Capitolo II: Gli oggetti del rito
II.1 Eschilo
Ἱκετῶν ἐγχειρίδια, ἐριόστεπτοι κλάδοι159. Κλάδοι. Λευκοστεφεῖς ἱκετηρίαι. Λευκοστεφεῖς νεόδρεπτοι κλάδοι. Κλάδοι νεόδροποι. I ramoscelli coronati di lana, attributi specifici dei supplici, vengono menzionati nella tragedia per la prima volta da parte del coro nel corso della parodo, durante la quale essi dovevano costituire parte
158 La decisione di approfondire la tragedia eschilea invece dell’omonima tragedia euripidea è dovuta
al fatto che in Euripide il legame tra oggetti della supplica e significato della tragedia sembra essere più superficiale e al fatto che nella tragedia euripidea il vero motivo di interesse è di natura politica più che rituale.
159 Il LSJ interpreta ἐγχειριδίοις di verso 21 come occorrenza dell’aggettivo ἐγχειρίδιος, non altrove
attestato in età classica, con il significato di ‘in the hand’; si deve, invece, intendere il termine come sostantivo (τό ἐγχειρίδιον) e considerare κλάδοισιν del verso successivo come apposizione. Il termine ha in Erodoto e nella prosa Attica di quinto secolo il significato di ‘pugnale/ corta spada’ ed è questo il valore che dovevano attribuirgli gli spettatori coevi, intendendo perciò l’espressione come ‘suppliants’ daggers’ come suggeriscono Johansen/Whittle (1980, II: 21-22). Il nesso doveva risultare ambiguo e pertanto veniva immediatamente chiarito dalla successiva apposizione. Probabile l’allusione alla sorte dei cugini delle Danaidi, che saranno colpiti per mezzo di pugnali dalle fanciulle durante la prima notte di nozze. Non chiara è la posizione del Bowen (2013: 148) riguardo al termine; lo studioso prima afferma che il sostantivo sta a significare letteralmente ‘little thing in the hand’ e sottolinea come nel resto delle sue occorrenze nel greco classico, tranne, a suo dire, in questo caso, il termine significhi ‘dagger’, poi traduce l’espressione come ‘suppliants’ weapons in our hands’.
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della coreografia: τίν’ ἂν οὖν χώραν εὔφρονα μᾶλλον/ τῆσδ’ ἀφικοίμεθα/ σὺν τοῖσδ’ ἱκετῶν ἐγχειριδίοις/ ἐριοστέπτοισι κλάδοισιν; (versi 19-22)160. Ad essi fa nuovamente riferimento Danao che ai versi 191-194, vedendo approssimarsi i rappresentanti della terra in cui sono giunti, suggerisce alle figlie di stringere in mano i ramoscelli, ἀγάλματ’ αἰδοίου Διός (verso 192), che rendono visivamente evidente la loro condizione.
A notare i ramoscelli da supplici è ai versi 241-242 Pelasgo, che sottolinea come le fanciulle, sebbene non indossino abiti tipicamente greci, si siano, tuttavia, attenute all’uso greco di dedicare i ramoscelli stessi presso l’altare degli dei, indizio della loro origine greca161. Nell’indagare le ragioni della fuga delle fanciulle dalla loro terra di origine, Pelasgo menziona di nuovo i rami da supplice al verso 334: τί φὴις ἱκνεῖσθαι τῶνδ’ ἀγωνίων θεῶν/ λευκοστεφεῖς ἔχουσα νεοδρέπτους κλάδους; (versi 333-334). Il re fa ancora significativamente riferimento ai ramoscelli al verso 346 affermando πέφρικα λεύσσων τάσδ’ ἕδρας κατασκίους e ai versi 354-355 ribadendo ὁρῶ κλάδοισι νεοδρόποις κατάσκιον/ νεύονθ’ ὅμιλον τόνδ’ ἀγωνίων θεῶν.
Ai versi 480-485 Pelasgo, mosso a pietà dalle suppliche delle fanciulle, suggerisce a Danao di portare i ramoscelli da supplici, qui identificati con un deittico, come offerta anche ad altri altari cittadini, per suscitare compassione nel popolo stesso, perché si convinca dell’adeguatezza della decisione del sovrano di dare accoglienza alle fanciulle e ne dia approvazione. Non si deve pensare che Danao portasse con sé tutti i ramoscelli, ma che ne prendesse solo alcuni, mentre una parte ne veniva lasciata sull’altare per tutta la durata della tragedia. Ai versi 506-508 il re dà disposizioni anche alle fanciulle, suggerendo loro di deporre i ramoscelli, σημεῖον πόνου (verso 506), e di recarsi nel vicino boschetto. In seguito i ramoscelli non vengono più menzionati, ma rimangono significativamente visibili sulla scena162.
160 I ramoscelli vengono menzionati ancora ai versi 159-160: εἰ δὲ μή, μελανθὲς/ ἡλιόκτυπον γένος /
τὸν γάιον,/ τὸν πολυξενώτατον/ Ζῆνα τῶν κεκμηκότων/ ἱξόμεσθα σὺν κλάδοις/ ἀρτάναις θανοῦσαι,/ μὴ τυχοῦσαι θεῶν Ὀλυμπίων. Non sono d’accordo con Burian (1971: 43-44), che afferma «the maidens will use their wreatched branches as nooses and turn away to the other Zeus». Credo che Eschilo intenda dire che le Danaidi continueranno la propria supplica, recando i ramoscelli cinti di lana anche di fronte ad Ade, se non troveranno accoglienza presso la terra di Argo e non riusciranno ad evitare altrimenti le nozze, anche perché ai versi 457-465 le Danaidi rivelano l’intenzione di impiccarsi utilizzando le proprie cinture e i propri accessori femminili.
161 Si deve immaginare che oltre ai ramoscelli che le fanciulle recano in mano, altri ne fossero stati
adagiati sull’altare e davanti alle stature delle divinità, forse durante le invocazioni dei versi 209ss. oppure in concomitanza con le parole di Danao ai versi 223ss.
162 Per completezza si indica che secondo una delle possibili interpretazioni del verso 656 (Aesch. Suppl. 656-657: τοιγὰρ ὑποσκίων/ ἐκ στομάτων ποτάσθω φιλότιμος εὐχά·) ad ombreggiare le bocche
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I ramoscelli coronati da bende, sulla cui presenza ed evidenza scenica tanto si insiste nella prima metà della tragedia, hanno la funzione di rappresentare visivamente la condizione di supplici delle Danaidi163. Questi oggetti, ai quali si fa ampio ricorso in tragedia, appartenevano nell’antichità classica al costume religioso e alla vita quotidiana e dovevano risultare familiari al pubblico ateniese. Generalmente venivano scelti a questo scopo rami di ulivo, coronati da fasce di lana. Secondo l’interpretazione di Servio nel suo commento all’Eneide virgiliana, infatti, tanto l’ulivo quanto la lana erano simboli di pace164; la lana, inoltre, aveva anche un legame con la dimensione divina in quanto era comune per sacerdoti e sacerdotesse indossare bende di questo materiale165. I ramoscelli, dunque, per queste loro caratteristiche, si fanno metafora del supplice nella sua natura innocua e inoffensiva e nel particolare favore che gode presso gli dei e segnalano questi suoi tratti tanto a chi riceve la supplica, quanto a chi costituisce per il supplice stesso una minaccia.
Essi, quindi, nell’ambito del rituale dell’ἱκετεία hanno, unitamente ad altri gesti e alle parole, la funzione di dimostrare al destinatario della supplica la condizione di bisogno del supplice stesso e il suo porsi in una posizione di inferiorità nei suoi confronti. È, però, nell’apparente debolezza del supplice a nascondersi l’ambiguità di questo rituale, che se da un lato dimostra la superiorità di chi riceve la supplica e ne riconosce il potere, dall’altro ne espone al rischio l’integrità in quanto il supplice porta con sé la minaccia di chi lo incalza e perseguita. Le figlie di Danao, indifese e straniere, corrispondono perfettamente alla caratterizzazione del supplice. Esse, giunte ad Argo, cercano accoglienza e protezione nella comunità e trovano in Pelasgo un πρόξενος, che, pur essendo ben consapevole del pericolo che esse rappresentano per la città, assume il ruolo di mediatore tra loro e la comunità cittadina166. Una volta che le
(1980, III: 25-27). La soluzione sembra improbabile e suscita numerose difficoltà; alternativa potrebbe essere ritenere che le Danaidi avessero il capo coperto da un velo (Bowen (2013: 284)).
163 Lo strumento visivo ai affianca alla dimensione verbale; oltre ai ripetuti riferimenti ai ramoscelli,
Eschilo ricorre nella tragedia con grande frequenza ad epiteti e appellativi inerenti alla supplica per identificare tanto le Danaidi e il loro padre quanto Zeus e Temi (vv. 1, 347, 360, 478-479, 616). Le Danaidi in quanto supplici godono della particolare protezione di Zeus (vv. 381-386).
164 Serv. Aen. 8.128. Burkert (1979: 44) mette in connessione la scelta di presentare un ramoscello in
segno di supplica con la pratica antichissima di realizzare le στιβάδες, costituite di rami e utilizzate per riposarsi e stare comodi in occasione soprattutto della partecipazione a cerimonie sacrificali e a festività. Per lo studioso «stretching out the suppliant’s branch then means: Lord, let me prepare the bed for you on which you may rest».
165 Naiden (2006: 569); di tale natura sono ad esempio le bende che avvolgono lo scettro di Crise,
sacerdote di Apollo, nell’Iliade omerica (Hom Il. 1.14-15).
166 Secondo Burian (1971: 52ss.) nelle Supplici eschilee viene messa in scena una vera e propria
perversione del rituale della supplica ad opera delle Danaidi che nel minacciare Pelasgo di suicidarsi, contaminando così la città, commettono un gesto tanto violento quanto quello dei cugini nei loro
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fanciulle hanno ottenuto l’appoggio del re di Argo, possono depositare i ramoscelli sull’altare in quanto il loro ruolo nella supplica è giunto al termine ed esse si apprestano ad attendere la decisione che si compirà altrove, nelle sedi cittadine del potere. I ramoscelli, in quanto simbolo più rappresentativo dell’ἱκετεία, rimangono, tuttavia, pur non venendo più menzionati, visibili sulla scena ad indicare che la supplica non è ancora stata pienamente accolta. Danao, infatti, ha avuto il compito di portare in città una parte dei ramoscelli, distribuendoli fra gli altari cittadini, mentre Pelasgo ha riunito il popolo per la decisione definitiva. Solo al termine della tragedia, quando ormai la città ha decretato di accogliere le Danaidi, le fanciulle possono lasciare le statue degli dei e gli altari sui quali hanno deposto i ramoscelli cinti di bende bianche167.
b) Agamennone
Σκῆπτρα./ Μαντεῖα στέφη./ Χρηστήρια ἐσθής./ Κόσμοι168. Cassandra, entrata in scena insieme ad Agamennone al verso 810, doveva essere immediatamente identificabile come profetessa di Apollo dagli abiti e dagli accessori da lei indossati. Al verso 1072, nel rompere il silenzio che aveva fino a questo punto caratterizzato la sua presenza sulla scena, Cassandra si rivolge ad Apollo e lo invoca, sconvolta dalle visioni. Diviene, quindi, immediatamente chiaro lo stretto rapporto tra la profetessa e il dio,
confronti. Lo studioso attribuisce il gesto al fatto che pur avendo origine greca le fanciulle hanno avuto pochi contatti con la cultura greca stessa e quindi non conoscono le sfumature del rito e necessitano della presenza di chi le guidi passo dopo passo, ruolo che viene inizialmente portato a termine da Danao ed in seguito da Pelasgo. L’idea di una perversione del rituale della supplica viene ripresa e sviluppata da Turner (2001) che ritiene che nel corso della trilogia di cui le Supplici facevano parte i ruoli di persecutore, vittima e protettore, tipici del suppliant pattern si sovvertissero completamente tanto che le Danaidi da vittime diventano persecutrici, Pelasgo e gli Argivi da protettori, vittime e gli Egiziani da persecutori, protettori. Turner afferma che nella mancata reciprocità dell’αἰδώς, qualità necessaria ad entrambe le parti in causa nel rituale della supplica, le Danaidi falliscono nel porsi in una condizione di inferiorità rispetto a Pelasgo, rivendicando invece per sé una posizione di potere. L’anomalia della supplica delle Danaidi viene notata anche da Passariello (2011) che torna a sottolineare la violenza delle donne e i loro toni tracotanti. Seppur non ritengo di condividere una caratterizzazione tanto negativa delle Danaidi in quanto credo che Eschilo volesse suscitare nel pubblico una partecipazione emotiva alla loro condizione e non ostilità, ciò che hanno notato gli studiosi menzionati consente di sottolineare ancora una volta la complessità e l’ambiguità racchiusa nella figura del supplice.
167 Non si può trattare in maniera estesa in questo studio della funzione degli altari nel rituale della
supplica; basti dire che dati due tipi di supplica, l’una rivolta ad un essere umano o ad una divinità di persona, l’altra indirizzata alla divinità presso l’altare o il recinto sacro della divinità stessa, tratto comune ad entrambe le tipologie è la necessità di mantenere il contatto fisico perché la supplica sia più efficace. Nel caso dell’altare, inoltre, finché il supplice era a contatto con essa non poteva subir danno da chi lo minacciava (Gould (2001: 24-29)).
Nelle Supplici eschilee non abbiamo informazioni in proposito, ma Soph. OT 143 e Eur. Suppl. 258ss. ci testimoniano che una volta che la supplica era andata ad effetto i rami potevano essere portati via.
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fonte delle sue capacità mantiche, approfondito nel dialogo tra Cassandra e il coro ai versi 1202-1213.
Le visioni di Cassandra non riguardano solamente le vicende passate, ma si estendono anche ai fatti futuri. Dopo aver profetizzato la morte di Agamennone e la propria, ai versi 1264-1265 Cassandra rivolge la propria attenzione allo scettro e ai paramenti che sono simbolo della sua condizione di profetessa: τί δῆτ’ ἐμαυτῆς καταγέλωτ’ ἔχω τάδε/ καὶ σκῆπτρα καὶ μαντεῖα περὶ δέρηι στέφη;169. In coincidenza con le parole di verso 1266, la profetessa distrugge le sacre insegne e getta a terra i simboli del suo legame con Apollo: σὲ μὲν πρὸ μοίρας τῆς ἐμῆς διαφθερῶ·/ ἴτ’ ἐς φθόρον· πεσόντα γ’ ὧδ’ ἀμείψομαι·/ ἄλλην τιν’ ἄτης ἀντ’ ἐμοῦ πλουτίζετε (versi 1266-1268)170. Cassandra menziona di nuovo i paramenti ai versi 1270 e 1271, affermando che è il dio stesso ad averla spogliata della veste mantica, dopo aver permesso che venisse derisa da chi non aveva rispetto per la sua condizione di profetessa171: ἰδοὺ δ’, Ἀπόλλων αὐτὸς ἐκδύων ἐμὲ/ χρηστηρίαν ἐσθῆτ’, ἐποπτεύσας δέ με/ κἀν τοῖσδε κόσμοις καταγελωμένην †μέτα†/ φίλων ὑπ’ ἐχθρῶν οὐ διχορρόπως †μάτην† (versi 1269-1272).
Le capacità profetiche di Cassandra provengono da Apollo e sono una conseguenza dei tormentati rapporti tra la profetessa e il dio. Nell’Agamennone eschileo Cassandra
169 La maggior parte degli editori ha posto una virgola dopo il τάδε di verso 1264, ritenendo che
σκῆπτρα e στέφη siano apposizioni del pronome dimostrativo (Wecklein (1885: 316); Wilamowitz (1909: 97) traduce «Was trag’ ich das noch, mir zum Spotte, mir zum Hohn,/ Prophetenscepter und Prophetenbind’ im Haar?»; Smyth in Lloyd-Jones/Smyth (1926: 110) traduce « Why then do I bear these mockeries of myself, this wand, these prophetic chaplets on my neck?»; Thomson (19662: 129)).
Fraenkel (1950: 584) interpreta il testo diversamente, in quanto l’accoppiamento dei due καί dopo la virgola gli sembra insostenibile e ritiene non vi siano parallelismi per il caso di un termine generale precisato ricorrendo a termini particolari, tutti introdotti da καί. Gli esempi di ripetizione del καί portati da Dindorf (1876: 170) non sono a parere dello studioso veramente paragonabili al caso in questione (ad es. Aesch. Pers. 843; Ag. 676-677; Cho 670). Seguendo lo scolio tricliniano che glossa τάδε con ἐσθήματα (Σ Tricl. in Aesch. Ag. 1264 p. 194, 22 Smith I), egli interpreta il pronome dimostrativo come il primo elemento in una successione di tre termini.
170 Gli studiosi si sono interrogati su quale sia il referente del pronome σέ di verso 1266. Se gli scolii
(Σ in Aesch. Ag. 1266 p. 14, 5 Smith I; Σ Tricl. in Aesch. Ag. 1266 p. 194, 25-26 Smith I) ritengono che il pronome sia riferito alla veste profetica e così sostengono anche alcuni studiosi moderni (Matteuzzi (2008: 312)), diffusa è anche l’idea che esso si riferisca allo scettro (Wilamowitz (1914: 227); Denniston/Page (1957: 185)). Fraenkel (1950: 585) sottolinea giustamente che la questione non può trovare soluzione attraverso la sola testimonianza testuale, in quanto ogni ambiguità doveva chiarirsi nella messa in scena. Durante la performance l’attore, attraverso la propria gestualità, doveva rendere evidente anche le ragioni del problematico passaggio dal singolare di verso 1266 (σέ), al plurale di verso 1267 (ἴτ’ ἐς φθόρον).
171 Nell’interpretare il τάδε di verso 1264 come primo termine di un elenco di tre elementi, Fraenkel
(1950: 584) trova un perfetto accordo tra il verso menzionato e i versi 1269-1270: ἰδοὺ δ’, Ἀπόλλων αὐτὸς ἐκδύων ἐμὲ/ χρηστηρίαν ἐσθῆτ’[…]. Secondo lo studioso anche l’abito di Cassandra, alla pari di bende e scettro, fa parte del costume della profetessa.
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ha un atteggiamento ostile verso il dio, che ritiene causa della sua rovina e morte, e le sue stesse dolorose visioni sono descritte come δεινὸς πόνος (verso 1215). A lungo gli studiosi si sono chiesti in che senso Apollo possa dirsi causa della morte di Cassandra. Alcuni ritengono che il coinvolgimento del dio vada inteso in senso letterale: Apollo avrebbe escogitato e pianificato l’arrivo della profetessa ad Argo e la sua uccisione da parte di Clitemnestra come ulteriore punizione per essere stato da lei ingannato172. Più appropriata sembra l’interpretazione di Fontenrose173. Lo studioso ritiene che l’unica punizione del dio nei confronti di Cassandra sia aver tolto credibilità alle sue profezie, che vengono ritenute menzognere e infondate sebbene siano veritiere174. Dal momento che è proprio il fallimento delle profezie di Cassandra e la loro mancata efficacia a provocare prima la caduta di Troia e poi la morte di Agamennone e della profetessa stessa, si può, in questo senso, ritenere Apollo causa ultima degli eventi.
Nel contesto della relazione ostile tra l’indovina e il dio risulta particolarmente significativo il gesto di Cassandra di distruggere i paramenti sacri, simbolo delle capacità profetiche della fanciulla, che ne calpesta i lacerti dopo averli gettati a terra175. Cassandra, strappando le insegne mantiche, pone fine all’attività di veggente e profetessa, che è stata per lei motivo di sofferenza e di emarginazione all’interno della stessa cerchia familiare.
172 Mazon (19556: 51) ad esempio afferma nel commentare il verso 1138 dell’Agamennone: «ces mots
ne peuvent guère s’adresser qu’à Apollon […]. Il ne serait pas dans le caractère de Cassandre d’adresser à Agamemnon une plainte ou un reproche: le dieu seul a tout fait».
173 Fontenrose (1971: 107-110).
174 Il fatto che la morte di Cassandra non faccia parte della punizione escogitata dal dio nei confronti
della fanciulla per l’inganno subito è supportato dall’interpretazione che Mazzoldi (2001a) dà dei versi 1275-1276: καὶ νῦν ὁ μάντις μάντιν ἐκπράξας ἐμὲ/ ἀπήγαγ’ ἐς τοιάσδε θανασίμους τύχας. A risultare particolarmente problematico è ἐκπράξας. A lungo interpretato e tradotto come se equivalesse ad un ποιήσας (ad esempio Mazon (19556: 56): «et voici qu’aujourd’hui le prophète qui m’a fait prophétesse
m’a lui-même conduite à ce destin de mort»), viene poi da Fraenkel (1950: 169, 592-593) interpretato come equivalente al latino exigere. Lo studioso ritiene che Apollo esiga attraverso la morte di Cassandra il pagamento del debito che la fanciulla ha contratto con lui quando il dio, donandole l’arte profetica, l’ha resa di sua proprietà: «so now the Seer has exacted me, the seer, as his due, and has led me off to die like this». Mazzoldi ritiene, invece, che l’espressione καὶ νῦν ὁ μάντις μάντιν ἐκπράξας ἐμὲ di verso 1275 si riferisca ai versi precedenti (versi 1273-1274) e non al verso successivo e che l’azione espressa dal participio ἐκπράξας di verso 1275 si collochi su un piano temporale antecedente rispetto all’azione di verso 1276. Questa la traduzione proposta dalla studiosa: «e ora il μάντις, dopo avermi fatto scontare il mio essere μάντις, mi ha condotto a questa sorte di morte».
175 Il fatto che Cassandra calpesti i brandelli di veste e bende caduti a terra viene dedotto
dall’espressione πεσόντα γ’ ὧδ’ ἀμείβομαι di verso 1267 dove il presente ἀμείβομαι, posto a testo ad esempio da Fraenkel (1950), Wilamowitz (1914), Denniston/Page (1957), va preferito al futuro ἀμείψομαι che Page (1972) decide di inserire e che può essere dovuto ad assimilazione rispetto al futuro διαφθερῶ del verso immediatamente precedente. La preferenza va al verbo presente in quanto alle parole di Cassandra si doveva accompagnare un’azione.
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Potendo avvalerci del solo testo risulta problematico ricostruire la successione delle azioni compiute da Cassandra. Poco chiaro è ad esempio se in un primo momento ella strappasse le sole bende sacre e gettasse a terra lo scettro e in un secondo momento si spogliasse della veste mantica, azione nella quale la profetessa riconosce l’intervento di Apollo, oppure se l’indovina, oltre a distruggere bende e scettro, strappasse contemporaneamente anche la veste176. In ogni caso, nel gesto di strappare la veste profetica, Cassandra individua in maniera volutamente simbolica l’intervento di Apollo: il dio che le aveva donato la preveggenza e l’aveva vestita delle proprie insegne è lo stesso che la priva, quando è ormai prossima alla morte, della veste profetica.
Nel discutere della veste profetica, è stata presa in considerazione la possibilità che essa fosse un ἀγρηνόν, tessuto di lana, che aveva l’aspetto di una rete ed era indossato dagli indovini e anche dai seguaci di Dioniso177. L’ipotesi troverebbe, secondo Matteuzzi, conferma in alcune espressioni, riferite a Cassandra, nelle quali è impiegata l’immagine della rete178. La presenza di una veste/rete sulla scena andrebbe a visualizzare queste stesse espressioni nella concretezza materiale dell’oggetto scenico, oltre ad alludere al peplo/rete nel quale di lì a poco sarebbe stato intrappolato Agamennone. La possibilità, suggerita dalla studiosa, che un ἀγρηνόν andasse a ricoprire l’ὀμφαλός di Delfi renderebbe ancora più carica di significato la scena in cui
176 Difficile è stabilire quando vada collocato il gesto di strappare la veste. Si deve ritenere che
Cassandra lo compisse in coincidenza con l’espressione σὲ μὲν πρὸ μοίρας τῆς ἐμῆς διαφθερῶ (verso 1266), come si potrebbe pensare nel caso in cui si considerasse il σέ riferito alla veste mantica? Oppure lo si deve considerare successivo e coincidente con le parole ἰδοὺ δ’, Ἀπόλλων αὐτὸς ἐκδύων ἐμὲ/ χρηστηρίαν ἐσθῆτ’(α) […] (versi 1269-1270)? Nel caso in cui si preferisse la prima alternativa, si può ritenere che Cassandra con le parole dei versi 1269-1270 descrivesse un’azione già compiuta, anche se contrario a questa opzione è l’uso del participio presente ἐκδύων, che indicherebbe un’azione in svolgimento nel momento in cui Cassandra parla. Alternativamente si può pensare che in coincidenza con queste parole l’azione venisse ripetuta, con il risultato che il gesto di strappare la veste mantica risulterebbe spezzato in due momenti successivi. Pur nell’impossibilità di dare una soluzione definitiva alla questione, ritengo preferibile immaginare che in un primo momento la profetessa strappasse le bende e distruggesse lo scettro e solo in un secondo momento si liberasse della veste mantica. In questo modo, mentre nel secondo gesto viene individuato l’intervento di Apollo, a cui viene simbolicamente attribuito l’atto di destituire Cassandra dal ruolo di profetessa, il primo gesto risulta espressione di ostilità nei confronti del dio e si configura come una vendetta da parte della profetessa nei suoi confronti, come si afferma in Denniston/Page (1957: 185).
177 Per una descrizione della veste: Poll. Onom. 4.116; Hsch α 777 Latte ; EM s.v. ἀγρηνόν; sulla
questione vd. Sommerstein (20102: 160).