1. Uno scomodo ufficio vacante
Mentre l’intero incidente italo-cinese si avviava a diventare un nuovo pretesto per l’opposizione ed un
grave elemento di instabilità per il governo Pelloux, dalla tarda serata di sabato 11 marzo la legazione italiana di Pechino era formalmente priva di una guida diplomatica.
La brusca replica di Canevaro alla rivelazione dell’invio dell’ultimatum da parte di Renato De Martino può rivelarsi comprensibile, in ultima analisi, da numerosi punti di vista, soprattutto se si tiene conto
dell’aspro momento di tensione vissuto dal paese che il 4 marzo precedente aveva preso atto con enorme inquietudine dell’approvazione dei disegni di legge reazionari del capo del governo: la
pessima prova in ambito internazionale, coronata dal pasticcio dei telegrammi, avrebbe potuto causare (come in effetti avvenne) una definitiva crisi ministeriale e di conseguenza esasperare i contrasti interni.
Fu lo stesso ammiraglio Canevaro a rendersi protagonista della fase immediatamente successiva
all’uscita di scena di De Martino, poiché si trovò a dover gestire la scottante questione delle richieste
perentorie indirizzate allo Yamen ed il proseguimento delle trattative per la conquista di una qualche concessione nella provincia dello Zhejiang, oltre a curarsi della non facile scelta di un nuovo funzionario per la sede diplomatica cinese.
Senza dubbio l’elemento su cui il capo della Farnesina si mostrò più sicuro e convinto fu l’immediata cessione, seguita al repentino richiamo di De Martino, dell’intera legazione italiana alle cure dell’Inghilterra e del suo rappresentante. La consegna agli inglesi divenne, per Canevaro, l’unico modo per dimostrare l’assoluta estraneità del governo all’inattesa iniziativa del ministro plenipotenziario ed attestare la conformità d’intenti con i sistemi patrocinati da Salisbury.
Certo, questo atteggiamento finì per assumere quei tratti spiacevoli di soggezione ed asservimento nei confronti della grande potenza internazionale che non erano del tutto nuovi alla condotta del ministro, ma in questo caso divennero ancor più spiacevoli poiché accompagnati dalla generale sensazione di impotenza e passività nella gestione di una piena emergenza. Tuttavia, questo allarme ed il panico che
sembrò impadronirsi di Canevaro, coinvolse in definitiva solo lui, perché al di fuori dell’Italia tutti si
mostrarono al contrario molto pacati e semmai impazienti di cogliere le vere dinamiche degli eventi appena accaduti.
Oltretutto, le parole del telegramma con cui l’ammiraglio riferì a Londra del problema provocato da
«J’espere que Lord Salisbury veut bien, dans la situation extrèmement embarassante où l’acte de notre
ministre nous place, consentir à nous rendre ce service et à télégraphier immédiatement à sir Claude Mac
Donald d’accepter la remise de la legation du Roi. Nous aviserons demain à ce qu’il ya ultérieuremnt à
faire.
L’essentiel, le plus urgent, c’est qu’une mesure immediate remette les choses dans un état conforme aux
intentions de nos deux gouvernements»306.
L’intento appare chiaro: Canevaro sperava nel disciplinato intervento degli inglesi per sistemare la
vertenza con la Cina, confidando nel fatto che, dopo aver preso la legazione sotto la propria protezione, Lord Salisbury non avesse alcuna intenzione di tollerare uno stato di cose così imbarazzante, impedendo ulteriori e future seccature con la risoluzione definitiva dei negoziati. Tale
provvedimento avrebbe finalmente consegnato all’Italia la tanto sospirata concessione in Estremo
Oriente e risollevato le sorti del governo, ma anche del Ministero degli Esteri, senza alcuna diretta operazione.
L’effettiva consegna della legazione da parte di De Martino a Mac Donal avverrà solo il 17 marzo successivo, un po’ per i tentennamenti fiduciosi dell’ex ministro plenipotenziario, che sembrò sperare
fino alla fine in una possibile correzione del provvedimento ministeriale ed una riabilitazione della sua
funzione, ed un po’ per l’estrema prudenza dei britannici che rallentarono ulteriormente il complesso
delle pratiche.
Nel frattempo i principi dello Tsungli Yamen avevano inoltrato la risposta all’ultimatum del 10 marzo; si trattava della solita replica impassibile e dal tono pacato che faceva presupporre un’interpretazione pacifica del messaggio inviato da De Martino, che pertanto, a conferma delle sue parole, era riuscito
nell’intento di mantenere un’impostazione pienamente cortese e tutt’altro che rigida come invece
avrebbe richiesto un vero ultimatum. D’altro canto la stessa mancanza di severità nelle richieste non dette alcun risultato concreto, visto che gli elementi fondamentali delle domande italiane vennero ancora rifiutati perché ritenuti irrealizzabili; praticamente se da un lato i cinesi autorizzavano il rinvio
della nota del 2 marzo precedente, dall’altro ribadivano che era impossibile accettare nel complesso le rivendicazioni italiane. Dunque, se si voleva salvare “la forma” dei negoziati, lo Yamen, dopo aver riconosciuto l’errore del rifiuto della nota italiana, accettava una nuova spedizione di quest’ultima
giudicandola «non inconveniente», mentre nel contempo notificava che però non era «fattibile»
l’approvazione della sostanza dello stesso documento. Se di sblocco nelle trattative si voleva parlare, certo non era questo il caso. L’unico fattore che poteva tradire una certa “apertura” cinese era la
completa ammissione da parte dello Tsungli Yamen della scorrettezza diplomatica commessa con lo sgarbato rifiuto iniziale della nota del De Martino, un tassello su cui aveva battuto con insistenza anche Mac Donald e che solo dopo molte insistenze venne confessato, ma invece, rispetto alle
specifiche richieste formulate dall’Italia (che difatti vennero appoggiate superficialmente dagli
inglesi), non venne fatto alcun passo in avanti.
Potremmo dire pertanto che il gran polverone scaturito dall’improvviso invio dell’ultimatum da parte
della legazione italiana ed i suoi tanto temuti effetti non ebbero alcun seguito, se non all’interno del
306
paese. La blanda formulazione delle richieste non causò conseguenze con il governo cinese ed in ambito internazionale tutti si convinsero della fatalità dell’incidente dei telegrammi e nessuno mise sotto accusa Canevaro né, pare, De Martino. Certo questo nuovo smacco diplomatico ridicolizzò
nuovamente le aspirazioni di grande potenza dell’Italia e dimostrò la sua totale impreparazione in
ambito coloniale, ma è vero che la vicenda avrebbe potuto prendere anche una piega molto più
negativa e l’imminente catastrofe che preconizzò Canevaro la sera del giorno 11 marzo infine non si
avverò.
Indubbiamente però questi stessi avvenimenti ebbero invece una vasta risonanza all’interno dei confini del paese e scossero profondamente i due rami del Parlamento, indebolendo ulteriormente il governo del generale Pelloux ed allargando in maniera considerevole il numero di coloro che apertamente
dichiaravano la propria ostilità nei confronti dell’impresa in Cina. Il clima tesissimo emerse
chiaramente nelle turbolente discussioni alla Camera e al Senato, rispettivamente del 14 e del 18 marzo, quando anche i più abituali sostenitori di un ritorno ad una politica coloniale attiva ammisero
che l’intera operazione era stata condotta e preparata in malo modo. Il caso volle che in questo
momento estremamente critico sopraggiungesse la sospensione dei lavori delle assemblee a causa della pausa pasquale, pertanto le discussioni vennero opportunamente rimandate alla seconda metà del mese di aprile.
Al gruppo antigovernativo chiaramente non mancavano i motivi per contrastare l’azione del Ministero
ed opporsi ad una siffatta gestione del paese, ma ottennero nuovi stimoli da inaspettati avvenimenti che conquistarono la ribalta delle cronache e scatenarono aspre polemiche proprio in queste settimane, contribuendo ad accrescere il malumore generale. Innanzitutto, come i principi dello Yamen avevano
assicurato al Mac Donald prima del precipitare degli eventi, ebbe luogo l’incontro tra il rappresentante
del governo Qing307ed il ministro Canevaro durante il quale il diplomatico cinese chiarì che con la restituzione della nota del 2 marzo non si voleva arrecare alcuna offesa al governo italiano e che per tale violazione delle più comuni consuetudini internazionali lo Tsungli Yamen si scusava
ufficialmente. L’opinione pubblica nazionale riponeva grandi aspettative in questo appuntamento e
confidava nella reale presenza del portavoce dello Yamen per dare un nuovo avvio alle trattative su San Mun e riprendere i negoziati interrotti dall’ultimatum. Si pensava che questa fosse finalmente
l’occasione giusta per dare concretezza alle aspirazioni italiane in Estremo Oriente, «[il ministro
cinese, NdM] è finalmente partito oggi da Londra per Roma dove giungerà oggi per trattare della cessione di San Mun»308. L’attesa collettiva venne ben presto frustrata dalla fulminea uscita di scena
del funzionario cinese che liquidò la solenne visita in Italia in soli due giorni309, incontrando a malapena lo stesso Canevaro, visitando brevemente la Consulta ed intrattenendosi per «circa
mezz’ora» con il Re Umberto. Come se non bastasse, alle esplicite domande del Ministro degli Esteri
sul recupero delle richieste ormai in sospeso da giorni, il rappresentante cinese rispose di non aver
307
Il quale venne battezzato nei quotidiani e nella pubblicistica del tempo con i nomi più diversi e incomprensibili come Ci- Ceu-Lo-Feng-Lu oppure Chik-Cheu-Lo Jeng-Luh, ma anche Chih-Chen Lo-Feng-Luch.
308
La settimana all’estero, Il Popolo Romano, 19 marzo 1899.
309
ricevuto nessuna autorizzazione a parlarne e «si limitò a dire che non poteva rispondere, perché non aveva istruzioni in proposito»310, stroncando così ogni tentativo d’immediata risoluzione della vertenza
con la Cina. La tanto rapida quanto inutile visita del diplomatico a Roma irritò ancor più gli animi.
Mentre alcuni giornalisti tentarono di motivare l’ennesima, infruttuosa, debole iniziativa di Canevaro
con eccesive dosi di buonismo:
«L’ambasciatore rispose [alle precise e formali richieste di Canevaro, NdM] che avrebbe subito telegrafato al Tsung-li-Yamen, ma poiché si prevedeva una decisione in poche ore, egli – l’ambasciatore
– si sarebbe allontanato da Roma, salvo a ritornare a seconda delle circostanze.
Infatti il bravo uomo ha telegrafato a Pechino e stasera si mette in treno. Esauriti i mezzi diplomatici, tanto raccomandati dal governo inglese, il governo italiano si metterà finalmente sulla strada maestra, nella quale avrebbe dovuto mettersi fin dal principio»311
altri non provarono neppure a ipotizzare strane congetture o a inventare strane accuse, rifacendosi semplicemente allo sgomento della nuda realtà: «Il ministro cinese se n’è andato come era venuto, senza concludere altro che uno scambio di complimenti con Canevaro. Il pubblico scrolla le spalle e non ci crede, non ci crede..»312.
In questa fase di disorientamento generale entrò in gioco il marchese Salvago Raggi. Il giovane funzionario, rientrato da poche settimane in Italia dopo aver lasciato volontariamente la legazione di Pechino313e le beghe con De Martino, si trovò costretto a ripartire nei primi giorni di Aprile, questa volta con la carica di ministro plenipotenziario e con il preciso compito di sistemare rapidamente e con successo la questione della concessione della baia di San Mun.
La promozione ed il conseguente nuovo mandato di Raggi possono apparire banali ed ovvi se si
considerano l’esperienza maturata come incaricato d’affari nella capitale cinese e la precedente conoscenza diretta dei “piani” di De Martino. In realtà però Canevaro tentennò molto prima di affidare
al diplomatico un ruolo così delicato.
Per prima cosa il destituito ministro De Martino andava rimpiazzato con un funzionario di pari livello per poter dare la giusta efficacia alle rivendicazioni italiane: la giovane età di Salvago Raggi, che il 17 maggio avrebbe compiuto 33 anni, era un fattore estremamente svantaggioso per un avanzamento di carriera tanto necessario quanto repentino. Pur avendo maturato le proprie competenze in una piazza importante come il Cairo, al fianco di uno tra i più abili ambasciatori italiani come Alberto Pansa314, ed avendo bruciato le tappe della carriera diplomatica a cui da poco si era affacciato, era enormemente
rischioso lasciare l’intera querelle con la Cina nelle mani di un funzionario ancora sostanzialmente
inesperto. In più pare proprio che lo stesso Raggi non volesse affatto tornare a Pechino: secondo i diari
della baronessa Heyking, moglie dell’ambasciatore tedesco a Pechino, «Salvago hated this place very
310
L’Italia in Cina, Il Secolo XIX, 23-24 marzo 1899.
311
Ibidem.
312
Il paese dei mandarini, Il Secolo XIX, 3-4 aprile 1899.
313
Il ministro De Martino aveva tentato più volte di convincerlo a rimanere al suo fianco, ma senza successo. 314
Giuseppe Salvago Raggi era stato appena promosso segretario di Legazione quando arrivò al Cairo, nel marzo 1894, dove si trovava come ambasciatore il ministro Alberto Pansa. Quando quest’ultimo venne improvvisamente nominato a Costantinopoli, nel settembre 1895, Raggi rimase da solo a reggere l’ufficio fino al gennaio 1897. Nell’aprile di quello stesso anno venne inviato in Cina, sempre molto giovane, come incaricato d’affari dal Ministro degli Esteri Visconti Venosta.
much»315, ma anche la ben poco rosea prospettiva di rimediare ai guai creati da De Martino non doveva allettare molto il diplomatico, che per qualche settimana si rese irreperibile a causa della sopraggiunta malattia del padre.
Ma c’era anche un altro elemento decisamente poco stimolante, che lo stesso Raggi si troverà ad
accennare in modo breve e marginale: «La destinazione a Pechino con lettera di ministro venne decisa
dall’ammiraglio Canevaro, che non avevo incontrato prima d’allora316, e dopo che due ministri avevano rifiutato di andare a Pechino»317.
In effetti la scelta del marchese si rivelò l’ultima chance per Canevaro visto che aveva ricevuto, prima
di lui, ben due rifiuti. La difficile situazione venutasi a creare, unita alle caratteristiche di per sé già poco incoraggianti del mandato cinese, come per esempio la lontananza dall’Europa, la segregazione
all’interno del quartiere straniero, l’inciviltà dei cinesi e le innumerevoli deficienze del soggiorno, rendevano insopportabile per molti anche solo l’idea di un trasferimento.
La sera del 16 marzo, dopo due giorni dalla rimozione ufficiale di De Martino, giunse alla Farnesina il seguente telegramma proveniente da Bucarest: «Onorato lusinghiera offerta andare a Pechino: tuttavia salute delicatissima mia moglie esigendo cure continue rendendo assolutamente impossibile condurla meco oltremare, e separazione non solo dolorosissima ma sorge inquietudini costanti. Poiché V. E. ha bontà consultarmi sarò profondamente grato risparmiarmi crudele sacrificio»318.
La preghiera era di Emanuele Beccaria Incisa, incaricato d’affari a Bucarest dal febbraio 1895, pupillo del vecchio barone e Ministro degli Esteri Alberto Blanc, il quale rifiutò con garbo, ma anche con una
impercettibile vena di insofferenza, l’invito a divenire il nuovo ministro italiano in Cina. Dunque un
primo candidato alla sede della legazione di Pechino fu un uomo consapevole delle proprie numerose esperienze, cinquantenne e del tutto restio alla proposta del Ministro degli Esteri, che giocò la carta dei
“motivi personali” per respingere le “avances” di Canevaro.
L’alternativa al marchese Beccaria fu il conte Ercole Orfini, dall’agosto del 1894 inviato straordinario
e ministro plenipotenziario con lettere credenziali in Giappone. Di questa tentata investitura non abbiamo purtroppo documenti ufficiali, ma solo un breve cenno del Corriere della Sera, «è già stata
spedito l’ordine al nostro ministro al Giappone di recarsi a Pechino»319, che di per sé può avere un valore del tutto approssimativo. Eppure ci conferma questa indicazione anche Giorgio Borsa, il quale, pur non facendo riferimento ad alcuna documentazione, sanziona così il provvedimento
dell’ammiraglio: «Dopo aver pensato in un primo tempo di trasferire a Pechino il ministro a Tokio,
315
Elisabeth von Heyking, Tagebücher aus Vier Weltteilen, p. 219 in Lanxin Xiang, The origins of boxer war, op. cit., p. 92. 316
Lanxin Xiang sembra suggerire che la lontana parentela tra Canevaro e Salvago Raggi, riportata per intero anche nello studio di Borsa sulle carte dell’ammiraglio, (un cugino di Raggi aveva sposato una delle sorelle di Canevaro, vedi La crisi
italo-cinese nel marzo 1899, op. cit., p. 620) sia stata decisiva per l’attribuzione dell’incarico al marchese. In realtà, anche se
pare che i due non si fossero mai incontrati prima, la scelta finale di Canevaro sembra essere dettata dalla rinuncia degli altri candidati e dall’urgenza del rimpiazzo, non tanto da un vero e proprio “favoritismo”. Vedi L. Xiang, The origins of boxer
war, op. cit., p. 92.
317
G. Salvago Raggi, Ambasciatore del Re, op. cit., p. 100. 318
Tel. Beccaria a Canevaro originale n. 721 del 16 marzo 1899 in ASDMAE Serie Politica P 86 – Cina 1899, Pacco 405. 319
Canevaro decise di inviare in Cina il marchese Salvago Raggi»320. L’evidente comodità di spostare
Orfini dal Giappone alla vicina Cina si sarebbe rivelato un calcolo eccellente tenuto conto del fatto che il funzionario nella sede di Tokio aveva sicuramente monitorato con un occhio più attento dei colleghi in Europa le attigue vicende italo-cinesi. Ma anche la proposta al conte Orfini non ebbe successo e Canevaro fu costretto a rivolgersi al giovane marchese.
Nella seduta al Parlamento del 18 marzo il capo della Farnesina dichiarò all’assemblea che
«naturalmente il nuovo ministro a Pechino non può trovarsi immediatamente sul posto occorrendo 40 giorni per il viaggio»321, pertanto ne consegue che la scelta era ormai compiuta e che Giuseppe Salvago Raggi avrebbe assunto a breve la carica di ministro della legazione italiana di Pechino. Raggi scrive che fu persuaso più che altro dalle parole del padre convalescente, ma anche i velati accenni dei
suoi superiori ad una possibile conclusione anticipata di carriera a seguito dell’iniziale rifiuto e dalle
ripetute perplessità dimostrate dovettero avere un peso decisivo.
Anche il fronte internazionale concorse a mettere in seria difficoltà l’operato ed il credito di Canevaro: il 21 marzo Francia ed Inghilterra perfezionavano gli accordi a seguito dell’incidente di Fashoda del
1898 con una dichiarazione congiunta in cui venivano fissati con precisione i limiti dei rispettivi domini coloniali in Africa centrale. La totale esclusione della Francia dalla valle del Nilo aveva come
nutrito corrispettivo l’approvazione della sua esclusiva influenza nel resto dell’Africa equatoriale. Di per sé questa circostanza non aveva niente a che fare con l’Italia, eppure tale patto infiammò l’opinione pubblica della penisola e da molti venne giudicato come la concessione di un lasciapassare
gratuito alla Francia per estendere i propri interessi sulla Tripolitania, mentre altri, non meno pessimisti, valutarono questo intesa come causa di un futuro e drastico calo di influenza della stessa Tripolitania sui territori attigui dell'hinterland africano, ormai tutti francesi.
La stampa ovviamente si affrettò a sciorinare l’elenco dei danni innescati dalla complicità anglo-
francese, non risparmiando aspre critiche e severissimi giudizi sul governo e sul Ministro degli Esteri, il quale, messo alle strette nella successiva interrogazione parlamentare richiesta proprio su questi temi322, difese il Ministero ed il suo operato sostenendo l’ampia previsione, da parte della Farnesina, di
questo concordato e l’infondatezza di qualsiasi allarmismo in merito. Le risposte non tardarono a sopraggiungere ed un acceso coro di proteste accusò il Canevaro di non essere riuscito ad opporsi alla convenzione tra le due grandi potenze, visto che, pur sapendo dei propositi di Parigi e Londra non venne preso alcun concreto provvedimento a garanzia della propria presenza nel continente africano. Nonostante poi Canevaro confermasse che lo status quo della Tripolitania sarebbe rimasto
completamente invariato e che non avrebbe risentito della presenza e dell’influenza francese, nessuno
rimase soddisfatto e, soprattutto, convinto delle sue parole.
320
G.Borsa, Italia e Cina, op. cit., p. 148. 321
La vertenza italo-cinese in discussione al Senato, Corriere della Sera, 19-20 marzo 1899.
322
Discussione al Senato che avvenne subito dopo il rientro dalla sospensione pasquale. Atti Parlamentari, XX Legislatura, Seconda Sessione del 24 aprile, pp. 944-947.
Dunque la non facile sostituzione di De Martino come ministro plenipotenziario nell’impero Qing si accompagnò allo smacco della visita dell’ambasciatore cinese a Roma, in contemporanea con l’avvio delle polemiche a seguito dell’intesa anglo-francese sulle influenze africane.
In definitiva, l’unico fattore stabile e sicuro dell’intera questione con la Cina rimaneva la custodia
della legazione italiana da parte di Mac Donald, ma, anche su questo fronte, la calma non durò a