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L A SVOLTA ROMANTICA : I RENE SECONDO I PPOLITO N IEVO

IRENE DOPO IL CINQUECENTO: ASPETTI DELLA FORTUNA ARTISTICA E LETTERARIA

3.1 «V ERGINE BELLISSIMA , LETTERATA , MUSICA ET INCAMINATA NEL DISEGNO »

3.5. L A SVOLTA ROMANTICA : I RENE SECONDO I PPOLITO N IEVO

L’altra interessante ripresa ottocentesca è quella di Nievo, che intitola Irene di Spi-

limbergo, come già detto, uno dei suoi Canti del Friuli. È un’ulteriore conferma

dell’interesse romantico per il mito di Irene, il cui ricordo qui si fa definitivamente lon- tano e sfuggente, staccato dal contesto storico per mettere in risalto l’umanità della figu- ra. La raccolta uscì postuma nel 1912 a Udine e rappresenta una testimonianza diretta dello stretto legame del Nievo con il Friuli, regione d’origine della madre e luogo in grado di esercitare un fascino insostituibile sullo scrittore347. Irene di Spilimbergo è il XII di diciotto componimenti, tutti d’ispirazione più o meno storica, come si intuisce già dal primo canto, intitolato proprio Friuli, in cui la vista del paesaggio e le sensazioni suscitate nel poeta riportano alla mente momenti e protagonisti del passato348. Geografia e storia si intrecciano anche nelle altre poesie, come la seconda, intitolata Gemona, no- me di un comune friulano, o la terza, dedicata a Rodogauso, ultimo duca longobardo del                                                                                                                

347 L’edizione di riferimento è IPPOLITO NIEVO, Canti del Friuli, Udine, Tipografia Del Bianco, 1912. Su

Nievo cfr. MARCELLA GORRA, Ritratto di Nievo, Firenze, La Nuova Italia, 1991 e anche EMILIO RUSSO,

Ippolito Nievo, in DBI, vol. 78, 2013; sul rapporto fra lo scrittore e il territorio friulano cfr. lo studio di

BINDO CHIURLO, Ippolito Nievo e il Friuli, Udine, Doretti, 1931, ma anche più recentemente gli studi di Emilia Mirmina, tra i quali E. MIRMINA, Ippolito Nievo e il Friuli: un percorso nella memoria, in E. MIRMINA -A.DE CILLIA, Ambiente, letteratura e società nella storia del Friuli. Itinerari letterari del

Friuli-Venezia Giulia, Padova, Cooperativa libraria editrice dell’Università di Padova (CLEUP), 2003,

pp. 151-198; inoltre per un approfondimento delle tematiche più importanti della produzione letteraria di Nievo cfr. STEFANIA SEGATORI, Forme, temi e motivi della narrativa di Ippolito Nievo, Firenze, Olschki, 2011, in cui vengono dedicate alcune pagine anche al Friuli e al suo mondo agrario-provinciale (pp. 75- 81), in cui a certo punto si legge: «Per lo scrittore il Friuli rappresentava la terra della madre e il friulano la lingua materna (nel senso forte dell’espressione); questo ha comportato risonanze ed implicazioni psi- cologiche che sono all’origine di una compleassa e sottile tematica poetica: il Friuli come un’isola di rifu- gio, uno spazio mitico». Il luogo di origine della famiglia materna era Colloredo di Monte Albano, at- tualmente in provincia di Udine, dove lo scrittore soggiornò a più riprese, sebbene l’anno “friulano” per eccellenza sia il 1856, trascorso quasi interamente nella regione. Nel capolavoro nieviano, Le confessioni

d’un italiano, il Friuli viene definito «un piccolo compendio dell’universo» (cfr. I. NIEVO, Le confessioni

d’un italiano, a cura di Simone Casini, Parma, Fondazione Pietro Bembo - Ugo Guanda Editore, 1999, 2

voll., I vol., p. 64). Tuttavia, questa raccolta poetica pubblicata postuma sembra quasi completamente ignorata dalla critica, addirittura non compare in alcune importanti bibliografie, come quella dell’edizione de Le confessioni curata da Casini. Nell’edizione recentissima delle Opere curata da Giovanni Visco, pre- sente solo nella versione eBook, la raccolta è inserita prima della novella Il Varmo, nel ’56, e del romanzo

Il conte pecorajo, terminato nello stesso anno (cfr. M. GORRA, Ritratto di Nievo, cit., p. 99 e ss.).

348 Nelle prime due strofe del componimento intitolato Friuli si legge: «Sublimi vette scintillanti, floridi /

colli, ridente pian, che di triplice / difesa il mar nostro cingete, / da Venezia all’estremo Quarnaro, / dite, nel lungo volger dei secoli, qual di straniere armi e di popoli / fiumana vedeste, avida Italia ricercando». (Canti del Friuli, cit., p. 7, vv. 1-8).

Friuli, ucciso, secondo la tradizione, dal paladino Orlando349. Su questa scia, anche il testo dedicato a Irene trae spunto dal ricordo di una figura quasi mitica e leggendaria.

La poesia è costituita da terzine di endecasillabi in rima incatenata, con un verso iso- lato finale come congedo, ed è suddivisibile in due parti separate dal punto al termine della quarta strofa350:

Splendeva su la gran parete nera l’ampia trifora, simile a giocondo trittico di raggiante primavera.

e sopra il giovinile capo biondo d’Irene, tutta assorta nel consueto lavoro, indugiava il moribondo

sole di maggio. Era un tramonto quieto pieno di voli. San Daniele in alto

nella gran luce, giù nell’ombra il greto del fiume, in mezzo, simile a uno spalto saliente e verde, la pianura, ed era

sovr’essa il cielo terso come smalto. (vv. 1-12)

Con un progressivo allargamento dello sguardo, partendo dalla trifora che orna la fac- ciata del castello di Spilimbergo, Nievo introduce l’immagine di Irene, intenta al «con- sueto lavoro», ossia a dipingere, come si apprende ancor più chiaramente nei versi suc- cessivi. Il «capo biondo» ricorda effettivamente i «capei d’oro» di Laura, una sorta di retaggio che si riallaccia alla poesia che aveva celebrato Irene nel Cinquecento. Tutta- via, il tono è decisamente diverso, poiché qua si avverte subito la malinconia di stampo soprattutto leopardiano. La trifora che splende sulla parete nera riflette l’immagine della primavera in una splendida giornata di maggio quasi giunta al termine: è un’immagine iniziale felice e spensierata, ma nella seconda strofa la tristezza non tarda a insidiare questo quadro sereno. All’aggettivo «raggiante» della prima terzina corrisponde in mo- do quasi speculare quel «moribondo» posto proprio in chiusa di verso, riferito con un

enjambement al «sole di maggio» che apre la terzina successiva. Anche l’uso

                                                                                                               

349 Alcune note, non si comprende se di mano dello stesso autore, accompagnano i testi e riportano cenni

storici in riferimento ai luoghi o personaggi menzionati all’interno della poesia.

dell’imperfetto rende bene la vaghezza e la malinconia del ricordo del tempo passato. L’atmosfera della sera e del tramonto, seppur considerata un momento quasi magico, rappresenta comunque la fine della giornata. Risulta fin troppo spontaneo il parallelo con Leopardi, che proprio in A Silvia “rimembra” l’età della giovinezza giunta al suo termine, di cui proprio la donna è il simbolo: anche nel canto leopardiano è maggio e la fanciulla intenta ai suoi lavori diffonde tutto intorno la sua voce, mentre ancora felice- mente rivolge il pensiero al proprio futuro. In una posizione simile Irene, con lo sguardo sulla tela, cerca di imprimervi e riprodurvi la bellezza della natura che la circonda:

E levò gli occhi Irene: quella vera e viva luce di tramonto, o quella serenità diffusa della sera,

che così dolce all’anima favella, su la tela fissar! Pinger l’incanto,

che ad ogni istante in ciel si rinnovella! (vv. 13-18)

La quiete della sera genera ancora una volta suggestioni e ricordi leopardiani. Tuttavia, nella serenità del paesaggio si insinua nuovamente il presagio della brevità del momen- to e della vita:

Il pennello depose. Avea di pianto umido il ciglio, dentro al cuore anelo le palpitava di bellezza un canto,

mentre di stelle si accendeva il cielo.

La fanciulla depone il pennello e il gesto appare come un segnale: la consapevolezza di essere predestinata alla morte è confermata dalle lacrime che bagnano le sue ciglia e che aggiungono definitivamente un sentimento di rassegnazione ai versi finali della poesia. Anche nel Carrer a Irene sfuggivano i pennelli dalle mani ed era il segnale del compiersi dell’inevitabile destino. Il suo canto non è come quello «perpetuo» di Silvia, che riem- pie le vie e le stanze silenziose e che esprime ancora la spensieratezza. È la voce di chi contempla la vita, ma sa di essere destinata alla morte.

La rielaborazione poetica del mito letterario della giovane di Spilimbergo sembra chiudere il cerchio aperto dalle Rime del 1561, dalle quali certamente i versi del Nievo

mostrano tutta la loro lontananza: i motivi della poesia di stampo petrarchista, che ruo- tava attorno agli iperbolici accostamenti fra Irene e le divinità antiche, che mostrava la Natura e i suoi elementi sconvolti dalla morte di un così raro esempio di virtù, che si nu- triva dei topoi più comuni della poesia contemporanea e che raramente mostrava una sincera commozione per la sorte della giovane donna, sono scomparsi. La vita della na- tura circostante si mostra nella sua bellezza, ma continua il suo corso, mentre Irene è vittima del destino dell’uomo. Come Silvia «da chiuso morbo combattuta e vinta», an- che il fiore di Irene sarà reciso al «limitare di gioventù».

È interessante notare come la ripresa da parte dello scrittore padovano sia definiti- vamente staccata dal contesto: Irene appare come in un sogno, l’unica indicazione tem- porale è quella del mese e del giorno giunto al tramonto, ma non c’è alcun riferimento agli elementi della realtà storica. Le coordinate spaziali si limitano invece a mostrare il paesaggio friulano che circonda Spilimbergo, luogo dell’infanzia e della prima adole- scenza di Irene, una fase della sua vita, prima della partenza per Venezia, che rimane ef- fettivamente sfuggente, per la quale anche i riferimenti biografici si limitano a pochi aneddoti tramandati dalla vita cinquecentesca. Il nome di Irene compare, ma la sicurez- za del personaggio di riferimento si ha solo grazie al titolo. Non c’è più l’attenzione per la realtà che si mescola alla fantasia, non c’è più alcun interesse per l’esempio di virtù femminile: pur raffigurata nell’atto di dipingere, la giovane donna viene comunque mo- strata nella sua completa umanità, sganciata da qualsiasi elemento sociale e storico, pre- sentata unicamente come immagine di una giovinezza perduta.