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La seconda parte della raccolta è una sezione di carmi preceduti, come già visto, dalla versione latina della lettera dedicatoria a Claudia Rangoni. A parte autori già presenti nella sezione volgare, come il Varchi e il Giusti, e alcune figure rilevanti come quella di Giraldi Cinzio, altri scrittori non sono ben identificabili. Come già ampiamente dimostrato per la prima parte, anche qui ritroviamo versi infarciti di reminiscenze classiche e allegorie mitologiche, spesso destinate alla rappresentazione fittizia di un mondo immaginario. I rimandi a specifiche tendenze coeve sono meno sicuri e la tradizione di riferimento è quella che caratterizza anche la produzione latina della prima metà del Cinquecento158. Una personalità di un certo rilievo è forse quella di Girolamo                                                                                                                

157 Tra gli Incerti, è interessante un’egloga in terza rima intitolata Dafni e Tirsi (p. 104), nella quale, con

riferimento a un velo di scene pastorali ricamato da Irene (Cfr. G.COMELLI, Irene di Spilimbergo in una

prestigiosa edizione del Cinquecento con un carme latino di Tiziano, cit., p. 233), si riporta il dialogo fra i

due personaggi e si ripercorre ancora la vita della giovane donna, pianta soprattutto nelle parole di Tirsi, che rievoca le virtù di Irene e le sue doti artistiche.

158 Intorno alla sezione latina, sicuramente più esile e probabilmente considerata meno interessante, forse

anche per ragioni commerciali, non sono presenti veri e propri approfondimenti: in particolar modo, se ne sono occupati Elvira Favretti e Giovanni Comelli nei rispettivi studi sulla raccolta. Riguardo al problema della tradizione lirica latina cinquecentesca, Favretti rimanda ad alcune opere di riferimento: i Carmina

quinque illustrium poetarum, editi a Venezia nel 1548, nei quali, per la prima volta, viene fissato un ca-

none rigoroso formato da cinque insigni autori: Pietro Bembo, Andrea Navagero, Baldassarre Castiglione, Giovanni Cotta, Marco Antonio Flaminio, nessuno vissuto oltre la metà del secolo; il testo di Gian Vin-

Amalteo, veneto, il quale, fratello peraltro di Giovanni Battista, anch’egli umanista di una certa fama159, contribuisce con un epigramma (p. 13), insolitamente indirizzato alla madre della fanciulla, appellata come «miseranda parens», mentre gli altri carmi sono convenzionalmente rivolti o a Irene stessa o alla sua tomba. I modelli antichi sono soprattutto quelli dell’età cesariana e augustea: emergono innanzitutto Virgilio, Orazio, Ovidio, che forniscono agli umanisti del Cinquecento spunti per creare un clima sentimentale – religioso adatto al compianto. I ricordi virgiliani affiorano, in alcuni casi, palesemente, come nel componimento di Jacopo Filippo da Lucca (p. 14), che riporta tale e quale il «funere mersit acerbo» del VI libro dell’Eneide, peraltro ripreso anche da un altro autore, Mario Pittori, ma con una variazione: «Irenen potuisti ergo mors funere acerbo mergere…» (p. 38). Non mancano poi i richiami a Catullo e, meno frequentemente, a Properzio160. Le possibili suggestioni classiche riguardano non solo il lessico, lo stile e i temi, ma anche la forma metrica, nella ricerca di quella più adattabile alla struttura del “Tempio”: il distico elegiaco, ad esempio, ha un ruolo effettivamente predominante, insieme all’esametro e agli endecasillabi faleci. Il problema della poesia latina, sottoposta al rischio di diventare sempre più esercitazione accademica e scolastica, e del riferimento al modello è soprattutto quello del recupero dell’elemento classico e della sua ricollocazione all’interno di un nuovo contesto.  

Anche in questo caso, come in quello della sezione volgare, la convenzionalità e                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

cenzo Gravina, Della ragion poetica, edito nel 1771, che cataloga i poeti latini del Rinascimento allar- gando il canone e incluedendo accanto ai lirici gli autori di «poemi interi d’alta scienza ed ascesa dottrina ripieni»; il più recente capitolo su La poesia latina in Poesia popolare e poesia d’arte di Benedetto Cro- ce, che mostra finalmente un giudizio critico superiore affermando l’inferiorità della produzione lirica la- tina rispetto alla volgare nel Rinascimento, ma anche in tal caso senza spingersi molto oltre la metà del XVI secolo (cfr. E.FAVRETTI, Il «Tempio» di Irene di Spilimbergo. Una raccolta di rime del Cinquecen-

to, cit., pp. 24 e ss.).

159 Cfr. ANNA BUIATTI, Giovanni Battista Amalteo, in DBI, vol. 2, 1960.

160 Cfr. E.FAVRETTI, Il «Tempio» di Irene di Spilimbergo. Una raccolta di rime del Cinquecento, cit.

L’autrice osserva anche gli spunti offerti dall’Antologia Planudea, soprattutto per gli epigrammi. Inoltre, viene anche analizzato il modello del Pontano, come esempio di rimodulazione della lingua latina piegandola alle esigenze di un nuovo sentire (p. 35).

ricorsività di certe immagini è probabilmente generata dal fatto che molti di questi autori non conobbero realmente la giovane, quindi, nell’impossibilità di dimostrare una totale e sincera commozione, si impegnano soprattutto nell’esaltare la vicenda biografica, che fornisce il pretesto per la celebrazione delle sue incredibili doti. E tra queste primeggia, senza dubbio, l’attività della pittura, di cui parla, ad esempio, Benedetto Varchi nel suo primo componimento latino, esaltando le virtù «nobillissimae ac rarissime» della «puella» (p. 9)161:  

IRENE iacet hic docta, ac pulcherrima virgo,  

nec non pingendi clara magistero.  

Quam Deus, espleta non dum trieteride sexta   abstulit heu terris, coelitibusque dedit.  

Qui formam, qui doctrinam, qui suspicis artem   pisturae, hunc tumulum ter veneratus, abi.  

Nelle pagine precedenti, un certo Antonio Sulfrino, nei suoi distici, fa parlare direttamente Irene dalla tomba e il suo carme esordisce proprio così: «Depinxi varias formas, hominesque, ferasque, / Bella, urbes, menteis, flumina, ruru, vias» (p. 7). Ottavio Bornato, bresciano162, arriva addirittura a paragonare la protagonista

direttamente a Tiziano e a elevarla al di sopra di quest’ultimo (p. 53)163.   * * *  

Il riferimento al pittore è un’ovvia conseguenza della celebrazione dell’attività artistica di Irene, ma quello che sicuramente risulta l’aspetto più interessante della sezione latina è la presenza stessa di Tizianus Vecellius, il quale, inserito dall’ordine alfabetico al termine della sezione e dell’intera antologia come penultimo, in qualche modo attira l’attenzione e lo stupore del lettore, che si trova di fronte all’unico esempio di un contributo poetico da parte del pittore veneziano. La sua partecipazione alla                                                                                                                

161 Non è un caso che il Varchi si soffermi sulla pittura, poiché egli è autore di due Lezioni sulla pittura e

sulla scultura.

162 Su questo autore cfr. G.MAZZUCHELLI, Scrittori d’Italia, cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite e agli scritti dei letterati italiani, Brescia, 1762, vol II, parte III, p. 1779.

163 Cfr. G.COMELLI, Irene di Spilimbergo in una prestigiosa edizione del Cinquecento con un carme lati- no di Tiziano, cit., p. 235.

creazione del mito di Irene è resa ancor più interessante dal fatto che egli teoricamente si aggiungerebbe proprio a quella schiera di autori che conobbero personalmente la giovane donna. Non è una novità l’influenza della cultura umanistica sul pittore e l’amicizia con alcuni dei più importanti letterati dell’ambiente veneziano, ma la presenza di un suo contributo lirico in latino è senza dubbio una sorpresa, poiché testimonierebbe la sua padronanza della lingua classica. Nella sezione volgare, il Vecellio viene chiamato in causa più volte, ad esempio in un componimento di Ludovico Paterno, indirettamente nelle rime del giovane Tasso, che fa riferimento a un ritratto di Irene – anche se, in realtà, non nomina mai il pittore veneziano – e anche in un sonetto esortativo del Dolce. Quest’ultimo, autore peraltro del Dialogo della Pittura, pubblicato a Venezia nel 1557, in cui esalta proprio l’arte di Tiziano, invita il maestro a rappresentare «il divin celeste aspetto» della donna scomparsa (p. 121):  

Pon Titian ogni maggior tua cura,   et unisci i color, l’arte, e l’ingegno,   per ritrar viva in vivo almo disegno   lei, che ne tolse morte acerba e dura;  

che, come non fermò giamai natura   cosa più bella in questo basso regno,   cosi’l soggetto è solamente degno   de la tua man, ch’i piu famosi oscura.  

In queste quartine è contenuta l’esortazione a compiere il ritratto di Irene, come altrove sono esortati i poeti a descrivere e cantare nei loro versi le bellezze fisiche e morali della donna. È una diversa tipologia di invito, ma pur sempre di invito si tratta, poiché il Dolce si rivolge direttamente al Vecellio, affinché accolga la sua richiesta. La questione dei ritratti è, come già accennato, molto complessa e non è possibile comprendere quale sia stato il reale contributo del maestro ai due dipinti, ma è comunque indubbio che le opere, o almeno il loro abbozzo, risalgano a un momento precedente alla pubblicazione delle Rime in morte di Irene. I versi del Dolce risultano, in tal senso, un po’ contraddittori, poiché sollecitano il pittore a eseguire qualcosa che teoricamente già

esisteva. Le ipotesi sono due: o il sonetto è stato scritto dopo la morte della donna, ma precedentemente alla realizzazione del ritratto; o il ritratto in questione non è opera di Tiziano e perciò il Dolce lo invita a mettervi mano. In entrambi i casi la questione rimane in sospeso e coinvolge anche a un sonetto del Gradenigo, Mentre che Titian la

mano e l’arte, già citato, in cui l’autore si riferisce esplicitamente all’azione del

Vecellio che compie un ritratto, in questo caso di Isabella164. È possibile che la realizzazione delle Madonne di Spilimbergo sia stata iniziata prima della morte della giovane donna, magari nello stesso anno, e conclusa dopo, con un’attenzione particolare proprio per il soggetto scomparso165. Il fatto che il Tasso si riferisca, invece, a un ritratto già terminato, che egli ha avuto l’opportunità di contemplare, non dovrebbe generare particolari problemi, dato che i sonetti della raccolta potrebbero collocarsi nell’arco di tempo tra la morte della fanciulla e l’uscita del volume, quindi dagli inizi del 1560 fino all’estate dell’anno successivo.  

Il carme di Tiziano, Irene Ausonias inter lectissima nymphas (p. 56), suddiviso in tre parti (o tre epigrammi) inizia con la celebrazione della singolarità della fanciulla, «lectissima inter Ausonias nymphas», desiderata come nuora da tutte le madri di Italia: un aspetto interessante, perché rimanda a un’immagine di Irene come sposa, un motivo poco evidente all’interno della raccolta e assente nella biografia iniziale. Dopo averla collocata fra gli dei celesti, introduce subito il tema della pittura:  

Egregia poteras spirantes fingere vulnus   pictura, et quod deest addere sola decus,  

ante diem tibi ni IRENE vitalia nentes  

stamina solvissent tenuia fila Deae.  

Dixerat illacrymans prisco Titianus Apelle   exprimere artifici doctior ora mano:  

cum mors coelum, inquit, pictura ornarier huius   dignum est: orbi unus tu Titianae sat es.  

                                                                                                               

164 Vd. nota 122.

165 Sulla questione relativa a questi ritratti è interessante anche l'articolo di HANS TIETZE -ERICA TIETZE-

Sono i versi centrali, quelli più importanti, in cui si condensa il vero contenuto, prima di concludere con un’altra immagine convenzionale, quella dell’Amore che erra triste e disperato «sine arcu» e «sine pharetra», perché gli occhi di Irene avevano sia archi che frecce e la morte, chiudendoli, ha rapito entrambi166. Nella parte citata l’autore mostra la commozione per la scomparsa della donna, ma sottolinea anche, non troppo velatamente, di essere più abile (doctior) dell’antico Apelle. Appare come una precisazione, una risposta agli iperbolici paragoni di alcuni autori della raccolta e a chi ha usato il pretesto del rapporto fra Irene e Tiziano per porla addirittura al di sopra del presunto maestro: l’Atanagi stesso, nella Vita, pur non mostrando mai un diretto confronto con il cadorino e precisando che ella prende esempio proprio dalle opere del pittore, in ogni caso tende a esagerare le incredibili doti artistiche di Irene, che avanza velocemente nell’apprendere e nel perfezionare la sua tecnica. Queste capacità sono effettivamente esaltate anche nel carme, ma con un tono più misurato: si parla «egregia pictura», di capacità di aggiungere «decus», ovvero bellezza e splendore, ma l’elogio si esaurisce qui. Tuttavia, quello che lascia stupiti è che il pittore parli di sé in terza persona e si rivolga, «illacrymans», proprio a se stesso, consolandosi: la morte ha adornato il cielo con il dipinto della donna; per la terra basta lui, Tiziano. L’uso della terza persona appare davvero insolito: questi versi rappresenterebbero l’unica testimonianza di un Tiziano poeta e ciò indurrebbe a pensare che in realtà il Vecellio non sia l’autore effettivo del carme. Anche la scarsa attenzione riservata alla sua presenza all’interno della raccolta, quasi come se fosse passata completamente inosservata, alimenta il sospetto che qualcuno abbia scritto il carme per inserire il nome del pittore nella raccolta. L’ipotesi potrebbe essere confermata dall’elogio                                                                                                                

166 Nel suo articolo, Comelli riporta integralmente il testo del carme, accompagnandolo con una traduzio-

ne in nota (G.COMELLI, Irene di Spilimbergo in una prestigiosa edizione del Cinquecento con un carme

effettivamente un po’ esagerato che Tiziano fa di se stesso e che appare decisamente inusuale. Anche se si trovasse una prova concreta dell’attività poetica del pittore, quest’ultimo aspetto lascerebbe comunque molte incertezze167. Inoltre, il fatto che si tratti di rime in latino accentua il dubbio, poiché non esiste alcuna testimonianza, come accennato, che il Vecellio conoscesse la lingua. Gli unici scritti tizianeschi che possono fornire qualche informazione sulla sua attività di scrittore sono le lettere, un corpus consistente, rapportato anche all’ampiezza cronologica della vita del pittore e al vasto intreccio di rapporti “internazionali” che egli seppe coltivare. Tuttavia, proprio questa documentazione preziosa solleva ancor maggiori incertezze, poiché la figura di Tiziano epistolografo è messa in discussione dai dubbi sulla paternità di molte delle sue lettere. L’analisi stilistica dell’epistolario ha fatto emergere l’intervento di varie persone, primo fra tutti l’amico Petro Aretino168. Questo fatto conferma in modo irremovibile anche i sospetti sull’autore del carme, poiché pare ancor più plausibile che qualcun altro abbia composto questi versi. A rendere improbabile la sua effettiva partecipazione alla celebrazione poetica di Irene è, come già detto, soprattutto il latino: se è possibile indagare la preparazione culturale di Tiziano e soffermarsi sulle sue conoscenze letterarie e sul rapporto coi classici, soprattutto nella scelta dei temi169, non è tuttavia                                                                                                                

167 Cfr. AMBROGIO LEVATI, Dizionario biografico cronologico diviso per classi degli uomini illustri. Classe V: Donne illustri, Milano, 1822, vol. III, p. 123. Alla voce corrispondente a Irene di Spilimbergo,

a un certo punto, si legge: «Fra le poesie manoscritte di Irene si leggono alcuni sonetti da lei indirizzati a Tiziano Vecellio, come a suo esemplare e maestro nel disegno e nel colorito, ed altri pure vicendevolmen- te da Tiziano a Irene. Sotto nome di questo incomparabile pittore stanno pure tre epigrammi nella suddet- ta raccolta […]. Ma si può con ragione dubitare che essi non sieno parto di Tiziano, vedendolo nel secon- do in particolare sommamente lodato; il che è difficile da credere, che uscisse dalla sua penna, comecché dall’altrui potesse meritare di vantaggio». Quest’affermazione è in realtà citata dalla Biblioteca

dell’eloquenza italiana di Monsignore Giulio Fontanini, con le annotazioni del Signor Apostolo Zeno,

Parma, presso Luigi Mussi, ultima ristampa 1803-04, Tomo secondo, Classe V: I lirici, p. 113.

168 Sulla questione cfr. GIORGIO PADOAN, Tiziano epistolografo, in Tiziano. Catalogo della mostra, Pa-

lazzo Ducale, Venezia - National Gallery of Art, Washington, 1990, Marsilio, Venezia, 1990, pp. 43-52. L’edizione completa delle lettere indirizzate e ricevute da Tiziano nel corso della sua vita, e più precisa- mente dal 1513 al 1576, è stata nuovamente e recentemente pubblicata in Tiziano. L’epistolario, a cura di Lionello Puppi, postfazione di Charles Hope, Firenze, Alinari 24 ore, 2012;

169 Si pensi soprattutto alle Metamorfosi di Ovidio, alle quali si ispira la serie di dipinti, le cosiddette Poe- sie, raffiguranti appunto scene e soggetti mitologici.

possibile ipotizzare la sua padronanza della lingua antica. La testimonianza più esplicita è la dedica del volgarizzamento di Giovenale da parte del Dolce, in cui si legge: «hora lo mando a voi affinché, non potendo intendere il proprio, veggiate nel mio se i buoni scrittori sanno così bene ritrar con la penna i segreti dell’animo»170. Il Dolce non poteva fare un’affermazione simile senza essere certo che Tiziano non fosse in grado di leggere il latino.  

La frequentazione della casa del pittore da parte di letterati non è un fatto insolito, dato anche il clima culturale, al centro del quale si colloca la discussione sul primato delle arti. In questa ottica, la presenza di Tiziano al termine della raccolta riporta alla mente, ancora una volta, la questione del rapporto tra la raffigurazione poetica e quella pittorica, tirando nuovamente in causa il “realismo”: proprio nell’ambiente veneziano si assiste, infatti, a un reciproco scambio di immagini fra i due ambiti della letteratura e della pittura, in cui non solo gli artisti attingono dalle descrizioni letterarie, ma anche i poeti mostrano una maggiore vocazione ritrattistica; un rapporto di cui sono emblematici, ad esempio, i casi delle Poesie del Vecellio e delle numerosissime descrizioni che l’Aretino ha fatto dei quadri dell’amico pittore171. È esemplare anche il già ricordato Dialogo della Pittura del Dolce, in cui l’Aretino si mostra più consapevole nella valutazione delle capacità espressive dell’arte pittorica172:  

Dico adunque la pittura, brevemente parlando, non essere altro che imitazione della natura; e colui che più nelle sue opere le si avicina, è più perfetto maestro. Ma perché questa diffinizione è alquanto ristretta e manchevole, perciò che non distingue il pittore dal poeta, essendo che il poeta si affatica ancor esso intorno alla imitazione, aggiungo che il pittore è intento a imitar per via di linee e di colori, o sia in un piano di tavola o di muro

                                                                                                               

170 Cfr. G.PADOAN, Tiziano epistolografo, cit., p. 45.

171 Su questo argomento cfr. G. PADOAN, “Ut pictura poesis”: le «pitture» di Ariosto, le «poesie» di Ti- ziano, in Id., Momenti del Rinascimento veneto, Padova, Antenore, 1978, pp. 347-70; MARIO POZZI, Teo-

ria e fenomenologia della «descriptio» nel Cinquecento italiano, cit., pp. 172-4; GIORGIO PETROCCHI,

Scrittori e poeti della bottega di Tiziano, cit. Sul tema dell’ut pictura poesis cfr. soprattutto RENSSLAER W.LEE, Ut pictura poesis: la teoria umanistica della pittura, Firenze, Sansoni, 1974.

172 Per i passi citati: L.DOLCE, Dialogo della pittura intitolato l’Aretino,Vinegia, presso Gabriel Giolito

de’ Ferrari, 1557, in Trattati d’arte del Cinquecento fra manierismo e controriforma, a cura di Paola Ba- rocchi, Bari, Laterza, 1960, vol. I, pp. 141-206, 433-493.

o di tela, tutto quello che si dimostra all’occhio; et il poeta col mezzo delle parole va imitando non solo ciò che si dimostra all’occhio, ma che ancora si rappresenta all’intelletto. Laonde essi in questo sono differenti, ma simili in tante altre parti, che si possono dir quasi fratelli.

E ancora, più avanti, si legge:

L’ufficio adunque del pittore è di rappresentar con l’arte sua qualunque cosa, talmente simile alle diverse opere della natura, ch’ella paia vera. E quel pittore, a cui questa similitudine manca, non è pittore; et all’incontro colui tanto più è migliore e più eccellente pittore, quanto maggiormente le sue pitture s’assomigliano alle cose naturali.

D’altronde, i trattati d’arte e di letteratura apparsi dalla metà del XVI secolo molto spesso si soffermano sulla stretta relazione tra le due “arti sorelle”, con il consueto riferimento al detto, attribuito da Plutarco a Simonide, secondo il quale la pittura è poesia muta, la poesia pittura parlante; detto associato alla già citata espressione oraziana dell’ut pictura poesis. È ancora il Dolce a dichiarare, nel suo trattato, che non soltanto i poeti, ma tutti gli scrittori sono pittori173. Tuttavia, sebbene nella concezione cinquecentesca al pittore non fosse permesso di ignorare la letteratura, e le fonti classiche in particolar modo, non per questo può essere sempre considerato come letterato174. L’intensa amicizia di Tiziano con l’Aretino e col Sansovino, se rispecchia

senza dubbio affinità di gusti e di interessi, non presuppone comunque, in tal caso, il sovrapporsi delle arti. Per questi motivi, la presenza del pittore all’interno della raccolta, in assenza di altre testimonianze concrete sulla sua attività letteraria e in presenza, al contrario, di testimonianze sulla sua abitudine di appoggiarsi all’amico nella scrittura