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MUN

Ripercorrere le singole storie nazionali e le vicende che caratterizzano gli anni 1899-1900 aiuta a collocare nella giusta prospettiva la controversia per la baia di San Mun e lo scontro internazionale con i boxers cinesi.

Seppur nella diversità e nella lontananza che dividono Italia e Cina certo non si può far a meno di notare alcuni elementi che, distinguendosi nettamente nei processi storici di entrambi i paesi, avvicinano inaspettatamente le due realtà. I conflitti profondi, il radicato malessere sociale, la grave instabilità istituzionale che frenava i già lenti processi di modernizzazione, i radicali cambiamenti sociali dettati da contatti esterni o sviluppi interni, il netto distacco tra paese reale e politica di governo ed il mancato risolversi del persistente squilibrio, se non attraverso l’uso della violenza, sono le prova di un cammino con molti punti di contatto tra il regno d’Italia e l’impero mancese dei Qing.

Certo è che le relazioni tra i due paesi non hanno inizio col XIX secolo, ma si fondano su un lungo, lento e per certi versi confuso passato di rapporti unici ed esclusivi, che richiamano alla mente personaggi come Marco Polo e Matteo Ricci, protagonisti indiscussi e testimoni diretti

dell’eccezionale primato italiano nell’incontro con l’alterità cinese fino al Settecento.

Eppure, col passare degli anni la stretta comunanza tra i due paesi si perse, proprio mentre invece cresceva l’importanza della Cina sul mercato mondiale, resa sempre più attraente dall’aura di mistero e irraggiungibilità legata alla sua chiusura all’Occidente.

Solo con la formazione del regno d’Italia tornò un certo interesse nei confronti dell’Estremo Oriente e della Cina, soprattutto dopo che gli obiettivi coloniali delle più grandi forze mondiali si concentrarono su quelle regioni ed alimentarono così, l’inesauribile volontà italiana di raggiungere quel ruolo di grande potenza a cui fin dalla sua unione la penisola aveva ambito.

Per l’Italia, questo traguardo diplomatico non aveva prezzo e nessuno esitò a conquistarlo passando

anche attraverso le strade di Pechino49.

1. Il lontano richiamo dell’Estremo Oriente

L’interesse per l’apertura dei porti cinesi nasce nel Regno delle due Sicilie fin dagli inizi del XIX secolo, ma diventerà un problema urgente e pressante con l’aggravarsi della malattia che colpì il baco

da seta nella metà del secolo, la pebrina. Furono interessate dalla distruzione di intere colture molte

regioni dell’Italia settentrionale, la Lombardia, il Veneto, il Piemonte, ed anche molte zone della

Francia del Sud, cioè il cuore della produzione, della lavorazione e del commercio della seta in tutta

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Il testo più importante per le vicende dell’espansione italiana in Cina e per un quadro dei legami che avvicinano i due paesi è quello di Giorgio Borsa, Italia e Cina nel secolo XIX, Milano, Edizioni di Comunità, 1961. Il lavoro di Borsa, insuperato negli anni, si completa poi con G. Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale. La penetrazione europea e la

crisi delle società tradizionali in India, Cina e Giappone, Milano, 1977. Più recenti le opere di Bertuccioli-Masini, Italia e Cina, Roma-Bari, 1996, di Piero Corradini, Italia e Cina: dalle prime relazioni consolari al trattato di pace del 1947, in

Europa. Per cercare di porre rimedio all’emergenza si rivolse l’attenzione verso i mercati orientali, alla

ricerca di materia prima e di semi sani, in grado di rendere nuovamente vitale l’industria locale50.

Missioni governative e viaggi organizzati da sericultori privati girarono per tutto l’Estremo ed il

Medio Oriente alla ricerca dei prodotti migliori.

Al di là dei risultati ottenuti, emerge sempre più prepotentemente il completo abbandono in cui si trovano a dover operare i sudditi sardi, nonostante la crescita dei contatti e delle relazioni col mondo asiatico. Solo nel maggio 1860 il Regno di Sardegna decise di istituire un consolato a Shanghai51, il più grande e importante centro cinese per il commercio della seta, e vi pose in qualità di console onorario James Hogg52, un commerciante di seta inglese.

Con il raggiungimento dell’unità d’Italia si moltiplicarono le ragioni per regolarizzare i rapporti

diplomatici con la Cina ed in genere con l’Estremo Oriente.

L’emergenza pebrina non poteva dirsi conclusa, e tenuto conto del fatto che il sistema italiano di scambi con l’estero si basava per lo più sull’industria della seta, la minaccia di un collasso definitivo

del sistema serico era molto temuta. La protezione degli affari sul mercato Orientale era affidata, come abbiamo visto, a consoli o sudditi di altri paesi che pur svolgendo nel migliore dei modi gli incarichi loro affidati non avevano quel carattere di ufficialità necessario per negoziare in modo efficace per conto del proprio paese.

Stabilire relazioni solide con la Cina era indispensabile anche per poter porre finalmente un freno ad una attività, quella della tratta dei coolies53, che stava compromettendo fortemente l’immagine

dell’Italia e contribuiva a ridurne la stima al cospetto delle potenze.

Tra gli anni Quaranta e Settanta dell’Ottocento, una quantità enorme di lavoratori cinesi, i coolies appunto, legata da contratti di semi-schiavitù, veniva imbarcata sulle coste cinesi e trasportata verso paesi in cui la richiesta di manodopera risultava particolarmente alta come la Nuova Zelanda,

l’Australia e le Americhe. Le condizioni spaventose in cui si venivano a trovare questi operai ed il

trattamento che erano costretti a subire rammentavano tristemente le più antiche tratte atlantiche africane, nonostante la schiavitù fosse ormai abolita e rinnegata dalla maggior parte dei paesi. Più della metà delle navi che partecipavano a questo traffico battevano bandiera italiana e nella generale povertà delle attività commerciali tra Italia e Cina, questo coinvolgimento, presunto prima e

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Nel 1859 lo stesso conte di Cavour suggeriva di scambiare merci italiane con bozzoli cinesi. Vedi Raffaele Ciasca, Storia

coloniale dell’Italia contemporanea, Milano, 1938, p.285.

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Il primo consolato generale del Regno di Sardegna verrà aperto nel 1816 a Canton e l’incarico venne affidato ad suddito inglese, Thomas Dent. In seguito tale ufficio rimarrà vacante e l’improvviso scoppio della seconda guerra dell’oppio (1865- 1860) che si concentrerà proprio nelle zone cantonesi ne impedirà il ripristino. Per questo e anche per la necessità di inserirsi al meglio nell’area di maggior interesse sericolo della Cina verrà scelta Shanghai quale sede del un nuovo consolato.

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James Hogg rimarrà in carica fino al 1868 quando verrà sostituito dal funzionario di seconda classe Lorenzo Vignale. 53

Il tema dei coolies nella storiografia italiana si condensa in alcuni studi degli anni Ottanta, quello di E. Clini, L’ingaggio

dei coolies nel XIX secolo, in ‘Mondo Cinese’, n. 31, 1980, pp.7-18 e quello di M.E. Ferrari, Sulla tratta dei “coolies” cinesi

a Macao nel secolo XIX: l’abolizione della schiavitù e lo sfruttamento dei nuovi “coatti” nelle colonie europee e in America

Latina, in ‘Storia Contemporanea’, n. 2, 1983, pp. 309-332. Sulla questione del presunto coinvolgimento di Garibaldi in

questa tratta si veda P. Cowie, Garibaldi in Oriente, aprile-settembre 1852, in Beonio Brocchieri, Garibaldi, Mazzini e il

Risorgimento nel risveglio dell’Asia e dell’Africa, Atti del Convegno internazionale, Pavia novembre 1982, Milano, 1984.

Per una panoramica più ampia e generale invece Arnold Meagher, The coolie trade: the traffic in Chinese laborers to Latin

confermato poi dalle stesse indagini governative54, appariva agli occhi di tutto il mondo estremamente grave. Era indispensabile dunque collaborare con le autorità cinesi al fine di vigilare su questo

squallido ma lucroso commercio e porre fine all’opera infamante. Vista la particolare attenzione con cui in Italia si cercava di costruire e rafforzare un’immagine positiva della recente unità, la

sistemazione di tale questione non poteva essere rimandata oltre.

Di non trascurabile importanza era poi la politica economica interna, tenacemente sostenuta dal regno di avviare e mantenere un struttura commerciale fondata sulla libertà di scambio; un’impostazione questa che mise in moto un regolare e continuo susseguirsi di trattati di commercio e navigazione con i

maggiori paesi d’Europa. L’obiettivo era non solo quello di aprirsi al commercio con l’estero ma

soprattutto di ottenere il riconoscimento delle potenze anche sul piano economico. La ricerca di un contatto con la lontana Cina avrebbe sicuramente favorito l’appoggio internazionale e avrebbe dato credito al paese. Tanto più che, in un momento in cui imperava sulla scena internazionale l’accanita

politica di Inghilterra e Francia per l’apertura della Cina al commercio mondiale, la posizione marginale dell’Italia, priva di una relazione ufficiale con l’impero mancese, la poneva in condizione di

assoluta inferiorità impedendole qualsiasi tipo di negoziazione e delegittimando qualunque aspirazione ad assumere un ruolo ben definito nei confronti delle grandi potenze.

2. Il trattato di amicizia, commercio e navigazione del capitano Arminion

Nonostante tutte le sopradette ragioni che decretavano l’impellenza dello stabilire rapporti diplomatici

regolari con la Cina, fu solo con il Ministro dell’Agricoltura e del Commercio del 1864, Luigi Torelli, succeduto al Minghetti nel governo Lamarmora, che si riuscì a realizzare concretamente il progetto da tempo vagheggiato.

Il conte Torelli si propose, fin dai primi giorni, come convinto sostenitore ed appassionato del progetto

di Lesseps sul taglio dell’istmo di Suez. Il ministro assicurava che la riuscita di un’impresa come

quella di Lesseps avrebbe portato ad un incremento naturale dei traffici con l’Oriente per tutta

l’Europa (ma soprattutto per l’Italia) e per questo, tale iniziativa, andava supportata e promossa il più

efficacemente possibile. Il dinamismo di Torelli, che mise in pratica e incoraggiò molte iniziative volte

a favorire ed ampliare la conoscenza in Italia dell’Oriente, si realizzò nella ripresa di antichi progetti che predisponevano l’invio di una nave da guerra in Cina e Giappone, accompagnata da un

plenipotenziario che potesse negoziare trattati di commercio.

Presa in modo definitivo la decisione di avviare il programma, venne scelta per la spedizione una nave di recente costruzione e modernissima, la pirocorvetta Magenta, affidata al capitano di fregata Vittorio F. Arminjon, che venne posto a comando dell’intera missione. La scelta di destinare al comandante della Magenta la guida della missione diplomatica fu di certo dettata da esigenze di bilancio, ma, nonostante le ottime doti dimostrate dal giovane ufficiale, risultò indiscutibilmente azzardata, non solo

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Il contrammiraglio Arminjon ne darà numerosi anche se brevi resoconti nella sua relazione ufficiale V.F. Arminjon, La

China e la missione italiana del 1866, Firenze, 1885; si vedano in particolare pp. 31-32. Il ministro italiano in Cina e

Giappone, il conte Sallier de La Tour, vi dedicherà un lungo rapporto pubblicato in “Bollettino Consolare”, vol. VIII, parte I, 1872.

perché si trattava di una iniziativa senza precedenti nel caso italiano e quindi diplomaticamente molto delicata, ma anche perché, in caso di esito negativo, non poteva essere supportata in alcun modo

dall’Italia, che per lontananza e debolezza non era nelle condizioni di potersi imporre. È da notare che durante tutta la preparazione dell’impresa non c’è traccia di alcuna ricerca di personale che potesse

accompagnare la spedizione in qualità di interprete di lingua cinese o giapponese. Questa parte

sostanziale dell’organizzazione del progetto venne del tutto tralasciata, confidando nell’appoggio che

in loco avrebbe potuto fornire il personale addetto alle rappresentanze delle numerose potenze europee in Asia. È anche vero che in Italia, in quegli anni, non c’erano interpreti capaci di far fronte ad una missione diplomatica e che i maggiori sinologi del tempo erano per lo più studiosi teorici55.

Le istruzioni per i negoziati da parte del governo giunsero in modo definitivo ad Arminjon nel porto di Singapore nel maggio 1866. Tra le altre indicazioni risalta il primato riservato al disbrigo delle pratiche nella cittadina di Yeddo, legato certamente alle forti pressioni esercitate dal comparto sericolo italiano stabilitosi ad Yokohama. La richiesta di completare le trattative col Giappone, senza lasciare niente in sospeso prima di recarsi a Pechino, è indicativa dell’importanza assunta dal mercato

giapponese nell’industria della seta italiana e del peso dell’assenza del governo in quei territori.

Conclusa con successo la missione a Yeddo il 25 agosto 1866, la Magenta levò le ancore verso la Cina. Arminjon giunse a Pechino il 27 settembre dopo aver pazientato diversi giorni prima nei pressi

di Shanghai, dove attese gli esiti della terza guerra d’indipendenza, che potevano compromettere il

sostegno alla missione da parte dei rappresentanti di alcune potenze, e poi a Tientsin per ottenere il

lasciapassare dalla massima autorità locale. Ma l’arrivo nella capitale del Celeste Impero non implicò

il completo superamento delle difficoltà che sopraggiunsero col primo formale contatto con le autorità

cinesi. Pur avendo ottenuto l’appoggio di tutti i membri del corpo diplomatico straniero e solo dopo l’intervento diretto delle legazioni di Inghilterra e Russia si riuscì a trovare un compromesso tra le

lungaggini burocratiche cinesi e le urgenze di Arminjon56.

Il testo italiano e cinese dell’accordo fu elaborato e ultimato già nei primi giorni a Pechino durante l’attesa per l’avvio dei negoziati ed era un’accurata raccolta dei “migliori” articoli dei concordati

allora in vigore57in Cina, compresa la clausola della nazione più favorita, e proprio per questo, nella sostanza, non ci fu motivo di scontro con la parte cinese.

La cerimonia per la ratifica del trattato ebbe luogo a Pechino, nella residenza dello Tsungli Yamen58, il 26 ottobre 1866. Dopo aver posto la propria firma, uno dei due commissari investiti dei pieni poteri

55Vedi G. Bertuccioli, Per una storia della sinologia italiana: prime note su alcuni sinologhi e interpreti di cinese, in ‘Mondo cinese’, n. 2, 1991, pp. 9-39.

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Il plenipotenziario italiano temeva l’arrivo dell’inverno e il conseguente formarsi di ghiacci a bloccare la navigazione sul fiume Pei-ho (che collega Pechino al mare) con l’evidente impossibilità di rientrare sulla Magenta e quindi in Italia.

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Le principali caratteristiche dei trattati ineguali erano: l’apertura di alcuni porti al commercio, l’extraterritorialità (ovvero la possibilità per gli stranieri di sottrarsi alla giurisdizione cinese), le tariffe doganali esterne fissate nei singoli trattati e la clausola della “nazione più favorita”.

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Con la sconfitta cinese nella seconda guerra dell’oppio diventava necessario creare per la Cina un organo istituzionale adatto a relazionarsi con gli occidentali. Cfr. nota 31. Il principe Kung, promotore di una nuova politica di apertura e di distensione con le potenze, progetterà la creazione dello Tsungli Yamen che verrà poi istituito formalmente il 20 gennaio 1861 col nome completo di “Ufficio per la trattazione generale delle questioni attinenti ai vari paesi”, poi abbreviato in “Ufficio per la trattazione generale”, ovvero, appunto, Tsungli Yamen. Tale ufficio, parte accessoria del Gran Consiglio

per trattare con l’Italia dichiarò: «La Cina desidera che non abbiate consoli negozianti nei suoi porti,

ma che i vostri connazionali siano rappresentati da ufficiali dello Stato, in carriera attiva»59. Con

questa richiesta si poneva l’Italia alla stregua delle altre potenze occidentali e le si raccomandava una condotta consona all’impegno preso. Arminjon assicurò che si sarebbe fatto portavoce di tale desiderio presso il governo italiano, ma, come si dimostrò poi, l’Italia era ben lontana dall’essere una grande

potenza.

3. Un’occasione sprecata

Da parte cinese non c’era in realtà alcun interesse ad aumentare i traffici e i commerci con l’Italia: l’accordo appena concluso era parte concreta del metodo storicamente alquanto efficace di liberarsi degli invasori mettendoli con pazienza e lungimiranza gli uni contro gli altri. L’aumento del numero

dei rappresentanti stranieri in Cina non poteva che facilitare e velocizzare il raggiungimento del risultato voluto,.

In Italia il successo della spedizione Arminjon portò entusiaste speranze di un lento ma fatale progredire, non tanto dei contatti diplomatici e di amicizia, quanto del commercio e dell’industria. Il governo italiano era animato dalle intenzioni più pacifiche e più venali: nominò con calma il conte Sallier de La Tour ministro plenipotenziario di Giappone e Cina, con il preciso compito di procurare nuovi sbocchi commerciali e di assumere in ogni caso il maggior numero di informazioni giudicate interessanti60. Per mettere ben in chiaro gli intenti meramente economici del suo operare e ribadire

l’interesse quasi esclusivo per la produzione della seta, si preferì far stabilire il proprio rappresentante

a Shanghai e non nel centro della vita diplomatica di Pechino. La scelta di risiedere a Shanghai è

probabilmente da ricondurre alle stesse motivazioni che vi avevano portato anche l’apertura del

Consolato: l’enorme importanza strategica della città nel commercio cinese e la concentrazione qui dei pochi interessi italiani. Oltretutto Sallier de La Tour, come alcuni suoi successori, preferirà in ogni caso risiedere in Giappone, a Yokohama, e si recherà solo in caso di estrema necessità sulla terraferma.

Per tentare di rimediare ad una rappresentanza diplomatica altalenante, nel 1868, sempre a Shanghai,

fu istituito il Consolato generale d’Italia con addetti ufficiali in carriera di prima categoria, dando

prova, ma solo in apparenza, di una certa prontezza nel soddisfare le richieste ufficiose cinesi, sopraggiunte col trattato del 1866. Nel resto dei porti aperti tuttavia, e soprattutto nei centri cruciali di

ovvero del supremo organo del governo imperiale, pur intrattenendo rapporti diretti con le diplomazie occidentali non aveva alcun potere decisionale e qualsiasi provvedimento in materia di politica spettava, come di consueto, all’imperatore. Infine, lo Tsungli Yamen aveva autorità solo negli affari che riguardavano in maniera diretta la città di Pechino, mentre per la gestione delle coste e dei loro porti si doveva far riferimento ai due “sovrintendenti dei porti aperti”.

59

V.F. Arminjon, La China.. op. cit. p.76. 60

Ad esempio il viaggio della corvetta Principessa Clotilde, arrivata in Asia nel 1869, aveva lo scopo di ricercare spazi adatti all’insediamento di una colonia penale. Vedi Ciro Paoletti, La marina italiana in Estremo Oriente 1866-2000, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 2000, p. 14.

Canton, Tientsin e Hong Kong, la rappresentanza diplomatica rimase affidata a consoli onorari stranieri oppure la si lasciò vacante.

Negligenze e mancanze nella gestione delle operazioni cinesi

La posizione di potenza attribuita all’Italia dalla Cina non venne alimentata, né sostenuta ed anzi si

costellò di episodi dissennati tra cui l’assenza del successore di Sallier de La Tour, Alessandro Fe’

Ostiani, alla prima udienza concessa dal sovrano celeste ai rappresentanti dell’intero corpo

diplomatico residente a Pechino, nel giugno 1873, dopo il massacro di Tientsin61in cui persero la vita una ventina di occidentali. Un incontro storico.

Nel frattempo non si registrava alcun cambiamento in merito agli scambi tra i due paesi e le ragioni

che avevano motivato da più parti l’urgenza di un contato diretto ed ufficiale con l’Estremo Oriente, caddero nell’oblio. Gli italiani residenti nei porti aperti crebbero, ma di poco, e le importazioni intimamente legate all’industria della seta ne seguivano l’andamento, oscillando sempre sulle

medesime cifre e rimanendo comunque largamente al di sotto delle aspettative. I prodotti italiani esportati in Cina avevano un volume insignificante ed erano perlopiù beni che si dimostravano poco richiesti dal mercato cinese, oppure, come nel caso dei manufatti di cotone e di lana, non risultavano affatto convenienti62.

Questo insuccesso dipendeva da molteplici fattori che dimostravano quanto la stipulazione del trattato fosse solo la prima, anche se certamente la più importante, di una serie di operazioni da compiere contemporaneamente per sviluppare una solida rete di relazioni tra i paesi.

Una linea di navigazione diretta con l’Estremo Oriente avrebbe facilitato lo sviluppo dei traffici e

avrebbe contribuito a spezzare il monopolio degli scambi che passava attraverso le grandi potenze. I commercianti lamentavano da tempo gli svantaggi legati a trasporti che, sempre indiretti, finivano per gravare sul prezzo finale dei prodotti. Un primo progetto, a seguito della fusione tra le compagnie di navigazione Rubattino e Florio, venne esaminato negli anni Ottanta, ma venne chiuso con un nulla di fatto.

Proprio in quel tempo la China Merchant’s Steam Navigation Company, dopo aver vagliato la

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