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IRENE DOPO IL CINQUECENTO: ASPETTI DELLA FORTUNA ARTISTICA E LETTERARIA

3.1 «V ERGINE BELLISSIMA , LETTERATA , MUSICA ET INCAMINATA NEL DISEGNO »

3.6. U N ESEMPIO DI “ DEMITIZZAZIONE ”

Dopo la totale idealizzazione del ricordo di Irene, trasformata in figura malinconica, allegoria della fanciullezza ingiustamente perduta, l’intervento più interessante è quello di Giuseppe Marcotti, che stupito di fronte alle tante “chiacchere”, vuole indagare l’origine della grande fama di questa donna. La ricerca e la ricostruzione che ne deriva cerca di ricondurre alla realtà dei fatti il mito storiografico e letterario nato intorno alla figura di Irene. Nello specifico, la giovane di Spilimbergo è in realtà fornita come esempio della attitudine cinquecentesca all’esagerazione e alla creazione dell’ideale femminile. Così descritto, il lavoro di Marcotti non avrebbe niente di diverso dall’indagine svolta anche nei capitoli precedenti, certamente con tutte le differenze del caso. Tuttavia, l’analisi compiuta dall’autore ottocentesco, nella volontà di non farsi in- fluenzare dal mito, di cui vuole evidenziare fin da subito la natura fittizia, ne resta in realtà parzialmente vittima, poiché il tono a tratti ironico e l’implicito giudizio negativo dello scrittore si percepiscono lungo tutta la lettura, aggiungendo quindi, in realtà, un’ulteriore ripresa e rielaborazione dell’immagine di Irene e della sua fama.

Giuseppe Marcotti inserisce l’esempio di Irene all’interno della sua opera Donne e

monache, pubblicata per la prima volta nel 1884352, il cui scopo è ricostruire i costumi                                                                                                                

351 L’elevazione dell’esempio di Irene a mito poteva ovviamente suscitare anche la curiosità di verificare

la realtà dei fatti. Con “demitizzazione” si intende il procedimento opposto a quello operato fin ora: la giovane letterata e pittrice del Cinquecento aveva prodotto una tale risonanza intorno a sé (sempre consi- derando come primo raggio d’azione quello friulano e veneziano) che era divenuto molto facile lasciarsi affascinare dalla sua storia e dal suo ricordo, in misura direttamente proporzionale alla lontananza tempo- rale; quello che si vuol mettere in luce nelle pagine seguenti è invece l’esempio, comunque ottocentesco, di un tentativo di destrutturazione del mito, ossia di abolizione di tutto l’apparato costruito dall’immaginazione letteraria attorno al suo nome.

352 L’edizione di riferimento è G. MARCOTTI, Donne e monache. Curiosità, Firenze, Barbèra, 1884. Esiste

una ristampa del 1975, con il titolo Donne e monache. Quindici secoli di vita friulana tra cronaca e sto-

ria (Udine, Tarantola Tavoschi). Su Giuseppe Marcotti (Campolongo al Torre 1850 - Udine 1922) cfr.

soprattutto LAURA CERASI, in DBI, vol. 70, 2008; inoltre un profilo viene offerto anche da B. CROCE, La

letteratura della nuova Italia, Roma-Bari, Laterza, 1974, vol. VI, pp. 32-38. Croce inserisce lo scrittore

friulano nel capitolo XXXVI: Storie aneddotiche e nuovi romanzi storici, in cui fa riferimento al fenome- no nel secondo Ottocento del moltiplicarsi di «ricercatori di aneddoti, di curiosità, di avventure, di intri- ghi, di amori e amoretti» (come esempio riporta peraltro anche l’opera di Pompeo Gherardo Molmenti,

La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubblica). Tra questi «aneddotti-

religiosi e civili delle donne vissute in territorio friulano dall’epoca romana di Aquileia a quella contemporanea, citando nelle pagine finali l’ancora vivente Caterina Percoto. L’indagine sui costumi sociali friulani è condotta con rigore documentario in quasi tutta la produzione dell’autore e anche questo libro si basa su una vasta ricognizione di fonti inedite reperite in collezioni private e negli archivi di Udine e Venezia353.

Irene da Spilimbergo è protagonista del capitolo Ideale e reale nel Rinascimento e già il titolo ci informa tema che l’autore intende affrontare354. Marcotti informa che si sta inoltrando nei «campi dell’ideale: quindi ci imbatteremo nel fittizio»355:

La coltura letteraria, che a’ tempi di Dante, di Petrarca e del Boccaccio era privilegio quasi esclusivo degli alti ingegni, andò progressivamente diffondendosi alle mediocri in-

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

sti» sceglie di soffermarsi proprio su Marcotti, il quale oltre all’attività di giornalista aveva appunto colti- vato il suo interesse per la storia, dal quale erano nate diverse opere, tra cui i lavori migliori, secondo il Croce, sarebbero i romanzi di materia storica Il conte Lucio, I dragoni di Savoia, e La giacobina. La «sil- loge Donne e monache», frutto dello spoglio degli archivi del Friuli, viene giudicata una prova letteraria abbastanza mediocre.

353 È lo stesso autore a chiarire lo scopo del libro nella premessa iniziale, la dedica Al Dottor Vincenzo Ioppi bibliotecario, che mise a disposizione la sua collezione privata, come apprendiamo nell’indicazione

finale delle fonti. In queste pagine introduttive si legge: «[…] Che cosa cercavo? - eh, mio caro, obbedivo a quell’accorto suggerimento dell’uomo di polizia: cercavo la donna» e più avanti, giustificando ancora la sua ricerca di «curiosità», scrive: «È in questo senso che Cicerone chiamava la storia maestra della vita. Mi permetto di citar Cicerone perché non è una ricerca frivola quella che riguarda il passato della donna. A buon conto mezza l’umanità è costituita dalle donne e se le loro speciali condizioni le hanno general- mente tenute lontane dalle cure pubbliche, fu sempre altrettanto indisputata la loro signoria nel campo de- gli affetti, nel regno delle passioni private. E come l’uomo nella sua pubblica azione non cessa di essere lo stesso uomo delle azioni e delle passioni private, è evidente l’influenza indiretta esercitata della donna anche nelle parti della umana commedia che sembrano esclusivamente dirette dall’energia e dalla volontà virile. Inoltre nelle donne predomina l’attitudine alla simpatia: esse ricevono le impressioni del mondo nel quale vivono in un modo più completo che non le ricevano gli uomini». Su questa scia continua dicendo: «E però il colorito speciale delle società risulta in modo più vivo e più spiccato dalle condizioni e dai co- stumi del sesso femminile che dallo studio dell’attività mascolina». Detto ciò ovviamente restringe il campo di interesse al Friuli, «le cui singolarità meritano la massima attenzione». Riguardo al titolo, così spiega la scelta: «[…] O le monache non sono donne? Ecco: le monache nascono donne, ma poi cessano si esserlo, e se ridoventano donne, non sono più monache come si deve. Già lo constatava San Girolamo: “La donna e la vergine sono cose divise: la vergine non si chiama più donna, ha perduto anche il nome del suo sesso”. Questo dualismo fra donne e donne che non lo sono o che almeno non devono esserlo, è il fenomeno che più mi ha colpito; fu lo stimolo più pungente e più costante delle mie curiosità». Infine così conclude la sua premessa: «Chi leggerà il risultato dei nostri studi non vi troverà altra filosofia che quella dei fatti coordinati, non altra morale fuorché la favola…» (G. MARCOTTI, Donne e monache, cit., pp. 1- 4).

354 Ivi, pp. 238-56. Il capitolo precedente è invece Amor libero e tratta, come si comprende abbastanza

chiaramente dal titolo, del ruolo delle «meretrici», «sacerdotesse dell’amor libero», come le chiama ap- punto l’autore. Infatti il capitolo XI, quello in cui compare Irene, inizia così: «Dopo così lunga e famiglia- re conversazione nelle cose della carne, solleviamo un poco lo spirito alle cose dello spirito. Sarebbe troppo duro che delle donne non si potesse discorrere se non per miserie di monache, per sensualità di amori, per corruzioni laiche ed ecclesiastiche».

telligenze, e finalmente nel secolo XVI era diventata di moda anche fra le donne. Ma qui bisogna rendere giustizia alle Friulane: e cioè che restarono donne alla buona; che solo leggermente e in numero scarso si lasciarono allettare dalla vanità letteraria anche quando tal moda infieriva con straordinaria acutezza di fenomeni e povertà di risultati seri in altre parti d’Italia.

In queste righe introduttive si esprime subito un giudizio generico sulla produzione e fruizione di cultura nel Cinquecento, secolo in cui effettivamente - come dargli torto - la possibilità di accostarsi alla lettura e all’attività poetica era diffusa fra molti, quasi tutti coloro che ne avevano l’opportunità e i mezzi. E non a caso il secolo XVI è anche quello che vide affermarsi in ambito artistico-letterario alcune e brillanti figure femmi- nili. A giudicare dall’impostazione dell’opera e da quello che si legge nelle pagine suc- cessive, c’è sicuramente un pregiudizio alla base, un filtro dato dalle convinzioni perso- nali e dalla mentalità ottocentesca. Hanno lo stesso andamento anche le righe seguenti, in cui si legge:

Fra esse [le Friulane] il pedantismo di studi classici, l’affettazione dei nomi ricercati, la mania di soprannomi e pseudonimi, la retorica nelle private scritture, le velleità per la poesia e per le arti del disegno, si manifestarono appena allo stato di sporadica efflore- scenza. E senza la mania dei letterati di mestiere, i quali ad ogni costo volevano allora trovare le Muse in ogni ragazza da marito, in ogni madre di famiglia, in ogni castellana, in ogni grassa borghese, sarebbe molto breve il capitolo dell’ideale nel mondo femminile di quel tempo e di que’ paesi. Ne pianga chi crede che la felicità dei popoli sia in propor- zione del numero di pagine da essi divorate o prodotte. A me pare che senza lagrime si possa constatare dove la donna, anche nel furore della voga letteraria, fu oggetto piuttosto che soggetto…

Questo certamente è il pensiero dell’autore, che premette alla ripresa dell’esempio femminile un avvertimento: richiede di moderarsi nell’entusiasmo, poiché un caso come quello della giovane di Spilimbergo era certamente frutto della “moda” del tempo di trovare una Musa in ogni donna che mostrasse anche superficialmente motivo di essere celebrata. In tal modo anticipa, nei fatti, il punto centrale della sua riflessione: lo scopo è quello di confutare l’opinione comune sull’eccezionalità di Irene, «un gentil nome e gentile persona invero»:

Quando vidi nella Raccolta dei suoi panegiristi Angelo di Costanzo, Benedetto Varchi, il Navagero, Erasmo da Valvasone, Luigi Tansillo, Scipione Ammirato, Bernardo e Torqua- to Tasso; quando fuori della Raccolta la vidi celebrata da altre elegie, orazioni e sonetti in

gran numero, restai abbagliato come dal fondo e dai raggi d’oro che circondano le figure delle tavole del Beato Angelico… Poi, come accade, abituate le pupille al bagliore di tut- ta quella gloria poetica italiana e latina, cercai i contorni e le forme e la fisionomia che mi veniva annunziata da così solenne concerto. E come da questo venivano celebrati al pari l’intelletto in ogni parte e la bellezza corporea di Irene, ne ricercai il corpo e lo spirito.

Marcotti ammette di essere rimasto egli stesso affascinato, in un primo momento, dalla giovane pittrice friulana e dalla fama che effettivamente la precedeva. Questo il motivo che lo ha spinto a indagare la realtà effettiva da cui era nato quell’ideale di perfezione. Annuncia quindi i passaggi della sua ricerca, nella quale per prima cosa si rivolge alla «prosa dei biografi» e analizza paragrafo dopo paragrafo gli aneddoti principali della sua vita, demolendo già tutti gli elementi del mito letterario. Più che “demolire” forse si dovrebbe usare il verbo “sminuire”, che meglio rende l’idea dell’abbassamento dell’ideale, del suo ricollocamento entro i limiti della verità storica.

Da bambina non volle lasciarsi baciare da un gentiluomo, dicendo doversi baciare quelle che non sanno ancora quanto importi un bacio - Ebbene: io non so ammirare questa anti- cipata castità, questa prescienza del male, questa precocità d’esperienza356.

È il primo episodio commentato dall’autore, che si dichiara addirittura infastidito da quello che tutti avevano ritenuto il primo segnale di integrità. È ovvio che, proprio in virtù della sua indagine della realtà delle cose, Marcotti è probabilmente ben consape- vole che questo è un fatto quasi certamente inventato, o comunque ricostruito, magari narrato al biografo cinquecentesco da qualche parente o amico stretto della famiglia di Irene, o sentito negli ambienti dell’Accademia, tra quelli che avevano frequentato anche la casa del Da Ponte. Tuttavia, è inserito e confutato perché effettivamente come primo esempio illustra molto bene quello che l’autore intende fare.

Continua poi ripercorrendo i vari aspetti della sua fama:

Adolescente, acquista una rara eccellenza nella musica […]. - Ma il successo di giovinet- te e di fanciulle nell’arte musicale non ha nulla di sorprendente: è un fenomeno tutt’altro che raro, perfettamente concorde colla sensibilità femminile.

                                                                                                               

356 La graduale demolizione del mito è scandita dalla ripresa dei passi della biografia, da cui l’opinione

dell’autore è separata e introdotta dal “trattino”. Uno schema che si ripete anche nelle citazioni successi- ve.

Leggeva Plutarco tradotto, il Piccolomini, il Castiglione, il Bembo, il Petrarca; - ma era- no questi gli autori alla moda nel gran mondo che ella frequentava, li trovava su per le ta- vole nelle nobili case dei suoi parenti. E qual è la giovinetta che, sapendo leggere, non faccia suoi tutti i libri che le vengono a mano, sia una divota Filotea o un romanzo reali- sta?

La domanda retorica con l’esempio dei due generi letterari vuole fornire certamente i due casi delle letture più comuni, religiose o laiche, della donna nell’immaginario co- lelttivo. Sia la Filotea, opera di Francesco di Sales357, che il romanzo realista non erano certo le letture di Irene, ma qui sono perfette per rendere al meglio l’idea. La sua ricerca della verità pecca ancora una volta per l’influsso del pregiudizio.

Ma affermò Apostolo Zeno che ella scrivesse orazioni e poesie. - Purtroppo orazioni e poesie si componevano già allora e si continuano a comporre con desolante facilità da in- numerevoli adolescenti dei due sessi. Se le sue fosser degne di elogio nessuno lo può di- re: non riuscì di rinvenirle neppure al diligentissimo Liruti.

E in ciò non si può in verità dar torto a Marcotti, poiché, come già precisato, i frutti del- la sua aspirazione letteraria non sono giunti fino a noi.

Era «pronta in motteggiare, accorta nel rispondere, riservata dal pungere, nemica della maldicenza». - Ma tutto questo si riduce a darci l’idea d’una ragazza spiritosa, buona e bene educata.

Aveva «mente cristiana e impavida» e credeva al destino, cosicché aveva scritto sulla porta «Quel che destina il ciel non può fallire». - Aveva insomma il sentimento della reli- gione naturale e la fede di quella rivelata: e anche ciò non è punto straordinario.

Sull’aspetto caratteriale l’autore riassume i punti salienti della descrizione biografica, nei fatti interpretandola anche, poiché la Vita non parla esattamente di «mente cristiana e impavida». A questo punto passa a trattare dell’attività artistica, l’elemento più impor- tante della fama di Irene:

Fu almeno un’artista di qualche valore? - Ecco la sua storia circa le arti del disegno: da prima faceva imprese negli abiti e in altri lavori femminili con simboli e bei motti trovati da lei o avuti da letterati. Poi prese a disegnare presso la giovane Campaspe che godeva a Venezia bella reputazione artistica, udì lodare come pittrice l’Anguissola e volle tentar la pittura. Ebbe un grande maestro, Tiziano, e copiava da lui, come fanno tutti gli scolari i quali copiano dal maestro… Restano di lei tre quadretti, una Fuga in Egitto, un Noè

nell’arca e un Diluvio; furono lodati: ma chi li vuol vedere, non può vedere in essi che

meschini tentativi di copia da brutti originali; nel quadretto dell’Arca v’è uno sfondo di paese dove vive un lampo di luce e un soffio d’aria, ma tutto il resto prova quanto fosse

                                                                                                               

357 La Filotea, ovvero l’introduzione alla vita divota di Francesco di Sales (François de Sales) fu pubbli-

incerta quella mano delicata che in un canto segnava IRE.

Queste righe sono effettivamente interessanti, poiché probabilmente Marcotti aveva po- tuto vedere di persona i tre “famosi” quadretti di Irene, dei quali dà, in realtà, un giudi- zio molto negativo. Pochi anni prima il Bonturini nel suo Elogio aveva descritto con ammirazione i tre dipinti, definendoli comunque «esperimenti» e in tal modo mettendo in chiaro la natura ancora immatura dell’attività di una giovane “promessa” della pittu- ra. Tuttavia, qui il parere è assoluto e l’autore ci tiene a evidenziare con il corsivo quel «copiava», sottolineando un altro aspetto comune e non straordinario della vita di Ire- ne358. Interessante è invece l’informazione sulla firma in un angolo dei quadretti, che fi- no a ora non si era riscontrata nelle altre fonti storiche e letterarie.

A questo punto il testo si avvia a commentare le motivazioni della gloria di questa fanciulla “prodigio” e il suo tono diviene più oggettivo:

E allora, dove sta il segreto della sua straordinaria riputazione, mentre dai documenti ella risulta niente più che una giovinetta di bellissime speranze?

Il segreto non è un segreto: la spiegazione del fatto si trova in alcune circostanze partico- lari ad Irene e alla sua famiglia, e in altre comuni allo spirito del tempo.

Irene non fu un fiore miracoloso spuntato per prodigio in una selvatica landa, come po- trebbe credere chi badasse alla sua fama isolata e al nome teutonico del suo castello avito: Spilimbergo era nel principio del secolo XVI un posto avanzato della squisita civiltà che aveva centro luminoso in Venezia. Sua madre Giulia da Ponte, patrizia veneta, scrisse eleganti lettere che trovarono posto nelle più riputate raccolte di quel tempo, e che la mo- strarono in corrispondenza con uomini ragguardevoli e colti […]. Suo padre Adriano era signore di non comune coltura […]. Giorgio Gradenigo donava dei libri alle promettenti giovinette di casa Spilimbergo: giacché anche l’Emilia, sorella maggiore di Irene, si dilet- tava di arti e di lettere. Si può dunque dire che Irene nascesse in grembo alle Muse.

Detto ciò, l’autore aggiunge gli elementi della vita che ancor più alimentarono l’idealizzazione: la morte precoce del padre, le seconde nozze della madre, l’avidità di potere dei parenti che cacciarono lei e la sorella da Spilimbergo, il trasferimento a Ve- nezia presso il nonno materno, in casa del quale si riunivano personalità importanti dell’ambiente culturale veneziano, l’episodio dell’esibizione davanti a Bona Sforza, in-                                                                                                                

358 È necessario ricordare che anche Zotti non dà un giudizio positivo sui tre “quadretti”, affermando che

essi non hanno in realtà «nulla di speciale» (R.ZOTTI, Irene di Spilimbergo, cit., p. 35; cfr. Cap. II, p. 122).

fine il contatto con Tiziano. Il pittore, che forse aveva già conosciuto Irene ed Emilia, sarebbe stato presente durante il passaggio della regina di Polonia dalla città friulana e in quella occasione avrebbe iniziato i ritratti, che raffigurerebbero le due fanciulle con il vestito e la posa con cui si erano presentate alla regina. La descrizione molto dettagliata dei due dipinti fa pensare che anch’essi furono visti personalmente dal Marcotti:

Sono due teste bionde acconciate con grandissima cura e incorniciate da un pomposo col- lare come per cerimonia: due figure egualmente scollate fino alla nascenza delle mam- melle, vestite egualmente in raso cremisi e rosa, con uguali orecchini, l’identico paterno- stro al fianco e in cintura l’identica catenella d’oro donata dalla Regina. I due ritratti si guardano e la posa è affatto simile in ambedue, un poco eroica e drammatica come di chi prenda un’attitudine quasi teatrale. Sono solo differenti le fisionomie e alcuni accessorii.

Subito dopo sottolinea anche le sottili diversità fra le due figure:

Il viso di Emilia si distingue per maggiore e più regolare bellezza; Irene ha il collo un po’ grosso, il naso piuttosto largo di narici e rivolto un pochino all’insù, ma brilla in lei un’intelligenza superiore, per la piega spiritosa della bocca e per la vivacità dei grandi occhi. Anche i suoi panegiristi ne lodano specialmente gli occhi maghi.

A proposito di panegirico, qualche riga sotto, riportata la notizia della morte di Irene per una presunta «infreddatura», l’autore così commenta la celebrazione poetica che seguì quel tragico evento:

A Venezia tutti i poeti e letterati che si davano convegno in casa Da Ponte, avevano am- mirato quella giovinetta orfane ed esule, amata singolarmente e protetta dal loro Mecena-