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Gli oggetti di scena e il loro significato drammatico nel teatro tragico antico

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di Laurea in Filologia e Storia dell’Antichità

Tesi di Laurea Magistrale

Gli oggetti di scena e il loro significato drammatico

nel teatro tragico antico

Relatore:

Prof. Enrico Medda

Controrelatore:

Prof. Andrea Taddei

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

Candidata:

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Indice

Introduzione 1

Note di lavoro 12

Capitolo I: Gli oggetti dell’autorità e del controllo 13 I.1 Eschilo a) Persiani 14 b) Orestea b.1) Agamennone 17 b.2) Coefore 21 b.3) Eumenidi 25 c) Prometeo Incatenato 29 I.2 Sofocle a) Aiace 33 b) Filottete 38 I.3 Euripide a) Eraclidi 43 b) Andromaca 46 c) Eracle 49 d) Troiane 53

Capitolo II: Gli oggetti del rito 56 II.1 Eschilo a) Supplici 57 b) Agamennone 60 II. 2 Sofocle a) Elettra 65 II. 3 Euripide a) Baccanti 68

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Capitolo III: Gli oggetti del riconoscimento 74 III.1 Eschilo a) Coefore 74 III.2 Sofocle a) Elettra 79 III.3 Euripide a) Ione 81

Capitolo IV: Gli oggetti dell’intrigo 85 IV. 1 Eschilo a) Orestea a.1) Agamennone 85 a.2) Coefore 88 a.3) Eumenidi 90 IV. 2 Sofocle a) Elettra 94 b) Trachinie 97 IV. 3 Euripide a) Medea 102 b) Ifigenia in Tauride 105 c) Ione 107

Capitolo V: Gli oggetti della comunicazione 110 V.1 Euripide a) Ippolito 112 b) Ifigenia in Tauride 116 c) Ifigenia in Aulide 118 Conclusione 122 Tabella riassuntiva 123

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Bibliografia 128

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Introduzione

Nello studiare il teatro greco ed ancora di più nello studiare la tragedia greca spesso si perde di vista quella che era la dimensione primaria di ricezione e la reale destinazione delle opere drammatiche, vale a dire la loro natura performativa. Un interesse per l’aspetto della performance teatrale ha cominciato ad affacciarsi nel panorama degli studi classici nel corso del ‘900 per giungere ad un importante sviluppo intorno alla seconda metà del secolo1 con il lavoro di Oliver Taplin, che può essere considerato l’iniziatore di questo tipo di studi2. Egli sottolinea come la dimensione performativa si affianchi a quella verbale come strumento portatore di significato, sviluppando l’attenzione di Eduard Fraenkel per i fatti scenici della tragedia e la sua felice intuizione, che trova espressione nel commento all’Agamennone di Eschilo, secondo la quale «for Greek tragedy there exists also something like a grammar of dramatic technique»3.

Oltre al fatto che l’esperienza del teatro antico passa per gli studiosi moderni prevalentemente attraverso il testo, ad aver influenzato in maniera significativa gli studi, relegando per molto tempo l’aspetto della messa in scena in secondo piano rispetto allo studio filologico e letterario del testo, è stata sicuramente l’influenza della

Poetica aristotelica o, per meglio dire, dell’interpretazione rigida e normativa che di

essa è stata data tra Cinquecento e Seicento nel contesto della riflessione teorica riguardante il teatro portata avanti dal Rinascimento italiano e dal Classicismo

1 In questo stesso periodo, accanto agli studi rivolti a ricostruire l’aspetto performativo, se ne

sviluppano altri che cercano di sradicare l’idea che il testo sia l’unica entità da ricostruire, preservare e studiare. Si tratta di una corrente di pensiero che prende le mosse da studiosi come Jean Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet che, con le loro opere Mythe et tragédie en Grèce ancienne e Mythe et tragédie

deux, sottolineano come solo ricostruendo il contesto in cui una certa opera è stata prodotta e fruita si

possa capire pienamente il testo in questione.

2 Già nel corso degli anni ’60 alcuni studiosi avevano rivolto nei loro studi un’attenzione particolare

alla dimensione performativa. Mi riferisco in particolare a Russo (1962), che si interessa delle condizioni della performance delle commedie di Aristofane, e a Hourmouziades (1965), che approfondisce l’elemento visivo nel teatro di Euripide. A precederli è l’assai significativa opera di Pickard-Cambridge (1953), The Dramatic Festivals of Athens.

3 Fraenkel (1950: 305).

The ancient world has not changed…How could it? Yet we have changed. Our assumptions are different, and our questions are different.

(David Wiles, Greek Theatre Performance, an Introduction) Perfeci ut spectarentur

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francese4. John Jones affermava con cognizione di causa: «the Poetics has exerted more influence through the ideas people have read into it than through those it contains»5. Proprio per questa ragione uno studio che si ponga come obiettivo quello di indagare un aspetto della messa in scena non può prescindere dal presentare, seppur brevemente, ciò che sullo spettacolo ci viene detto da parte del filosofo e pensatore di quarto secolo.

Nella Poetica Aristotele, occupandosi delle varie componenti e parti della tragedia, sembra riservare all’ὄψις un giudizio severo, considerandola superflua per la comprensione della tragedia stessa e talvolta fuorviante. Studi recenti hanno dimostrato, rispetto all’approccio degli studiosi di età precedente, come tale linea interpretativa del testo aristotelico abbia forti limiti e non riesca a cogliere la complessità di un’opera dalle molte sfaccettature che, per essere opportunamente compresa, deve essere necessariamente ricondotta ad un certo contesto e considerata nel suo complesso, senza cedere alla tentazione di isolare singole affermazioni. Andiamo, perciò, a considerare in breve i punti della Poetica in cui Aristotele parla della messa in scena e della dimensione visiva del teatro.

La menzione del ὁ τῆς ὄψεως κόσμος si ha per la prima volta nel corso del sesto capitolo e non assume in questa prima occorrenza accezione negativa6. Aristotele si limita a constatare che la tragedia per sua stessa definizione, essendo una μίμησις πράξεως, presenta personaggi che agiscono ed, in quanto tale, una parte costitutiva della tragedia stessa è l’allestimento dello spettacolo – così generalmente viene tradotto il termine ὄψις7. La conferma del fatto che l’ὄψις sia una delle sei parti strutturali della tragedia8 ci viene data per ben due volte nel seguito del capitolo9. Al

4 Questa riflessione portò alla nascita del teatro moderno. Aristotele costituiva, quindi, a quell’epoca

l’interlocutore ed il termine di confronto principale per chi si accostava alla pratica teatrale.

5 Jones (1968: 11).

6 Arist. Po. 1449 b31-32: Ἐπεὶ δὲ πράττοντες ποιοῦνται τὴν μίμησιν, πρῶτον μὲν ἐξ ἀνάγκης ἂν εἴη τι

μόριον τραγῳδίας ὁ τῆς ὄψεως κόσμος· [...] Di seguito alla menzione dell’ὄψις, vengono per la prima volta elencate le altre cinque parti della tragedia e di ciascuna di esse viene data spiegazione (Arist. Po. 1449 a34-1450 a8).

7 Sifakis (2013: 52) nel suo contributo sottolinea come a suo parere il termine ὄψις assuma a seconda

dell’occorrenza e del suo essere utilizzato al singolare o al plurale diversi significati; se al plurale il termine si riferisce, nell’opinione dello studioso, a quegli elementi visivi in uso sulla scena come maschere, costumi ed oggetti di scena (Arist. Po. 1450 b19-20), al singolare invece esso si riferisce allo spettacolo inteso e considerato nella sua interezza.

8 Nel capitolo dodicesimo infatti si distinguerà tra le parti della tragedia nel senso dei suo diversi aspetti

e le parti dal punto di vista quantitativo (Arist. Po.1452 b14-16: Μέρη δὲ τραγῳδίας οἷς μὲν ὡς εἴδεσι δεῖ χρῆσθαι πρότερον εἴπομεν, κατὰ δὲ τὸ ποσὸν καὶ εἰς ἃ διαιρεῖται κεχωρισμένα τάδε ἐστίν).

9 Le parti della tragedia sono elencate la seconda volta in base alla funzione che hanno nel complesso

della tragedia. Sotto l’aspetto dei mezzi attraverso i quali avviene l’imitazione si hanno due parti (dizione e musica), una sotto l’aspetto della maniera in cui si effettua l’imitazione (lo spettacolo) e tre

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termine del sesto capitolo, invece, si trova l’affermazione che per lungo tempo ha portato gli studiosi a dare per scontata e sottovalutare la dimensione visiva; Aristotele dice infatti ἡ δὲ ὄψις ψυχαγωγικὸν μέν, ἀτεχνότατον δὲ καὶ ἥκιστα οἰκεῖον τῆς ποιητικῆς· ἡ γὰρ τῆς τραγῳδίας δύναμις καὶ ἄνευ ἀγῶνος καὶ ὑποκριτῶν ἔστιν, ἔτι δὲ κυριωτέρα περὶ τὴν ἀπεργασίαν τῶν ὄψεων ἡ τοῦ σκευοποιοῦ τέχνη τῆς τῶν ποιητῶν ἐστιν (Arist. Po. 1450 b16-20). Nel capitolo quattordicesimo il pensatore contrappone i sentimenti di pietà e paura suscitati dalla trama in sé e quelli suscitati invece dallo spettacolo, considerando la prima delle alternative migliore della seconda e inoltre ritiene che sia del tutto inappropriato alla tragedia il fatto che si venga a suscitare attraverso l’elemento visivo non tanto τὸ φοβερόν, quanto τὸ τερατῶδες10. Si ritorna a parlare in maniera indiretta di elemento visivo nel momento in cui nel capitolo sedicesimo si tratta delle forme del riconoscimento e Aristotele ribadisce la superiorità di quel tipo di riconoscimento che scaturisce dai fatti su quello che invece si produce attraverso oggetti e segni visibili11. Nel capitolo diciassettesimo, tuttavia, il pensatore sottolinea come sia importante, nel comporre la trama, tenere in considerazione la destinazione performativa delle opere drammatiche e quali siano gli errori e gli insuccessi che derivano dal tralasciare e sottovalutare questo aspetto12. Troviamo nuovamente un riferimento all’ὄψις nel capitolo ventiquattresimo, nel contesto del confronto tra tragedia ed epica; il pensatore sottolinea come i due generi condividano le stesse parti ad esclusione di musica e spettacolo, che, quindi, ancor più acquisiscono carattere definitorio per la tragedia stessa13. Il confronto tra tragedia ed epica si protrae fino all’ultimo capitolo della Poetica, il ventiseiesimo, nel quale, dovendosi stabilire

dal punto di vista dell’oggetto dell’imitazione (trama, caratteri e pensiero); Arist. Po. 1450a9-10: ταῦτα δ’ ἐστὶ μῦθος καὶ ἤθη καὶ λέξις καὶ διάνοια καὶ ὄψις καὶ μελοποιία. L’ultimo elenco delle parti della tragedia viene effettuato in base al loro contributo più o meno significativo al τέλος e all’ἔργον della tragedia (Arist. Po. 1450 a15-b20).

10 Arist. Po. 1453 b1-14: Ἔστιν μὲν οὖν τὸ φοβερὸν καὶ ἐλεεινὸν ἐκ τῆς ὄψεως γίγνεσθαι, ἔστιν δὲ καὶ ἐξ αὐτῆς τῆς συστάσεως τῶν πραγμάτων, ὅπερ ἐστὶ πρότερον καὶ ποιητοῦ ἀμείνονος. δεῖ γὰρ καὶ ἄνευ τοῦ ὁρᾶν οὕτω συνεστάναι τὸν μῦθον ὥστε τὸν ἀκούοντα τὰ πράγματα γινόμενα καὶ φρίττειν καὶ ἐλεεῖν ἐκ τῶν συμβαινόντων· ἅπερ ἂν πάθοι τις ἀκούων τὸν τοῦ Οἰδίπου μῦθον. τὸ δὲ διὰ τῆς ὄψεως τοῦτο παρασκευάζειν ἀτεχνότερον καὶ χορηγίας δεόμενόν ἐστιν. οἱ δὲ μὴ τὸ φοβερὸν διὰ τῆς ὄψεως ἀλλὰ τὸ τερατῶδες μόνον παρασκευάζοντες οὐδὲν τραγῳδίᾳ κοινωνοῦσιν· οὐ γὰρ πᾶσαν δεῖ ζητεῖν ἡδονὴν ἀπὸ τραγῳδίας ἀλλὰ τὴν οἰκείαν. ἐπεὶ δὲ τὴν ἀπὸ ἐλέου καὶ φόβου διὰ μιμήσεως δεῖ ἡδονὴν παρασκευάζειν τὸν ποιητήν, φανερὸν ὡς τοῦτο ἐν τοῖς πράγμασιν ἐμποιητέον. 11 Arist. Po. 1454 b21-22: […] πρώτη μὲν ἡ ἀτεχνοτάτη καὶ ᾗ πλείστῃ χρῶνται δι’ ἀπορίαν, ἡ διὰ τῶν σημείων.

12 Arist. Po. 1455 a21-26: Δεῖ δὲ τοὺς μύθους συνιστάναι καὶ τῇ λέξει συναπεργάζεσθαι ὅτι μάλιστα

πρὸ ὀμμάτων τιθέμενον· οὕτω γὰρ ἂν ἐναργέστατα [ὁ] ὁρῶν ὥσπερ παρ’ αὐτοῖς γιγνόμενος τοῖς πραττομένοις εὑρίσκοι τὸ πρέπον καὶ ἥκιστα ἂν λανθάνοι [τὸ] τὰ ὑπεναντία.

13 Arist. Po. 1459 b8-10: Ἒτι δὲ τὰ εἴδη ταὐτὰ δεῖ ἔχειν τὴν ἐποποιίαν τῇ τραγῳδίᾳ, ἢ γὰρ ἁπλῆν ἢ

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quale tra modalità di imitazione epica o tragica sia la migliore, sembra affermarsi in un primo momento il primato dell’epica perché questo genere si rivolge ad un pubblico più elitario e ristretto e non ha bisogno dell’elemento visivo. Di fronte a questa affermazione Aristotele ribadisce, tuttavia, che la tragedia rivela pienamente le sue qualità anche alla sola lettura, ma rispetto all’epica essa può avvalersi della musica e dell’elemento visivo che ne accrescono la gradevolezza14. Questa rapida panoramica dei vari passi della Poetica nei quali si parla della dimensione scenico-spettacolare15 della tragedia ci restituisce un’immagine contraddittoria e complessa. Se infatti è vero che il pensatore da un lato riconosce all’ὄψις un posto sicuro tra gli elementi costitutivi e strutturali della tragedia, ne ammette la capacità psicagogica e di seduzione e ne fa il banco di prova per saggiare il valore di una tragedia, è altrettanto vero che egli dà voce al suo rifiuto nei confronti dell’ὄψις affermandone con forza l’estraneità rispetto alla τέχνη ποιητική e il suo carattere accessorio quanto al realizzarsi dell’efficacia della tragedia. La natura apparentemente contraddittoria di queste affermazioni ci porta in primo luogo ad opporci all’idea che Aristotele non attribuisca alcuna rilevanza e dignità allo spettacolo drammatico, come per lungo tempo si è creduto. In secondo luogo rende necessario notare con Sifakis16 come Aristotele affermi molto chiaramente che l’ὄψις è a pieno diritto una delle parti della tragedia, ma sottolinei anche come questo non la renda automaticamente parte dell’arte della composizione poetica tragica. Sifakis mette, quindi, giustamente in luce la distinzione aristotelica tra tragedia come opera drammatica, vale a dire destinata alla scena, e arte poetica della tragedia. Se prendiamo in considerazione questa affermazione non è necessario né opportuno considerare le parole di Aristotele – mi riferisco in particolare al capitolo sesto – in contraddizioni tra loro. Si può, inoltre, affermare, come fa David Konstan17, che Aristotele non considera l’elemento visivo in assoluto incompatibile con il piacere

14 Arist. Po. 1462 a14-17: Ἒπειτα διότι πάντ’ἔχει ὅσαπερ ἡ ἐποποιία (καὶ γὰρ τῷ μέτρῳ ἔξεστι

χρῆσθαι), καὶ ἔτι οὐ μικρὸν μέρος τὴν μουσικήν [καὶ τὰς ὄψεις], δι’ ἧς αἱ ἡδοναὶ συνίστανται ἐναργέστατα·

Come possiamo vedere a testo, la maggior parte degli editori ha deciso di espungere καὶ τὰς ὄψεις. Vi sono varie ragioni per operare l’espunzione. In primo luogo μέρος è al singolare e sembra riferirsi solo ad un termine, inoltre Aristotele aveva attribuito alla sola musica la capacità di suscitare i maggiori e più grandi piaceri (Arist. Po. 1450 b16). Sicuramente, tuttavia, ha avuto un qualche ruolo nella decisione a favore dell’espunzione anche il fatto che in precedenza (Arist. Po. 1453 b7-14) Aristotele aveva detto che l’elemento visivo non era in grado di suscitare il tipo di piacere adatto alla tragedia; l’espunzione ha, pertanto, evitato di dover dar ragione del carattere contraddittorio delle due frasi.

15 Cosi De Marinis (2009) definisce in modo molto appropriato l'ὄψις. 16 Sifakis (2013).

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generato dalla tragedia, ma contempla la possibilità di un corretto uso dell’ὄψις, secondo il quale gli effetti visivi rafforzano e rendono immediatamente percepibili per gli spettatori aspetti dell’azione e della trama; la dimensione visiva viene, quindi, riconosciuta nel suo carattere costitutivo e semantico per la tragedia, ma allo stesso tempo ricondotta ad una funzione ancillare nei confronti del μύθος. Rispetto, dunque, all’interpretazione tradizionale del pensiero aristotelico, che considera l’ὄψις elemento non necessario e che sostiene la possibilità di fruire delle opere tragiche nella forma del solo testo, senza alcuna conseguenza negativa in termini di comprensione ed efficacia, l’approccio più recente restituisce alla Poetica aristotelica, relativamente a questa tematica, la sua complessità18.

Proprio a un aspetto della messa in scena sarà dedicato questo lavoro, vale a dire all’uso e significato drammatico degli oggetti di scena nel teatro tragico di quinto secolo.

Prima di illustrare nel dettaglio l’impostazione della presente ricerca si rendono necessarie alcune premesse e precisazioni al fine di delimitarne l’ambito di interesse. Non trascurabile sembra in primo luogo ripetere un dato di fatto, per quanto ovvio e intuibile possa sembrare; la conoscenza delle modalità d’uso, della funzione e del significato degli oggetti di scena, nonché la constatazione della loro stessa presenza sulla scena, passa per noi in maniera quasi esclusiva attraverso il testo tragico e da esso ci è resa possibile. È, quindi, al testo che dobbiamo quanto più fedelmente possibile attenerci nello svolgere le nostre considerazioni.

Questa dipendenza dal testo tragico porta con sé una conseguenza di cui dobbiamo necessariamente tener conto; non possiamo escludere siano esistiti alcuni oggetti di scena che, pur rilevanti drammaticamente, non abbiano lasciato traccia nel testo. Rob Tordoff19 suggerisce un esempio interessante tratto dall’Alcesti di Euripide. Una volta morta Alcesti e conclusisi il triste lamento di Admeto, di suo figlio e del coro, al verso 476 entra in scena, non annunciato, Eracle. Il coro immediatamente, senza necessità di interrogare in alcun modo l’eroe, lo riconosce e gli si rivolge al verso 478 chiamandolo per nome. Il tempestivo riconoscimento del personaggio deve passare

18 De Marinis (2009) approfondisce il contesto in cui l’opera aristotelica è stata scritta ed attribuisce a

queste circostanze la ragione dell’atteggiamento di Aristotele nei confronti dell’ὄψις. Il pensatore, secondo De Marinis, sentiva con ogni probabilità la necessità di ribadire la forza e l’efficacia intrinseche del testo tragico nel suscitare pietà e paura, in contrapposizione allo strapotere e alla tirannia che la scena esercitava nel quarto secolo, con il suo sempre più marcato gusto per la spettacolarità.

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necessariamente attraverso la presenza sulla scena di alcuni oggetti tradizionalmente legati all’eroe, vale a dire l’arco, la λεοντῆ e la clava; di questi oggetti, che non ricevono alcuna menzione nel testo, possiamo riconoscere la necessità, ma solo ipotizzare la presenza.

Basandoci sulle tragedie che ci sono giunte, tuttavia, possiamo affermare che, in linea generale, proprio grazie all’attenzione che un oggetto riceve nel testo, esso può divenire teatralmente significativo ed essere notato dal pubblico20. Il fatto che gli oggetti di scena necessitino generalmente che il testo si soffermi su di essi ci porta, inoltre, a rilevare la loro natura liminare, al confine tra dimensione visiva e verbale. Quando gli studiosi, nell’indagare la dimensione performativa del teatro greco, parlano di oggetti di scena, si trovano spesso in disaccordo, in quanto non attribuiscono questa definizione ad un identico insieme di elementi. Individuare gli oggetti di scena può, infatti, risultare questione di una certa complessità. Spesso, ad esempio, molto sottile è il confine tra oggetti di scena, maschere e costumi21. Talvolta, infatti, una maschera può divenire un oggetto di scena, come succede per la maschera di Penteo nelle Baccanti euripidee; in altri casi, invece, è un costume che acquisisce una tale prominenza e viene così nettamente individuato da divenire un oggetto di scena, come succede con gli abiti di Serse e di Atossa nei Persiani di Eschilo. Si può anche verificare il caso di un oggetto di scena evocato e chiamato in causa solo a parole attraverso tutta la tragedia che diviene alla fine fisicamente presente sul palco, cosa che accade con la cesta di Ione nell’omonima tragedia euripidea. Infine quello che inizialmente si configurava come oggetto di scena può divenire costume: è il caso del peplo e della tiara avvelenati nella Medea euripidea e del peplo avvelenato delle

Trachinie sofoclee.

20 Va ricordato che il teatro antico non poteva avvalersi al pari del nostro di illuminazione artificiale e

quindi dell’effetto dei riflettori.

21 Gli antichi ad esempio erano soliti riferirsi ad oggetti di scena, maschere, costumi e a tutti gli elementi

materiali che concorrevano alla messa in scena dello spettacolo, con il solo termine σκευή, vale a dire ‘apparato scenico’, che occorre tanto al singolare quanto al plurale. Ad esempio nell’Onomasticon di Polluce (Poll. Onom. 4.115.1-2) si dice in riferimento prima ai costumi e poi alle maschere: καὶ σκευὴ μὲν ἡ τῶν ὑποκριτῶν στολή –ἡ δ’αὐτὴ καὶ σωμάτιον ἐκαλεῖτο– σκευοποιὸς δ’ ὁ προσωποποιός·. Nello stesso libro, pochi paragrafi dopo (Poll. Onom. 4.117.4-118.1) Polluce, menzionando alcuni oggetti di scena, li considera parte della σκευή tragica maschile: […] καὶ νεβρίδες δὲ καὶ διφθέραι καὶ μάχαιραι καὶ σκῆπτρα καὶ δόρατα καὶ τόξα καὶ φαρέτρα καὶ κηρύκεια καὶ ῥόπαλα καὶ λεοντῆ καὶ παντευχία

μέρη τραγικῆς ἀνδρείας σκευῆς. Csapo e Slater (1994: 395) traducono l’espressione evidenziata con

l’inglese ‘the tragic male costume’ ed in effetti siamo in un contesto in cui si parla prevalentemente di costumi di scena. A mio parere, tuttavia, in questo caso, visto il contenuto della lista, si può anche parlare di ‘accessori tragici maschili’, rendendo più evidente come con il termine σκευή venissero identificati anche gli oggetti di scena.

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Necessario è, a questo punto, tracciare i confini dell’argomento di nostro interesse. In questo studio si tratterà di oggetti di scena significativi, cioè di tutti quegli oggetti che, distinti rispetto alle maschere e ai costumi indossati dagli attori, nonché rispetto all’attrezzatura scenica, alle suppellettili e agli accessori che vanno a costituire la scenografia22, nell’insieme degli oggetti di scena fisicamente presenti e visibili durante la rappresentazione, risultano drammaticamente rilevanti. Non verranno, invece, presi in considerazione quegli oggetti che, pur significativi per l’azione drammatica, non essendo direttamente e fisicamente presenti sulla scena, devono essere mentalmente visualizzati da parte degli spettatori23. La scelta di approfondire i soli oggetti drammaticamente rilevanti all’interno dell’insieme più vasto degli oggetti di scena è dovuta al fatto che essi meglio esemplificano come per i tragediografi la dimensione visiva sia strumento per comunicare e trasmettere significato.

Può fornirci un interessante termine di confronto rispetto alla scelta fatta l’approccio semiotico assunto da Tordoff24. Lo studioso sottolinea come di necessità tutti gli oggetti di scena abbiano un significato denotativo, ma afferma che a suo parere ciascuno di essi possiede anche, in maniera più o meno importante, un significato connotativo, in quanto ognuno porta con sé implicazioni di varia natura per gli spettatori. Quanto meno pronunciata è la funzione connotativa tanto più facile risulta che l’oggetto venga assimilato alla scenografia o al costume. Dicendo questo lo studioso mette in luce ed individua i rischi di prendere in considerazione solo quegli oggetti di scena che abbiano significato e funzione fortemente simbolica. Nel dare esempio di queste considerazioni, Tordoff prende in esame l’Alcesti euripidea e, enumerando gli oggetti di scena che si possono individuare nella tragedia, accanto ad arco, frecce e faretra di Apollo, alla spada di Θάνατος, agli ornamenti funebri, egli

22 La definizione di oggetto di scena non potrà che compiersi in prima istanza in termini negativi,

individuando, precisando e man mano rimuovendo tutto ciò che non rientra in questa categoria. Di estrema utilità in fase di definizione risulta la voce props in The Encyclopedia of Greek Tragedy (Luschnig (2014: 1015-1016)), nella quale il termine è spiegato con grande chiarezza e lucidità.

23 Mi riferisco ad esempio agli scudi impugnati dai guerrieri tebani e argivi nei Sette contro Tebe eschilei. Essi non compaiono sulla scena, ma vengono solamente descritti da parte di un messaggero. 24 Tordoff (2013). Molto interessante a questo proposito è anche la tesi dottorale di Dingel (1967) che

si occupa di Requisiten nella tragedia greca. Lo studioso, in un’interpretazione in senso ampio del termine Requisiten, considera argomento della sua indagine, anche maschere e costumi.

Egli, inoltre, quando giunge a parlare di Requisiten in senso stretto prende in considerazione quegli elementi che costituiscono la scenografia, come l’altare, le statue ed immagini degli dei, la tomba, ma anche tutti quegli oggetti di grandi e piccole dimensioni che compaiono sulla scena ad opera di uno o più attori contemporaneamente; si tratta nel primo caso di oggetti di piccole dimensioni come ad esempio recipienti, attrezzi da lavoro o per il gioco e la caccia, nel secondo caso invece di oggetti come carri, bare o lettighe per malati.

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considera anche la lettiga sulla quale Alcesti morente viene portata in scena. Lo studioso agisce nel pieno rispetto della definizione di oggetto di scena da lui data, per cui rientra fra i props tutto ciò che, senza essere in maniera continua indossato dagli attori, subisce spostamento sia sul palco, sia nei movimenti di ingresso ed uscita dalla scena o che, pur se non soggetto a movimento, porta con sé in potenza la possibilità di rispondere a questa definizione25.

Nel nostro studio, invece, pur consapevoli dell’ammonimento di Tordoff, tratteremo, come già detto in precedenza, di quegli oggetti materiali, facenti parte dell’insieme degli oggetti di scena, che rispondono ad una funzione drammaticamente significativa.

Nell’individuare e definire l’argomento va notato come gli oggetti di scena assumano un particolare statuto a metà tra dimensione visiva, performativa e narrativa26. Essi rendono concreti e immediatamente visibili al pubblico aspetti della narrazione e spesso si fanno portavoce di linee narrative alternative; come dice Martin Revermann si configurano come «visualized mini-narratives in their own right, as stage objects with “stories to tell”»27.

Il fatto che l’impiego degli oggetti di scena in tragedia non sia approssimativo e il loro utilizzo non possa essere oggetto di considerazioni superficiali, ci è suggerito dalla parsimonia con cui i tragediografi ricorrono agli oggetti di scena e all’attenzione con cui ne fanno uso, cosa che diviene ancora più chiara e visibile se si fa un confronto con l’atteggiamento a questo proposito della commedia. In commedia dal punto di vista quantitativo si ha un impiego molto più ampio degli oggetti di scena, con la conseguenza che a ciascun oggetto è dedicata da parte degli studiosi un’attenzione molto più limitata. Anche mediante la loro abbondanza, infatti, essi sono funzionali al gioco comico, allo scherzo del momento. Mary Christine English, nella sua tesi di dottorato sugli oggetti di scena nella commedia di Aristofane, nel mettere in evidenza la distanza tra i due generi su questo tema, afferma come gli oggetti di scena della

25 La definizione di ‘oggetto di scena’ proposta da Tordoff, che ritengo ampiamente condivisibile,

presenta, tuttavia, delle problematicità. Alcuni degli elementi da lui identificati come oggetti di scena rientrerebbero a mio parere più appropriatamente nelle categorie di scenografia e attrezzatura di scena. Ritornando, ad esempio, alla lettiga dell’Alcesti euripidea, che lo studioso considera tra gli oggetti di scena propriamente detti, ritengo più opportuno considerarla parte dell’attrezzatura di scena.

26 Sofer (2003: VI), parlando degli oggetti di scena, dice: «stage properties occupy an uneasy position

between text and performance».

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tragedia, benché siano pochi per numero, non vadano sottovalutati poiché «their minimal use arguably intensifies their significance»28.

Tordoff, nel paragonare sotto questo punto di vista tragedia e commedia, quantifica in termini numerici quanto abbiamo appena detto a parole. Basandoci sul suo studio possiamo notare che se l’Elena con i suoi 18 oggetti di scena risulta la tragedia euripidea che ricorre maggiormente a questo strumento espressivo, sono gli Acarnesi con ben 117 oggetti di scena a ricoprire la stessa posizione tra le commedie aristofanee29, dandoci un’immediata dimostrazione della disparità esistente a questo proposito fra i due generi.

È proprio la commedia di quinto secolo, inoltre, a darci testimonianza, mediante lo strumento della parodia, dell’attenzione dei tragediografi per l’uso degli oggetti di scena. Seppur attraverso una lente distorta possiamo in questo modo gettare uno sguardo sul significato degli oggetti di scena non solo a livello di allestimento, ma anche sul piano semantico. Di fondamentale importanza a questo proposito è ad esempio la scena degli Acarnesi nella quale Diceopoli si reca presso la dimora di Euripide per ottenere costumi e accessori tipici delle tragedie euripidee in modo da tornare di fronte al coro, vestito da straccione al pari degli eroi euripidei, a perorare i vantaggi della pace30. Interessante è anche notare tra i testi giuntici frammentari la presenza di una commedia di Platone comico dal titolo Σκευαί che alcuni studiosi ritengono opportuno interpretare proprio nel senso di ‘oggetti di scena’. Il fr. 142 K.-A. della commedia in questione, ad esempio, viene generalmente inteso nel senso di un gioco comico sull’Elettra euripidea che, immiserita, porta lei stessa la brocca per attingere acqua31.

Una volta individuato l’argomento entriamo nel dettaglio della ricerca, andandone a illustrare le linee di svolgimento. Nel panorama degli studi sugli oggetti di scena in

28 English (1999: 3).

29 Non è questa la sede per approfondire il confronto, ma nell’articolo di Tordoff viene anche

brevemente trattata la differenza, qualitativamente parlando, tra oggetti di scena della commedia e della tragedia; la prima ricorre ad esempio, data la sua natura, per lo più ad oggetti di uso quotidiano e li impiega il più delle volte nella loro funzione ordinaria e consueta.

30 Aristoph. Ach. 393-479; in particolare viene portata avanti la parodia del Telefo euripideo. Va notato

che per Euripide essere privato di costumi e accessori equivale ad essere privato delle tragedie stesse (Aristoph. Ach. 464: Ἄνθρωπ’, ἀφαιρήσει με τὴν τραγῳδίαν. E poco dopo Aristoph. Ach. 470: Ἀπολεῖς μ’. Ἰδού σοι. Φροῦδά μοι τὰ δράματα.). Le parole fatte pronunciare ad Euripide possono, dunque, dirci qualcosa sull’importanza dell’elemento visivo (nel caso specifico di costumi ed accessori di scena) per la tragedia euripidea stessa, che è tale e tanto evidente da divenire oggetto di critica parodica da parte dello stesso Aristofane (Zimmermann (2011:433)).

31 PCG Pl. Com. fr. 142: Εὐριπιδής δὲ ἐποίησεν ὑδροφορουσᾶν †ἀυτήν†./ ἐμοὶ δὲ

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tragedia, piuttosto numerosi sono quei contributi che approfondiscono il significato di uno o più oggetti di scena all’interno di una singola tragedia32 come anche quelle trattazioni che si occupano di indagare le caratteristiche e le trasformazioni dell’uso di un oggetto di scena dal punto di vista diacronico33. Meno frequenti, anche se non del tutto assenti34, sono invece studi più sistematici che si occupano di indagare l’intera produzione tragica o un singolo autore dal punto di vista delle stage

properties35.

Questo tipo di studi ha sicuramente il limite di non poter rivolgere ai singoli oggetti di scena un’attenzione prolungata e di non poter cogliere dettagli e sfumature nel loro impiego da parte dei tragici; esso, tuttavia, ha dall’altro lato il pregio di consentire una visione d’insieme sull’utilizzo di questi elementi materiali, che si fanno portatori di significato tanto quanto il linguaggio verbale.

Obiettivo di questa ricerca è, quindi, proprio quello di condurre uno studio tipologico sugli oggetti di scena, prendendo in analisi le tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, i tre tragediografi canonici, giunteci complete o nella quasi totale interezza. Risultano pertanto esclusi i frammenti che, data la natura dell’indagine, potevano solo in piccolo numero prestarsi a questo tipo di approfondimento36. Gli oggetti di scena ritenuti drammaticamente significativi verranno suddivisi in cinque categorie che definiamo ‘funzionali’, in quanto corrispondenti ad altrettante funzioni che essi possono assumere nel contesto della tragedia, e saranno analizzati anche alla luce dell’appartenenza a tali categorie37. Ai fini della ricerca è importante specificare che parlando di categorie ‘funzionali’ e di funzione si va ad intendere non la destinazione immediata o superficiale di un oggetto, ma piuttosto il suo ruolo ultimo. Le cinque categorie ‘funzionali’ individuate sono, dunque, la categoria degli oggetti

32 Mi riferisco ad esempio all’articolo di David Raeburn (2000) sul significato degli oggetti di scena

nell’Elettra di Euripide oppure allo studio di Judith Fletcher (2013) sugli oggetti di scena in Aiace e

Filottete, con particolare e quasi esclusiva attenzione alla spada nel primo e all’arco nel secondo. 33 Ad esempio l’articolo di Anne-Sophie Noel (2013) tratta del tessuto-trappola nella vicenda

dell’uccisione di Agamennone, dell’origine del motivo e della sua trasformazione nella tragedia successiva ad Eschilo.

34 Dingel (1967).

35 Al contrario, a partire dalla seconda metà del ‘900, sono stati elaborati molti studi riguardanti il

repertorio di immagini al quale i tragediografi, presi singolarmente o nel complesso, attingono nelle loro opere (David H. Porter (1986)).

36 Una ricerca come quella che ci apprestiamo a condurre necessita di una porzione di testo tale da

consentire di comprendere la funzione dell’oggetto nel complesso della tragedia, cosa che risulta di difficile, talvolta impossibile, realizzazione quando si è in possesso dei soli frammenti, in particolare se di piccole dimensioni.

37 Alcuni oggetti possono essere iscritti in più di una categoria, ma si è scelto di inserirli in quella che

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dell’autorità e del controllo, quella degli oggetti del rito, quella degli oggetti del riconoscimento e inoltre le categorie degli oggetti dell’intrigo e della comunicazione. Con l’individuazione di queste categorie si vuole sottolineare e

mettere in evidenza l’importanza che gli oggetti di scena assumono nell’economia della tragedia e il loro contributo fondamentale alla comprensione del significato dell’opera, motivo per cui si può parlare di un vero e proprio linguaggio degli oggetti di scena che si affianca al linguaggio verbale nel trasmettere significato. Come dice Taplin38, infatti, uno studio sugli aspetti della messa in scena risponderebbe a poco più che un interesse antiquario se non avesse come scopo ultimo quello di approfondire la comprensione delle opere tragiche e di arricchirne le possibilità interpretative.

Alla definizione di ciascuna categoria segue l’analisi dei singoli oggetti di scena significativi facenti parte della categoria in questione, suddivisi in base alla tragedia di appartenenza. Le tragedie sono divise per autore e sono poste in successione cronologica. All’analisi tipologica seguono una tabella riassuntiva nella quale si elencano tutti gli oggetti individuati, suddivisi nelle rispettive tragedie, specificandone la categoria di appartenenza, e un glossario dei termini greci indicanti gli oggetti di scena analizzati.

38 Taplin (1977: 4).

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Note di lavoro

Nel presente lavoro di ricerca ho preso in esame esclusivamente quegli oggetti di scena che ho ritenuto drammaticamente significativi; mi sono, pertanto, trovata ad operare una selezione e a compiere delle scelte che sono il risultato di un’interpretazione, che, in quanto tale, risulta in ultima istanza soggettiva.

Per ciascun oggetto di scena preso in esame ho in primo luogo elencato, in ordine di comparsa nel testo, tutti i termini utilizzati nel corso della tragedia da coro e personaggi per denominare l’oggetto, anche se non omogenei tra di loro. Ho scelto, infatti, di riportare tanto i vocaboli che definiscono propriamente l’oggetto, quanto i termini generici, ritenendo che anche questi ultimi diano informazioni importanti sulla funzione dell’oggetto nella tragedia. Nell’analizzare all’interno della categoria degli oggetti dell’intrigo la veste avvelenata delle Trachinie sofoclee, ad esempio, ho deciso di annoverare tra i vocaboli tanto il termine πέπλος, che costituisce una definizione propria dell’oggetto, quanto il termine δῶρον che, pur essendo generico, ci dà informazioni fondamentali sull’oggetto e sul suo significato drammatico.

A seguire ho riunito per ciascun oggetto i luoghi del testo nei quali esso viene menzionato, notando la sua presenza o meno sulla scena e individuando i movimenti scenici che l’oggetto stesso subisce ad opera dei vari attori, con particolare attenzione ad eventuali passaggi dell’oggetto da un personaggio all’altro e agli spostamenti tra dentro e fuori scena.

Infine, ho proposto per ciascun oggetto una riflessione sul suo significato drammatico e alcune possibili interpretazioni, individuando di volta in volta le questioni principali e di maggior problematicità.

Per i passi eschilei citati mi sono attenuta all’edizione oxoniense di Page: Page, D.L. (1972) Aeschyli Septem Quae Supersunt Tragoedias (Oxford: Clarendon Press). Per Sofocle ho seguito nel citare i passi l’edizione oxoniense di Lloyd-Jones e Wilson: Lloyd-Jones, H., Wilson, N.G. (1990) Sophoclis fabulae (Oxford: Clarendon Press). Per le citazioni dei passi delle tragedie euripidee mi sono basata sull’edizione oxoniense di Diggle: Diggle, J. (1984) Euripidis fabulae, voll. 1-3 (Oxford: Clarendon Press).

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Capitolo I: Gli oggetti dell’autorità e del controllo

Appartengono a questa categoria tutti quegli oggetti che nel contesto della narrazione tragica consentono al personaggio che ha di volta in volta il ruolo di agente di esercitare su un singolo individuo o su un gruppo di individui la propria autorità, la propria influenza e il proprio controllo. Rientrano in questa categoria anche quegli oggetti che, pur non impiegati in maniera attiva sulla scena, rappresentano simboli di autorità. Perché l’oggetto possa svolgere tale funzione nella tragedia è necessaria la presenza di un soggetto agente; se generalmente ad assumere questo ruolo è uno dei personaggi della vicenda, nel corso della trattazione incontreremo anche casi in cui l’azione sembra essere esercitata ed emanare dall’oggetto stesso.

Fanno parte della categoria degli oggetti dell’autorità e del controllo tanto gli oggetti attraverso i quali si esercita un potere o si svolgono funzioni pubbliche, come ad esempio lo scettro di Peleo nell’Andromaca euripidea, simbolo dell’autorità regale, o le urne per il voto in tribunale nelle Eumenidi eschilee, simbolo dell’autorità giudiziaria, quanto gli oggetti attraverso i quali la volontà di un individuo esercita il proprio controllo sulla volontà di un altro individuo. Esempi ne sono l’arma con cui nell’Agamennone eschileo Clitemnestra si impone sullo sposo uccidendolo e anche le catene nelle quali, per volere di Zeus, Prometeo viene imprigionato nel Prometeo

incatenato eschileo39.

Data la decisione di indagare ed approfondire esclusivamente gli oggetti che risultano significativi dal punto di vista drammatico, sono stati tralasciati quegli oggetti che, pur potendo potenzialmente essere classificati in questa categoria, non vengono messi in evidenza né considerati rilevanti dai vari personaggi. Ad esempio nella Medea euripidea la spada con cui la donna uccide i figli non riceve grande attenzione nel testo ed è niente più che un oggetto immediatamente funzionale all’azione stessa dell’uccisione40.

39 In questo lavoro si annovererà il Prometeo Incatenato tra le tragedie di Eschilo senza discutere la

questione.

40 Mentre più volte Medea parla di uccidere i propri figli la spada viene menzionata per la prima volta

al verso 1244 e non sappiamo nemmeno se fosse effettivamente visibile; l’arma viene citata di nuovo al verso 1278 al momento dell’uccisione dei bambini ed era sicuramente non visibile. Al verso 1317 Medea, dopo aver ucciso i figli, compare nuovamente in scena, sospesa su un carro alato, forse recando la spada in mano, ma nel testo non c’è alcun riferimento in proposito.

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I.1 Eschilo a) Persiani

Πέπλος41. Ἔσθημα. Στολή. Come si è già detto nell’introduzione42, ci sono alcuni costumi che assumono una tale centralità e vengono individuati così nettamente da assumere le caratteristiche di veri e propri oggetti di scena. Così accade alle vesti di Serse nei Persiani, vesti che vengono insistentemente evocate, comparendo, tuttavia, sulla scena solamente nell’esodo del dramma. È Atossa la prima a menzionare le vesti di Serse al verso 199 raccontando ai vecchi funzionari del coro la visione notturna che le procura tormento in quanto sembra presagire tristi eventi; la regina ha, infatti, visto in sogno Serse, domatore sconfitto, stracciarsi le vesti che ha indosso:πίπτει δ’ ἐμὸς παῖς, καὶ πατὴρ παρίσταται/ Δαρεῖος οἰκτίρων σφε· τὸν δ’ ὅπως ὁρᾷ/ Ξέρξης, πέπλους ῥήγνυσιν ἀμφὶ σώματι (versi 197-199). Si torna a rivolgere l’attenzione agli abiti del re persiano in seguito, nel resoconto da parte del messaggero della sconfitta subita dai Persiani: Ξέρξης δ’ ἀνῴμωξεν κακῶν ὁρῶν βάθος· […] ῥήξας δὲ πέπλους κἀνακωκύσας λιγύ,/ πεζῷ παραγγείλας ἄφαρ στρατεύματι,/ ἵησ’ ἀκόσμῳ ξὺν φυγῇ […] (versi 465-470). Serse, avendo avuto modo di vedere dalla propria posizione sopraelevata la disfatta dell’esercito, dopo essersi strappato le vesti ed aver levato un grido di dolore, si dà alla fuga insieme agli altri Persiani. Le vesti vengono menzionate di nuovo ai versi 835-836: l’ombra di Dario incoraggia Atossa ad andare incontro a Serse portando con sé un manto adorno, in quanto egli giungerà con le vesti ridotte a brandelli. In questa occorrenza si parla di λακίδες [...] ποικίλων ἐσθημάτων. Poco dopo ai versi 847-848 Atossa parla di ἀτιμίαν [...] ἐσθημάτων, preannunciando ancora una volta le misere condizioni in cui Serse farà ingresso in scena.

Dopo le numerose menzioni fatte nel corso della tragedia degli abiti del re, solo al verso 908, quando Atossa è ancora fuori scena, Serse compare di fronte al pubblico, mostrandosi agli spettatori nel proprio aspetto miserevole; non è infatti giunto a buon fine il suggerimento dato da Dario ad Atossa di procurare immediatamente al figlio nuove e dignitose vesti43. Proprio Serse al verso 1017 con le parole ὁρᾷς τὸ λοιπὸν

41 Il termine è utilizzato generalmente in Omero per indicare vesti femminili e solo più raramente va

ad identificare abiti maschili, in particolare in riferimento ad un contesto orientale come nel caso dei

Persiani. Significativo a questo proposito è che il termine venga impiegato con riferimento alle vesti

maschili anche nella Ciropedia di Senofonte (Xen. Cyr. 3.1.13: ἔνθα δὴ ὁ μὲν παῖς αὐτοῦ ὡς ἤκουσε ταῦτα, περιεσπάσατο τὴν τιάραν καὶ τοὺς πέπλους κατερρήξατο).

42 pp. 6-7

43 Hermann (1852: 250) ad esempio ritiene che non si confaccia ad Eschilo acconsentire ad un ingresso

in scena di Serse con le vesti stracciate. Lo studioso pensa che il protagonista abbia indossato nuove vesti e colloca il cambio d’abito extra scenam. A suo parere, inoltre, una delle guardie del corpo del re

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τόδε τᾶς ἐμᾶς στολᾶς; rivolge la propria attenzione ai brandelli di veste che sta indossando e richiama contemporaneamente su di essi lo sguardo del coro e del pubblico44, ribadendo a distanza di pochi versi (verso 1030) a sua volta ciò che già Atossa e Dario avevano affermato, cioè che lui stesso si è stracciato le vesti in risposta alla natura disastrosa degli eventi che lo vedono protagonista45. Al verso 1060 Serse invita anche i coreuti a stracciarsi le vesti per il dolore della sconfitta, all’interno di un rituale del lamento che prevede una serie di azioni standardizzate. Oltre all’atto di stracciarsi gli abiti il re suggerisce ai coreuti di battersi il petto, piangere, emettere grida e gemiti, secondo una pratica che è generalmente femminile46.

Οἰστοδέγμων, θησαυρὸς βελέεσσιν. Nel primo dialogo tra la regina e il coro si individua l’arco come arma peculiare dell’esercito persiano, tanto da poterne essere elemento distintivo e di identificazione. Così ai versi 239ss., di fronte alla domanda di Atossa se i Greci ricorrano o meno alla τοξουλκὸς αἰχμή, il coro risponde negando

entra insieme a Serse recando in mano la veste stracciata indossata dal re stesso durante la battaglia. Taplin (1977: 122) va a confutare le parole di Hermann e condivide l’opinione dei più, immaginando Serse entrare in scena da solo e coperto di vesti stracciate.

44 Sia gli scholia di M, sia gli scholia Byzantina (A) propongono diverse interpretazioni di questo verso,

nessuna delle quali coincide con la linea interpretativa adottata oggi dai più. Da un lato infatti gli scolii al verso suggeriscono la possibilità che con τὸ λοιπὸν τόδε τᾶς ἐμᾶς στολᾶς si vada ad identificare quanto è rimasto degli uomini della spedizione, dall’altro lato invece che fin da questo verso ci si riferisca alla faretra, cioè a quanto è rimasto dell’armatura con cui Serse era partito. Segue la prima interpretazione Sidgwick (1903: 58) sulla base dell’uso del termine στολή nelle Supplici di Eschilo; al verso 764 delle Supplici si dice, infatti, οὔτοι ταχεῖα ναυτικοῦ στρατοῦ στολή, ma il testo è ambiguo e discusso. Se si riconoscesse a στολή il significato generalmente attribuito a στόλος, si implicherebbe un ingresso in scena di Serse con un seguito di soldati e conseguenza sarebbe che, nell’intendere il verso citato come riferimento a quanto resta dell’esercito, i pochi uomini sulla scena corrisponderebbero letteralmente ai sopravvissuti. Come fa notare Taplin (1977: 122), tuttavia, al verso 1036 Serse dichiara di essere solo e privo di qualunque seguito e accompagnatore (Aesch. Pers. 1036: γυμνός εἰμι προπομπῶν). Inoltre al verso 192, unica altra occorrenza nelle tragedia del termine, ci si riferisce con στολή a finimenti e bardature, vale a dire a qualcosa che si indossa. Quanto alla possibilità che ci si riferisca alla faretra, cioè a quanto rimane dell’armatura, Garvie (2009: 361) ipotizza che in questo caso quello di ‘equipaggiamento’ possa essere un significato secondario in questo contesto, finalizzato ad introdurre e preparare il riferimento esplicito alla faretra nei versi immediatamente successivi.

45 Interessante, come fa notare Broadhead (1960: 239), è che nel verso corrispondente al 1017

nell’antistrofe (1030) Serse si riferisca all’azione di stracciarsi le vesti: πέπλον δ’ ἐπέρρηξ’ ἐπὶ συμφορᾶι κακοῦ.

46 Hall (1996: 13, 143) fa più volte notare che i Persiani sono rappresentati come effeminati; questa

loro caratteristica è contrapposta alla virilità, alla disciplina e all’autocontrollo dimostrati dai Greci, conseguenza del loro sistema politico democratico.

Il prevalere dell’elemento femminile viene espresso sia attraverso l’insistenza sull’assenza di uomini nel continente asiatico (vv. 117-119, 289, 579-580, 730), sia attraverso la consapevolezza che la corte è priva di una guida adulta e sicura (Serse è troppo giovane, i funzionari sono troppo anziani ed il personaggio più rappresentativo del potere rimane Atossa, una donna), sia attraverso la messa in scena di uomini che compiono azioni tradizionalmente riservate alle donne; mi riferisco in particolare all’atto di Serse di stracciarsi le vesti al verso 468 e anche alla sequenza di gesti rituali che nel θρῆνος finale il re invita il coro ad eseguire.

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le parole della regina e identificando, in contrapposizione all’esercito persiano, i Greci come guerrieri portatori di lancia e scudo47. Allo stesso modo, al verso 269 ci si riferisce all’esercito persiano con una sineddoche, τὰ πολλὰ βέλεα παμμιγῆ, ‘i numerosi e vari dardi’. Non meno importante è che al verso 556 Dario venga definito τόξαρχος. Inoltre ai versi 925-927 i guerrieri persiani di cui viene compianta la perdita vengono definiti φῶτες [...] τοξοδάμαντες. Fatta questa premessa, risulta particolarmente forte e di grande impatto il momento in cui Serse compare sulla scena non solo con la veste stracciata e ridotta a brandelli, ma anche senza arco e con la faretra vuota, come il re stesso fa notare al coro e al pubblico ai versi 1020-1023: {Ξε.} τόνδε τ’ ὀιστοδέγμονα/ {Χο.} τί τόδε λέγεις σεσωμένον;/ {Ξε.} θησαυρὸν βελέεσσιν./ {Χο.} βαιά γ’ ὡς ἀπὸ πολλῶν.

Ad entrambi gli oggetti di scena, vesti stracciate e faretra vuota, si fa spesso allusione in maniera più o meno diretta e chiara nel corso della narrazione prima che essi vengano resi materialmente visibili sulla scena; la loro comparsa viene ritardata e posticipata quanto più a lungo possibile, creando così un gioco di aspettative e attese nel pubblico, preparando e anticipando il realizzarsi e il manifestarsi della sconfitta. Come dice Taplin48, l’ingresso in scena di Serse è tanto efficace nel suo impatto visivo perché, grazie a questa lunga ed accurata preparazione, trova posto nel più ampio contesto drammatico.

L’anafora del verbo ὁράω ai versi 1017-1018 sottolinea l’importanza dell’elemento visivo e dei due oggetti di scena, la veste stracciata in primo luogo e in secondo luogo la faretra vuota49. Se la veste allude sulla scena alla monarchia e all’autorità imperiale, la faretra è chiaramente rappresentazione materiale del potere militare dell’esercito persiano. Come ci suggerisce William Thalmann50, il fatto che i due oggetti siano introdotti in parallelo contribuisce a rafforzare l’idea che il significato dell’uno debba essere connesso a quello dell’altro. Entrambi gli oggetti sono, dunque, simbolo di un’autorità, politica nel caso della veste e militare nel caso della faretra, sconfitta e umiliata; essi sono il segno tangibile della disfatta dell’esercito e della distruzione nella quale è incorsa la moltitudine dei Persiani.

47 A questo proposito si veda anche Aesch. Ag. 109-112: ὅπως Ἀχαιῶν δίθρονον κράτος, Ἑλλάδος

ἥβας/ ξύμφρονα ταγάν,/ πέμπει σὺν δορὶ καὶ χερὶ πράκτορι/ θούριος ὄρνις Τευκρίδ’ ἐπ’ αἶαν.

48 Taplin (1977: 124ss.)

49 Aesch. Pers. 1017-1019: {Ξε.} ὁρᾷς τὸ λοιπὸν τόδε τᾶς ἐμᾶς στολᾶς;/ {Χο.} ὁρῶ ὁρῶ. 50 Thalmann (1980)

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Inoltre, il fatto che Atossa non giunga in tempo per procurare a Serse vesti nuove, evitandogli così uno sconvolgente ed umiliante ingresso in scena vestito di un abito lacero, può voler significare la profondità della crisi del potere imperiale, forse anche l’impossibilità di risolverla, e, allo stesso tempo, il desiderio frustrato di un rinnovarsi della potenza persiana.

b) Orestea

b.1) Agamennone

Ἄμφηκες δόρυ. Φάσγανον. Ξίφος. Ἀμφίτομον βέλεμνον. Lo strumento attraverso il quale viene compiuta l’uccisione di Agamennone è menzionato per la prima volta da parte di Cassandra, ormai in preda allo sconvolgimento apollineo, al verso 1149. La fanciulla afferma che ad attenderla è uno σχισμὸς ἀμφήκει δορί. L’espressione utilizzata da Cassandra ha destato vari interrogativi tra gli studiosi. Il termine δόρυ infatti non va inteso nel significato proprio di ‘lancia’, ma in quello più generale di ‘arma’. Fraenkel51 sostiene che a rendere possibile l’estensione del ventaglio semantico del termine sia l’analogia con il sostantivo ἔγχος che copre questa gamma di significati. Nell’interpretazione dello studioso, Eschilo volutamente lascia ambigua l’identificazione dell’arma e vuole che la si intenda semplicemente come arma offensiva. Il tragediografo desidera, infatti, che l’attenzione degli spettatori sia rivolta non tanto allo strumento con cui effettivamente viene inflitta la morte ad Agamennone, ma al tessuto/rete che intrappola il re precludendogli la fuga, che rappresenta in maniera molto appropriata l’inganno perpetrato da parte di Clitemnestra ai danni dello sposo52.

Al verso 1262, nell’indirizzare con maggior chiarezza il coro verso l’identificazione di colei che sarà artefice dello spargimento di sangue, è di nuovo Cassandra a far riferimento all’arma mortifera: ἐπεύχεται, θήγουσα φωτὶ φάσγανον,/ ἐμῆς ἀγωγῆς ἀντιτείσεσθαι φόνον (versi 1262-1263). Nel seguito del testo, quando ormai l’omicidio si sta perpetrando, il coro stesso, preso dall’indecisione sul da farsi, menziona la spada53, nell’imminenza della comparsa in scena vera e propria

51 Fraenkel (1950: 527).

52 A questo proposito, ai versi 980-1004 delle Coefore, Oreste sembra identificare il tessuto/rete come

vera e propria arma del delitto, tanto che al verso 1015 della stessa tragedia l’ὕφασμα viene definito πατροκτόνον.

53 Aesch. Ag. 1350-1351: ἐμοὶ δ’ ὅπως τάχιστά γ’ ἐμπεσεῖν δοκεῖ/ καὶ πρᾶγμ’ ἐλέγχειν σὺν νεορρύτωι

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dell’oggetto che si ha al verso 1372, quando parte dello spazio interno della casa diviene visibile agli spettatori e con esso, oltre alla regina, anche i cadaveri di Agamennone e Cassandra. Di particolare interesse, alla luce di quanto affermato da Fraenkel, è che la spada non venga mai, nel racconto di Clitemnestra (versi 1372-1398), individuata ed isolata nella sua natura di oggetto fisico ben distinto, mentre si insiste sull’azione stessa dell’infierire colpi mortali: παίω δέ νιν δίς, κἀν δυοῖν οἰμώγμασιν/ μεθῆκεν αὐτοῦ κῶλα, καὶ πεπτωκότι/ τρίτην ἐπενδίδωμι […] (versi 1384-1386). Il mancato riferimento all’arma del delitto da parte della regina, una volta che l’interno della casa sia divenuto visibile, ha portato alcuni studiosi a sospettare che non si debba ritenere la spada presente sulla scena. Condividendo questo punto di vista, Taplin54, nel descrivere lo scenario resosi visibile al verso 1372, non fa alcuna menzione dell’arma. Inoltre, lo studioso, nel discutere la corrispondente scena delle

Coefore, dove a venir rivelati sono i cadaveri di Clitemnestra ed Egisto e il loro

assassino Oreste, afferma che, contrariamente a quanto accade nel secondo dramma della trilogia55, nell’Agamennone non c’è nulla che faccia pensare che la spada fosse presente sulla scena. Mentre Davies56 si pone in linea con quanto affermato da Taplin, di diversa opinione è Garvie57, che immagina Clitemnestra comparire sulla scena con l’arma in mano. Se questo fosse vero sarebbe particolarmente efficace scenicamente il riferimento alla mano destra, artefice di giustizia, che la regina fa ai versi 1405-1406: πόσις, νεκρὸς δὲ τῆσδε δεξιᾶς χερός,/ ἔργον δικαίας τέκτονος. τάδ’ ὧδ’ ἔχει. Difficile giungere ad una soluzione su tale questione; si vuole, però, sottolineare che l’opinione di Taplin è legata al fatto che lo studioso prende in considerazione nella sua indagine solo quanto trova effettivamente evidenza e riscontro nel testo, considerando tutto ciò che non viene notato irrilevante alla costruzione della scena e di conseguenza assente dalla scena stessa. Nel nostro caso, tuttavia, la spada potrebbe essere stata volutamente tralasciata nelle parole di Clitemnestra in modo tale da indirizzare totalmente l’attenzione degli spettatori verso il tessuto/rete, senza che

54 Taplin (1977: 325, 359).

55 Ai versi 41-45 delle Eumenidi infatti la Pizia, descrivendo ciò che ha visto nel tempio, menziona

anche Oreste che ha le mani insanguinate e porta con sè la spada ed un ramo da supplice.

56 Davies (1987: 75 n.71).

57 Garvie (1986: LII, 289, 340) pensa ad un’analoga messa in scena per Agamennone e Coefore quanto

al momento in cui l’assassino/a diviene visibile, insieme ai cadaveri di coloro che ha ucciso; è probabile che sia anche questo a fargli pensare che Clitemnestra, come Oreste, compaia sulla scena impugnando la spada.

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questo vada a mettere in dubbio automaticamente la presenza sulla scena dell’arma stessa.

Nel corso del successivo dialogo tra coro e regina, il coro menzionerà nuovamente l’arma al verso 1496 e di lì a poco nuovamente al verso 1520, in un ripetersi di versi identici, come fosse il ritornello di un lamento funebre: ὤμοι μοι, κοίταν τάνδ’ ἀνελεύθερον/ δολίῳ μόρῳ δαμεὶς <δάμαρτος> / ἐκ χερὸς ἀμφιτόμῳ βελέμνῳ (versi 1494-1496 = 1518-1520). Il coro, infatti, rivolgendosi ad Agamennone, dice che il re giace intrappolato in una tela di ragno δολίῳ μόρῳ δαμεὶς <δάμαρτος> ἐκ χερὸς ἀμφιτόμῳ βελέμνῳ. Anche in questo caso, come era accaduto con il termine utilizzato nel fare per la prima volta riferimento alla spada, si ricorre a un vocabolo, βέλεμνον, che viene generalmente utilizzato per indicare un’arma da lancio. È vero anche per βέλεμνον, come per δόρυ, che l’estensione di significato, per cui con il termine si identifica una generica arma d’attacco, è resa possibile dall’esistenza di questo stesso fenomeno per il termine βέλος, di cui βέλεμνον è forma poetica58. L’unica occasione, invece, in cui Clitemnestra accenna all’arma utilizzata per compiere l’omicidio è ai versi 1528-1529, dove con un epiteto ella va a identificare la morte come ξιφοδήλητος, inferta tramite spada: ἀλλ’ ἐμὸν ἐκ τοῦδ’ ἔρνος ἀερθὲν/ τὴν πολυκλαύτην/ Ἰφιγένειαν ἀνάξια δράσας/ ἄξια πάσχων μηδὲν ἐν Ἅιδου/ μεγαλαυχείτω, ξιφοδηλήτωι/ θανάτωι τείσας ἅπερ ἦρξεν (versi 1525-1529)59.

58 Esempio dell’uso del termine βέλος a indicare una qualsiasi arma si ha in data anteriore

all’Agamennone di Eschilo nelle Supplici eschilee al verso 556. Il vocabolo indica il pungiglione di cui l’assillo si serve come arma contro Io: ἱκνεῖται δ’ †εἰσιχνουμένου† βέλει/ βουκόλου πτερόεντος/ Δῖον πάμβοτον ἄλσος, (versi 556-558). In tragedie successive all’Agamennone eschileo il termine è spesso utilizzato a indicare una qualunque arma. Nell’Aiace sofocleo al verso 658 la spada viene annoverata tra i βέλη: κρύψω τόδ’ ἔγχος τοὐμόν, ἔχθιστον βελῶν. Nell’Elettra euripidea, sebbene il testo sia problematico, il termine βέλος va a identificare un’ascia: Κυκλώπειά τ’ οὐράνια τείχε’ ὀ-/ ξυθήκτωι †βέλους ἔκανεν† αὐτόχειρ,/ πέλεκυν ἐν χεροῖν λαβοῦσ’ (versi 1158-1160).

59 L’individuazione del tipo di arma che Clitemnestra ha utilizzato per uccidere Agamennone è stata

questione molto dibattuta. Gli studiosi si sono attestati su diverse posizioni. Alcuni (Wilamowitz (1914: 173 n.1), Davies (1987)) ritengono che l’arma sia un’ascia, in linea con quanto si afferma nell’Elettra di Sofocle (Soph. El. 99) e nell’Ecuba, nelle Troiane, e nell’Elettra euripidee (Eur. Hec. 1279, Tro. 361ss., El. 279); secondo questi studiosi l’ascia rappresenta l’arma tradizionalmente legata all’uccisione di Agamennone. A sostegno di questa ipotesi Davies, ad esempio, menziona la testimonianza iconografica del cratere attico attribuito al pittore della Dokimasia risalente al 470-465 a.C. (Boston, Museum of Fine Arts 63.1246) e i versi dell’Orestea di Stesicoro (Fr. 219 PMG). Il vaso in realtà non costituisce testimonianza valida in quanto non mostra Clitemnestra, ma Egisto nell’atto di uccidere Agamennone con la spada e la regina che sopraggiunge alle spalle del primo impugnando l’ascia. Altri studiosi, fra i quali Campbell (1880: 438-439), in linea con quanto si dice al verso 1011 delle Coefore eschilee, ritengono, invece, che sia stata impiegata una spada. Di spada già si parlava, inoltre, nella tradizione pre-eschilea, come dimostra la testimonianza della Νεκυία (Hom. Od. 11.424). C’è poi un ultimo gruppo di studiosi (Robert (1926: 1298 n.1)) che ritiene non sia determinante stabilire di quale arma si tratti. Apporto significativo alla questione è stato quello di Fraenkel che, nell’Appendix

B del suo commento all’Agammennone, ha preso in considerazioni le varie soluzioni propendendo per

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L’arma con cui viene ucciso Agamennone rappresenta nel contesto della tragedia uno dei simboli del definitivo affermarsi del potere di Clitemnestra e della sua capacità di controllo sullo sposo. Se è vero che l’impiego della spada di Egisto per perpetrare l’uccisione, come ci viene detto al verso 1011 delle Coefore60, può significare il coinvolgimento dell’amante nel pianificare e premeditare l’assassinio, è anche vero che è proprio la regina, donna dall’ἀνδρόβουλον κέαρ, a portare a compimento l’azione.

Fin dall’inizio della tragedia abbiamo modo di confrontarci con la complessità del personaggio di Clitemnestra. Da un lato, infatti, la regina viene descritta come rappresentante di un mondo interamente femminile, come potenza ctonia legata ai processi naturali di creazione e distruzione. In questo senso possiamo interpretare sia la sua natura di madre, duramente colpita nella propria fertilità dall’uccisione di Ifigenia, sia la profonda conoscenza che la donna sembra avere degli elementi e dei processi naturali; ora è il bagliore del fuoco, di cui nel primo episodio della tragedia ella segue con la mente il movimento dal monte Ida fino alla casa degli Atridi (vv. 281-311), ora l’acqua del mare, colta nell’atto di dar nutrimento al succo della porpora (vv. 958-960), ora la terra su cui crescono la vite e il suo frutto (vv. 970-972) e che, seminata, accoglie la pioggia (vv. 1391-1392). Più volte Clitemnestra ricorre, inoltre, a metafore, similitudini e analogie che appartengono al mondo naturale: così ai versi 887-888 si parla di κλαυμάτων ἐπίσσυτοι/ πηγαὶ prosciugatesi ed esauritesi, ad indicare l’incapacità della regina di abbandonarsi al pianto. Successivamente ai versi 966-969 ella definisce Agamennone dapprima con un’analogia, poi con una similitudine ancora una volta pertinenti al mondo naturale61. Dall’altro lato, invece,

l’attenzione sul tessuto/rete invece che sull’arma del delitto. Lo studioso sottolinea come l’impiego della spada venga esplicitato nel testo dell’Orestea in almeno tre punti in maniera, a suo parere, priva di ambiguità. In primo luogo viene ricordato il verso 1011 delle Coefore: l’uso da parte della regina della spada di Egisto per commettere l’omicidio sottolinea il coinvolgimento dell’amante nella progettazione dell’omicidio. In secondo luogo va ricordato l’unico punto in cui Clitemnestra parla dell’arma attraverso la quale ella ha inferto la morte allo sposo (vv. 1527-1530); in questi versi viene menzionata anche la corrispondenza della colpa di Agamennone con la pena a lui inflitta: come Ifigenia è stata uccisa con la spada, così con la spada è stata data morte ad Agamennone stesso. Terzo punto è costituito dalle parole di Cassandra che ha una visione chiara della morte propria e di Agamennone e indica proprio la spada come arma (v. 1262). L’opinione di Fraenkel è generalmente condivisa dagli studiosi, fra i sostenitori abbiamo Garvie (1986: 289-290) e Prag (1985: 82).

60 Così Oreste dice ai versi 1010-1011 delle Coefore: […] μαρτυρεῖ δέ μοι/ φᾶρος τόδ’, ὡς ἔβαψεν

Αἰγίσθου ξίφος. Fraenkel (1950: 807).

61 Aesch. Ag. 966-969: ῥίζης γὰρ οὔσης φυλλὰς ἵκετ’ ἐς δόμους,/ σκιὰν ὑπερτείνασα σειρίου κυνός./

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