interessa, in questa sede, analizzare il «canzoniere amoroso» per “Cencia”, ora in ID., Belli italiano, a cura di R. Vighi, 3
voll., Roma, Colombo, 1975, I, pp. 565-636.
5 Il documento è per adesso inedito: BNCR, A.195.27.
6 Cfr. le due lettere di Moraglia datate 22.03.25 e 11.06.25, ora in «Peppe mio… Car amour bel bacciocon». Lettere di Moraglia a Belli,
a cura di A. Spotti, in Giuseppe Gioachino Belli ‘milanese’ cit., pp. 165-191, alle pp. 169-172.
7 Ora in Belli italiano, I, pp. 445-454. 8 Cfr. MUSCETTA, Cultura e poesia, cit., p. 34. 9 Ora in Belli italiano, I, pp. 549-553.
10 M. PRAZ, in Lettrice notturna, Roma, G. Casini, 1952, pp. 33-35, ricorda l’omaggio lirico di A. Poerio e il riferimento
all’accaduto negli scritti stendhaliani.
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pregio meschino di essere apparso alla luce pel primo»12. Se non è quindi lecito parlare d’emulazione strictu
sensu, è comunque significativo, per un verso, che il poeta abbia affrontato un evento dalla cospicua eco
pubblica, ma estraneo ai temi usuali delle tornate accademiche cui prende parte; per l’altro, che si sia misurato con la cronaca luttuosa per aprirsi al motivo, destinato a crescente fortuna nel mileu dei novatori lombardi, della fanciulla colpita da morte precoce (piuttosto che inferma, o convalescente, come più volentieri l’immortalava la tradizione). Ibridando due filoni necrologici ampiamente coltivati nella sua poesia – quello intimistico rivolto a un caro estinto e quello glorificante dedicato a un uomo pubblico – Belli confeziona una prova che, avvicinandosi alle maniere d’una romanza, narra l’incidente concludendosi con una spiccata personalizzazione affettiva (vv. 97-103):
Deh, se per caso e mia prospera sorte in quell’ora e in quel dì foss’io venuto là dove andaron le tue membra assorte, chi sa che non per me fosse accaduto quel che avviene talor quando a Dio piaccia gran cose oprar col più debole aiuto: ch’io ti recassi a riva in le mie braccia!
Il componimento deve piacere al suo autore, che lo fa stampare ripetutamente e l’invia a Vincenza Roberti; molti anni dopo, l’inserisce nel libro per Amalia, colei che, a suo dire, si diletta «nella pietà delle cose lacrimevoli»13; per di più, come accade per due altri componimenti elegiaci, l’ode in memoria
dell’amica Teresa Lepri e la traduzione d’una malinconica lirica di Millevoye14, la prosa introduttiva
premessa al testo insiste sulla verità biografica delle vicende trasfigurate in poesia. Sembrerebbe affermarsi, insomma, l’esigenza morale di un’autenticità che si estende al di fuori delle retoriche del discorso satirico per farsi, in accordo con le nuove mitologie dell’Europa contemporanea, un valore assoluto.
Firenze e Bellosguardo
Fino ai viaggi nel Settentrione degli anni successivi, sono però i soggiorni a Firenze che offrono le sollecitazioni di maggiore impatto. A quest’esperienza Giuseppe annette, da subito, un cospicuo valore proiettivo: in cerca d’una patria d’elezione e d’una genealogia letteraria cui ascriversi, appena giunto nella città tratteggia – riallacciandosi idealmente a Foscolo – un proprio pantheon d’eccellenze nella canzone
Bellosguardo15. In essa il riferimento alla gloriosa tradizione italiana si arricchisce di chiare risonanze civili:
il poeta, che si ritrae in passeggiata solitaria sul colle fiorentino, evoca le figure di Guicciardini, Boccaccio, Rucellai (il «Cigno dell’Arno»)16 e, soprattutto, l’opera e la persecuzione di Galilei. La poesia riflette,
rimodellandola, una suggestiva esperienza vissuta pochi giorni prima17; prima di essere recitata in
Accademia Tiberina (con opportuna modifica dei versi sullo scienziato pisano), è subito diffusa, già durante il viaggio, ad amici e conoscenti, come testimoniano un’annotazione posta sull’autografo («Pichi ammirò»18) e una lettera di Caterina Gori Pannilini del 31 agosto 1824 («Mi obbligherete infinitamente
mandandomi la Canzone da voi scritta in Firenze, e ve ne saranno pur grati i miei amici quà, che han già udite con diletto, ed applaudono alle altre composizioni che aveste la bontà di darmi prima della mia partenza»19). Quasi un anno dopo, Torricelli lo ringrazia «del bello sguardo» datogli, «mille volte […] più
caro di quello di una trilustre fanciulla»20.
12 A G. Moraglia, 4.06.1824: cfr. Lettere, I, pp. 121-124.
13 Ad A. Bettini, 4.11.35: cfr. BELLI,Ad Amalia, cit., cc. 17r-18v. 14 Cfr. ivi, cc. 43r-49r e 85r-90r.
15 Ora in Belli italiano, I, pp. 555-558.
16 Cfr. il sonetto In morte del Priore Orazio Rucellai, in V. da FILICAIA, Poesie toscane […], Firenze-Pistoia, S. Gatti, 1708, p. 84. 17A M. Conti, 24.07.24: cfr. Lettere, I, pp. 131-132.
18 I Pichi d’Ancona furono visitati in autunno. Cfr. la lettera inviata a M. Conti il 9.09.24, in Lettere, I, p. 139. 19 BNCR, A.93.43/1. Cit. in G. IANNI, Belli e la sua epoca, 3 voll., Milano, C. Del Duca, III, pp. 251-252. 20 Di F. M. Torricelli, 2.07.25: BNCR, A.90.11/3.
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Sempre nel primo viaggio Belli abbozza inoltre una prosa, rimasta incompiuta21, che mostra non
pochi punti di contatto con le lettere del periodo. Della città apprezza, oltre agli elementi urbanistici ed architettonici, il dinamismo economico, la vivacità culturale, la relativa assenza di repressione («la stampa in Firenze non è libera per legge ma lo è quasi per tolleranza») e, in generale, tutte quelle caratteristiche – «leggi d’oro: libertà di vita e di opinioni: ilarità, pace, moto, divertimento, felicità» – che garantiscono un’esistenza serena ed equilibrata. In chiusura del testo, alla città è associata la lusinghiera formula di «misura senza estremi». Il quadro presenta, comunque, una dissonanza. Il poeta soffre il carattere dei fiorentini, la cui «civiltà non oltrepassa mai il limite prescrittile dalla diffidenza, dall’egoismo e dall’interesse»:
I fiorentini in pubblico non vedono che se stessi, servi forse senza saperlo di quella poco osservata condizione dell’uomo il quale fra le grandi moltitudini è solo, perché, troppo infima frazione della massa fra la quale trovasi involto, se ne riguarda straniero ed in se medesimo si riconcentra. Ed ecco l’uomo rientrato in natura, la quale lasciata in balia di se stessa non si compiace mai albergare nei mezzi, ma sì agli estremi sempre trascendere.
L’osservazione è notevole, e sfiora uno strato profondo della visione che dell’uomo ha lo scrittore romano, giungendo al limitare della critica – per adesso sopita – dei lati oscuri della modernità; qui interessa, in ogni caso, la malcelata delusione personale che sembrerebbe essere maturata. L’incursione nell’orizzonte altro del Granducato suscita, insomma, ammirazione, ma si accompagna a un senso di estraneità: il socievole Belli rimane un forestiero, che sfiora in posizione defilata i più importanti circoli culturali cittadini senza intrecciare legami duraturi. Nella seconda villeggiatura fiorentina, nei giorni in cui visita il gabinetto Vieusseux, invia a Spada un’epistola in latino maccheronico la cui godibilità non impedisce di interrogarsi sul vistoso anacronismo dell’iniziativa22. Le amicizie più durature ivi contratte
presumono come sfondo, piuttosto, la vivace vita mondana sperimentata nella città: si tratta, appunto, della Gori Pannilini, dell’«impenitente epicureo» Landuccio Landucci23, di Camillo Toriglioni, arcade con
il nome di Eleuterio Pantologo e accademico tiberino, attivo soprattutto come traduttore di Orazio. Cortese, ma niente di più, è una letterina di Giordani del 22 giugno 1825, nella quale piuttosto si riflette l’atteggiamento riverente dell’interlocutore:
Solamente l’altro dì ebbi dal signor Tavani colla cortesissima del 2. maggio di VS gratissimo segno della benevola memoria ch’ella serba di me; della quale cordialmente la ringrazio. Poich’ella è tanto gentile spero che non le graverà di ricordarmi al Signor Carelli pittore e alla sua consorte. La mia salute da quasi due mesi è in assai cattivo stato; né mai fu troppo buona dacché sono qui, dove pur trovo ogni altro bene desiderabile. Sul finir di giugno dovrò muovermi per Lombardia; dove non vorrei stare più d’un mese; perché fuori di quì non so vivere. Se nella mia nullità posso essere di qualche servigio a VS, mi sarò caro di essere da lei adoperato liberamente, alla quale mi offero, desiderandole ogni prosperità24.
Belli imbocca, allora, la via della santificazione memoriale: l’unica conoscenza veramente positiva di cui ci è data notizia è quella di Niccolini, «[…] un vero letterato, che fa classe da se, e non partecipa di tutte le galanterie de’ suoi concittadini. Togliete lui e tre o quattro altri a lui un poco inferiori, il resto è roba da affasciarsi per allustrarci le impiallacciature de’ canterani»25. Ebbene, sull’incontro sarà stesa, in
seguito, una patina idealizzante che implicitamente collocherà, configurando un rapporto asimmetrico di discepolato, anche Giuseppe nell’alveo d’una tradizione improntata al risentito impegno: «Io conobbi il Niccolini appiè di quello statuone dell’Allighieri, anima forte come la sua»26.
Il «poeta-filosofo» tra il Pesarese e Perugia
21 Vedila in BELLI, Lettere Giornali Zibaldone, Torino, G. Einaudi, 1962, pp. 35-44. 22 A F. Spada, 27.09.25. Cfr. Lettere, I, pp. 146-147.
23 La definizione è di IANNI, Belli e la sua epoca, cit., II, p. 192.
24 Roma, BNCR, A.88.20/1. Cit. in IANNI, Belli e la sua epoca, cit., II, pp. 201-202. 25 A M. Conti e F. Ricci, 17.07.1824: cfr. Lettere, I, pp. 128-130.
26 A M. Missirini, 14.02.33: cfr. M. VERDONE,Belli e Missirini, in Studi belliani nel centenario di Giuseppe Gioachino Belli, atti del
primo convegno di studi belliani e contributi vari pubblicati con la collaborazione dell’Istituto di studi romani, a cura del Comune di Roma, Roma, Colombo, 1965, pp. 591-610, alle pp. 608-610.
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I viaggi del triennio 1827-1829 segnano una fortissima discontinuità nel profilo identitario e poetico del Belli: l’abbandono dell’Accademia Tiberina comporta una vistosa decrescita della produzione italiana; al contempo, lo scrittore intensifica la sua ricerca con letture febbrili, nuovi incontri e la fondazione della «Società di lettura»; prende quindi forma il progetto del «monumento» della plebe di Roma, che ne assorbe quasi integralmente le energie fino al ’32.
Negli anni successivi si rafforza, in apparenza, il sodalizio con Francesco Maria Torricelli, che a sua volta trova in Giuseppe un disciplinato consulente per le sue iniziative letterarie. Dallo scambio, in ogni caso, non derivano a quest’ultimo particolari soddisfazioni: il conte fossombronese manifesta un’accentuata propensione al commento minuto dei testi, criticati sulla base d’un gusto convenzionale e d’una visione angustamente puristica del linguaggio («È vero che il Torricelli conchiude le sue osservazioni esser quelle di un trecentista, ma buggiararlo quel beato Trecento come la sona!»27). Molto
influenzato dalla scuola classicista romagnola, che a Roma, del resto, è stabilmente radicata nel gruppo del «Giornale Arcadico» (i Santi-Petti, detestati dal Belli), Francesco rimprovera all’amico una certa austera durezza che talvolta complica il dettato. Quando il corrispondente mostra segni d’impazienza, costui cerca di rimediare:
Quel tuo periodo, che comincia “Lo so, Torricelli mio ec” parmi scritto con umore permalosetto; perché non so persuadermi, che tutta la coscienza tua (e devi averne del valor tuo) sia stata d’accordo con la tua penna nello scrivere a proposito de’ tuoi versi “non li capisco che io”. Dico, che tutta la tua coscienza non può esser stata d’accordo con la tua penna; perché, a mo’ d’esempio, tu devi esser convinto, che i tuoi Sonetti per la morte dell’Ajudi, per due celebri cantatrici, per le nozze del Malvica si capiscano da tutti. Quindi mi perdonerai, se ho sospettato, che la tua frase sappia di quella umiltà, che si affetta, quando si è dolente di una critica. – Belli mio, io sfido tutti i viventi a vincermi nella stima, e nell’amicizia per te: e quando ti ho detto, che non mi sono ben chiari i versi 5.o e 6.o del Sonetto alla Bettini, te l’ho detto, perché il resto del Sonetto mi sembrava non solo
chiarissimo, ma bellissimo: e avrei voluto, che non fosse quel nèo nel 2.o quadernario. Del resto non temer no, che si faccia
carta-pesta de’ tuoi nobili versi; de’ quali tanti me ne mandi, e tanti leggo e rileggo, e già molti ne ho a memoria, sì mi pajono ornati di tutte gentilezze, e pieni di profonda sapienza. Sei un Poeta-filosofo, ch’io stimerei altamente per questo solo titolo, se assai più non istimassi come vero tesoro di bontà, e di amicizia. Lascia dunque al tuo Torricelli l’amichevole ardire di parlarti forse a sproposito; ma certo con ischiettezza di quelle cose tue, ch’egli supremamente apprezza; e non porlo in timore di aver punto il tuo nobilissimo animo, mentre pungerei prima me stesso28.
Effettivamente, nel corso degli anni Giuseppe ha accentuato lo spessore meditativo e moralistico dei suoi versi. La riflessione d’ampio raggio prende preferibilmente le mosse dall’attualità o da un pretesto celebrativo: come anche in qualche prova romanesca, può determinarsi un attrito tra le felicitazioni di