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CAPITOLO 1: LA DIDATTICA DEL PARLATO

1.3. P OSSIBILI CRITICITÀ NELL ’ ACQUISIZIONE DELLA PRONUNCIA L2

1.3.2. Età e “periodo critico”

Si può provare a riflettere su questa domanda: quando è meglio iniziare a studiare una lingua straniera per raggiungere un alto livello di padronanza? Probabilmente, la risposta più comune sarebbe “meglio iniziare da bambini”, giusto? Perché, in realtà, l’idea generale è che, se si vuole davvero imparare a fare bene qualcosa, qualsiasi cosa, è

sempre meglio iniziare da quando si è piccoli. Forse sarà capitato a chiunque di pensare

di voler imparare a disegnare quando fino a quel momento non si aveva mai nemmeno preso una matita in mano, o di iniziare a suonare uno strumento senza avere nessuna conoscenza di musica, oppure ancora di iniziare a praticare un altro sport perché ci si era stancati di quello praticato per anni e forse, in questi momenti, si finisce per pensare “no,

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ormai è troppo tardi” o “dovevo iniziare prima”. Inconsapevolmente, siamo un po’ tutti forgiati dell’idea che “da bambini è meglio”. E così, anche per l’apprendimento delle lingue straniere. Quello che non tutti sanno è che questa idea non nasce per caso, ma ha anzi radici ben precise nelle parole di Eric Lenneberg (1967) il quale suggerì l’esistenza di un periodo critico, una finestra temporale superata la quale l’acquisizione di un determinato comportamento linguistico risulta impossibile a causa della perdita di plasticità cerebrale: con l’avanzare dell’età il nostro cervello diverrebbe quindi sempre più soggetto alla lateralizzazione, un fenomeno che implica il trasferimento di determinate funzioni ad aree cerebrali diverse da quelle originariamente ad esse destinate (Guglielman 2014). Nel caso specifico delle lingue, se da una parte il bambino utilizzerebbe entrambi gli emisferi, una volta adulto avrebbe invece perso questa capacità di usarli simultaneamente e utilizzerebbe soltanto quello sinistro, avendo maggiori difficoltà nel momento stesso in cui si affaccia allo studio di una L2 (Thompson, Gaddes 2005).

Molte ricerche si sono susseguite intorno a questa teoria del Critical Period

Hypothesis (CHP) e molte condividono l’idea che dopo un certo periodo di maturazione

per l’adulto non sia più possibile raggiungere una native-like proficiency nella L2, lo sforzo per apprendere le caratteristiche della L2 sarà maggiore rispetto a quello fatto per la L1 e, infine, i meccanismi utilizzati per apprendere la L2 saranno diversi da quelli impiegati per la L1, dimostrando sempre un declino nelle potenzialità dell’individuo (Cook, Singleton 2014). Tale declino, però, non è lo stesso per tutte le abilità linguistiche: alcuni studiosi, tra cui Seliger (1978) per primo con l’idea della localizzazione, affermano che non esista un solo ed unico periodo critico bensì molteplici (Multiple Critical Period

Hypothesis), ognuno per ogni differente abilità (Bongaerts et al. 1997; Singleton, Ryan

2004) e la prima che si andrebbe a perdere è proprio quella per acquisire una corretta pronuncia. Piske, MacKay e Flege scrivono:

The first ability to be lost would be the one needed to develop a native-like pronunciation of an L2. Individuals who began learning an L2 before the end of the CP for speech learning would have a much better pronunciation than would individuals first exposed to the L2 after the end of the CP. (Piske, MacKay, Flege 2001: 195)

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Scovel (1988) dichiara che questo accade perché la pronuncia è il solo aspetto della lingua che ha una base neuromuscolare e se non veniamo velocemente esposti alla L2 saremo sempre riconosciuti e identificati come stranieri (cit. in Bongaerts et al. 1997).

Incerto, però, risulta definire quando termini questo periodo critico e, quindi, entro che tempo l’individuo dovrebbe teoricamente venire esposto alla lingua per impararla in modo davvero efficace: Patowski (1990) indica 15 anni, Scovel (1988) 12 anni, Long (1990) addirittura dopo soli 6 anni di età (cit. in Piske, MacKay, Flege 2001). Ad ogni modo, tutti sono d’accordo nel pensare che ruoti sempre intorno all’età della pubertà. Due dei casi più famosi che vengono riportati per dimostrare il CPH sono sicuramente quelli di Victor e Genie. Il primo, un bambino che venne ritrovato nelle foreste francesi nel 1799, all’età di 12 anni, selvaggio e apparentemente senza aver mai avuto contatti con altri esseri umani. Venne preso sotto la custodia di Jean-Marc-Gaspard Itard, un dottore che decise di prendersi cura di lui e che per cinque anni cercò di aiutare Victor a capire cosa gli fosse successo e ad insegnargli a parlare; se per il primo ci fu qualche risultato, per il linguaggio invece si registrò davvero poco successo. Dall’altra parte, Genie, una bambina ritrovata all’età di 13 anni dopo aver passato una vita rinchiusa in una stanza piccola e buia, legata a una sedia e costretta dal padre a non parlare né con la madre né con il fratello, picchiata ogni qualvolta facesse un rumore; Genie venne seguita da molti professori e terapisti, tra cui Susan Curtiss, e nonostante grandi progressi nella socializzazione, per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio, dopo cinque anni di esposizione e studio, il suo non era come quello di una bambina di cinque anni ma anzi si notavano moltissime lacune (Lightbown, Spada 2015).

Nonostante l’evidenza di uno sviluppo non particolarmente significativo per i due bambini, Lightbrown e Spada (2015) sottolineano come questi due casi siano alquanto estremi e inusuali ed è azzardato affermare che proprio questi possano essere una prova certa dell’esistenza di un periodo critico poiché le problematiche riscontrate potrebbero essere state date da danni o ritardi cerebrali o anche da una specifica disabilità nel linguaggio presente anche prima di essere stati isolati dal contesto sociale. Altri studi (Oyama 1976; Patkowski 1980; Long 1990), quindi, sono stati necessari. Oyama (1976), ad esempio, esamina la performance di un gruppo di 60 immigrati italiani arrivati negli Stati Uniti in un range di età dai 6 ai 20 anni (age of arrival). L’indagine si divideva in due parti: leggere ad alta voce un piccolo paragrafo in lingua inglese e, successivamente,

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raccontare un episodio spaventoso della propria vita. Gli informatori sono stati giudicati sul loro accento inglese da due parlanti nativi americani che hanno analizzato, per ognuno, un sample di 45 secondi usando una scala da cinque punti da no foreign accent a heavy

foreign accent. Oyama riassume i risultati della sua ricerca con:

The relationship between age at learning and degree of accent has been established for these subjects. [...] The youngest arrivals perform in the range set by the controls, whereas those arriving after about age 12 do not, and substantial accents start appearing much earlier. (Oyama 1976: 272)

Secondo l’autore, quindi, l’età è un fattore determinante per l’acquisizione corretta della pronuncia L2.

Gli studi, però, non si sono fermati qui e se da una parte ne abbiamo molti che confermano la teoria del periodo critico, dall’altra parte altrettanti (Snow, Hoefnagel- Hoihle 1978; Elliott 1995; Bongaerts et al. 1995; Bongaerts et al. 1997; Bialystok 1997; Bongaerts, Mennen, Van der Slik 2000; Abu-rabia, Kehat 2004; Kinsella 2009) la confutano dimostrando che un miglioramento è possibile nei vari ambienti linguistici, compreso quello della pronuncia, e che non si può parlare di una assoluta barriera biologica uguale per tutti; il cervello è abbastanza plastico per l’apprendimento anche superata una certa età. Bongaerts, Mennen e Van der Slik (2000) hanno ad esempio condotto uno studio su un totale di 40 soggetti, 10 parlanti nativi olandesi come gruppo di controllo e 30 studenti di livello avanzato di età compresa dagli 11 ai 34 anni, residenti in Olanda, chiedendo loro di leggere 10 frasi in lingua olandese che sono state poi analizzati e giudicate da 21 nativi di età media di 43 anni, 11 di cui insegnanti. La scala di valutazione andava anch’essa da 1 (very strong accent: definitely non-native) a 5 (no

foreign accent at all: definitely native) punti. I risultati mostrano che 11 dei 30 studenti

hanno ottenuto un punteggio superiore a 4, in linea con quello dei 10 parlanti nativi e che quindi, nonostante l’ormai superato periodo critico, il raggiungimento di una native-like

proficiency è possibile. Avery e Ehlrich (1992) aggiungono che il degree of accuracy

varia da persona a persona e questa discrepanza tra livelli indica proprio che il tempo in classe può essere utilizzato per acquisire una corretta pronuncia (cit. in Gilakjani, Ahmadi 2011).

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