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La ragione è molto più affidabile delle emozioni o dei desideri, ma sono i sentimenti che, la maggior parte delle volte, determinano le nostre scelte.

Michela Marzano

Abbiamo pensato di confrontarci sulle emozioni nei luoghi di lavoro perché, dopo anni di consulenza alle organizzazioni, abbiamo iniziato a credere che spesso il fattore intangibile ma determinante lo sviluppo, la crescita e il clima siano proprio le emozioni. Determinanti e intangibili ma anche disconosciute, rinnegate, taciute.

E allora come approcciare il tema? Come esplicitarlo? Abbiamo deciso di procedere per step e questo librino è sicuramente il primo passaggio ma non l’unico: il percorso di riflessione, di approfondimento e di intervento

7Sociologa di formazione, è socia fondatrice di Excursus e docente di Sociologia urbana presso il Politecnico e l’Università Cattolica di Milano.

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procede nelle organizzazioni nelle quali quotidianamente operiamo e all’interno dell’équipe di Excursus8.

Le emozioni sono un territorio, apparentemente periferico, non riportato negli organigrammi delle organizzazioni ma non per questo insignificante nel ricoprire un ruolo cruciale, nel giocare partite di cui a volte non abbiamo consapevolezza, che intravvediamo ma neghiamo. Sono un territorio popolato e in quella che è la mia esperienza, a fronte di un’apparente perifericità, sono il non detto che muove, smuove e promuove le organizzazioni. Non la periferia bensì il centro.

Come consulente ma anche come ricercatrice mi piacciono le periferie, le zone d’ombra9, i non detti: so che lì si annidano elementi che possono aiutarmi nel districare situazioni complesse, nell’entrare in empatia con l’altro, nell’analizzare la realtà così com’è oltre le sue rappresentazioni.

Utilizzo queste parole del premio Nobel per la letteratura Kenzaburo Oe10 per evocare metaforicamente il ruolo delle emozioni: periferiche ma centrali, immateriali ma tangibili, invisibili ma determinanti.

Sono nato in una piccola isola, e il Giappone stesso si trova in una zona periferica dell’Asia.

I nostri illustri colleghi pensano che il Giappone sia il centro dell’Asia, anzi, segretamente pensano che il Giappone sia il centro del mondo. Ho sempre

8A tal proposito ringrazio in particolare la mia socia Maria Chiara Cremona.

9 Cfr. R. Bly, Il piccolo libro dell’Ombra. Alla scoperta del nostro lato oscuro, Red Edizioni, Como 2003.

10 Intervista rilasciata il 14 aprile 1999 all’Università di Berkeley; lo stralcio è stato ripreso in Kenzaburo Oe, Note su Hiroshima, Alet Edizioni, Padova 2008.

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detto che sono uno scrittore di periferia – di una città periferica, di un Giappone che è periferia dell’Asia e del nostro pianeta.

Lo dico con orgoglio. Perché la letteratura deve essere scritta andando dalla periferia al centro, solo così possiamo criticare il centro. Chi sta nel centro non ha niente da scrivere. Dalla periferia, possiamo scrivere la storia degli uomini, e questa storia può esprimere l’umanità che vive nel centro.

Quando parlo di “periferia” parlo della fede più importante che io abbia.

Ci sono emozioni che rimangono sulla soglia delle organizzazioni, emozioni che ciascuno porta con sé e che lascia in quella zona liminale che - spesso con chiarezza spesso confusamente - distingue la sfera professionale da quella famigliare.

Ci sono emozioni che non possono rimanere sulla soglia, che entrano prepotentemente negli spazi professionali, che ne investono ogni angolo: si insinuano nelle relazioni, nella programmazione, nei progetti e nei budget.

A volte perché vogliamo che così sia altre volte perché non ne possiamo fare a meno: è così e basta.

Ci sono emozioni, infine, che nascono proprio nel contesto lavorativo, per contaminazione ma anche per semplice reazione; sono strettamente connesse alla comunicazione, alle relazioni fra colleghi, alla capacità generativa e motivante dell’organizzazione. Sono elementi interstiziali che determinano fortemente il clima fino a definire il piacere o la fatica di stare in un contesto, di lavorare in esso, di collaborare con i colleghi, di essere propositivi oppure semplicemente passivi.

È su quest’ultime emozioni, quelle che il contesto di lavora genera, che desidero soffermarmi.

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Per il tipo di lavoro che svolgo nelle organizzazioni, quando affianco con la consulenza processi formativi, di cambiamento, di consolidamento, di superamento di alcune criticità, le emozioni che vedo affiorare sono spesso amare e distruttive: paura, risentimento, sconforto, delusione…

Il piacere, la fiducia, la felicità sono esperite quasi esclusivamente in quei contesti nei quali c’è un forte riconoscimento delle competenze, nei quali l’ascolto e il confronto sono considerati strategici, dove la crescita dell’organizzazione è strettamente connessa a quella delle persone che ne permettono l’esistenza e lo sviluppo. Organizzazioni nelle quali ogni dipendente o consulente si veda riconosciuto il proprio status di collaboratore attraverso un contratto.

Dalla mia esperienza non è l’identità e/o la mission di un’organizzazione che determinano al proprio interno l’emergere di emozioni generative quanto piuttosto il rispetto, di cui ha scritto Richard Sennet11, per il ruolo che ciascuno ricopre, per le funzioni che svolge, per le competenze che condivide con l’organizzazione e che quest’ultima gli permette di consolidare e di accrescere. Un rispetto che non prescinde la dimensione contrattualistica e che riconosce i valori che stanno alla base di una storia organizzativa. Sono queste le organizzazioni nelle quali esiste una relazione equilibrata e sinergica fra la leadership e il gruppo; non ci sono sproporzioni: la testa non è eccessivamente più grande o più piccola rispetto al corpo e testa e corpo sanno di non essere intercambiabili ma funzionali l’uno all’altra.

11R. Sennet, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, Il Mulino

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Nell’oggi storie professionali brevi nel tempo, sconnesse dalla vita dell’organizzazione nella sua complessità, legate a contratti perennemente occasionali o a partite iva obbligate, non favoriscono di certo emozioni positive e neppure pratiche collaborative: condividere un metodo, come per esempio quello del gruppo di lavoro, presuppone la possibilità di fidarsi, di affidarsi, di avere fiducia. Ma la competizione individuale, la perenne incertezza, il dover negare aspirazioni e desideri professionali, fanno emergere ben altro. Sono spesso le emozioni distruttive a definire il contesto.

Le organizzazioni che producono emozioni distruttive sono anche organizzazioni profondamente malate: in esse le storture (sia strutturali sia congiunturali) impattano significativamente non solo sulla vita dell’organizzazione stessa indebolendola ma anche su quella professionale ed extraprofessionale delle persone che in essa sono impiegate. E più le storture vengono negate (ed è ciò che definisce l’identità patologica e il livello di gravità) e più le emozioni diventano ingestibili: soffocate e nascoste attraverso tentativi maldestri esplodono con tutta la loro virulenza, generando spesso situazioni di non ritorno, provocando fratture con più ricomponibili.

Rimane per me un dilemma definire se sia l’organizzazione malata a generare malessere nei suoi dipendenti o se sia il malessere di un singolo leader a incrinare la capacità produttiva e relazionale dell’organizzazione nella quale lavoro. Il dilemma è un po’ quello dell’uovo e della gallina ma non è su questo che desidero soffermarmi. Piuttosto mi interessa correlare l’incapacità manifestata da alcune organizzazioni (o da alcune sue leadership) nel cogliere la complessità, le contraddizioni, le criticità

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presenti al proprio interno con il tentativo di soffocare qualsiasi moto emotivo. Le emozioni sono vissute come altro da sé, come qualcosa che necessariamente deve stare sulla soglia, come qualcosa di periferico.

Sennonché più vengono emarginate, più vengono tenute fuori, più la fatica e il malessere si radicano e si diffondono.

Leadership anaffettive, che pensano che le emozioni (distruttive o generative che siano) vadano represse (e non gestite), riescono spesso a creare un clima pesante, dove l’individualismo – sofferto e patito molte volte dai dipendenti – diviene il vero metodo di lavoro; in queste organizzazioni la paura e l’indignazione sono emozioni diffuse fra i più e paralizzanti. Tutti coloro che le provano sono concordi nel ritenere che qualcosa non va, che andare al lavoro è faticoso ma non sono in grado di creare resistenze, di trasformare l’indignazione in indignazione etica, in azione collettiva capace di generare comportamenti equi ed equilibrati.

Non sono neppure in grado di condividere la paura, di riconoscere la propria paura in quella degli altri e di tramutarla in azione di collaborazione, di rispetto, di fiducia.

Su due emozioni, in particolare, desidero soffermarmi, leggendole all’interno delle organizzazioni di lavoro e affiancando alcune riflessioni a quelle riportate nei capitoli precedenti di questo librino: indignazione etica e fiducia.

In un contesto nel quale apparentemente la vergogna non esiste più - per lo meno non è più ricondotta alle azioni commesse quanto piuttosto al timore di risultare inadeguati nell’esibizione di sé12 - l’indignazione è

12Cfr. G. Turnaturi, Vergogna. Metamorfosi di un’emozione, Feltrinelli, Milano 2012.

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indebolita; nei contesti lavorativi è sopraffatta dal risentimento e raramente condivisa ed eticamente agita.

Per spiegare cosa intendo con indignazione ricorro a un’immagine utilizzata da due autori già citati, Casaldáliga e Vigil, che affermano: come quando non si può toccare una ferita perché in essa si trova un nervo scoperto e toccando quello si fa trasalire tutto il sistema nervoso della persona, così ci sono realtà e situazioni che aprono, di fronte al soggetto, dimensioni incredibilmente sensibili, essenziali, che compromettono i diritti umani (fra i quali anche quello al lavoro), la cui integrità è necessaria per cogliere il significato della vita. In queste realtà e situazioni ci pare di toccare ciò che c'è di più sensibile nell'esistenza, l'assoluto, ciò che ci riguarda senza possibilità d'appello e che provoca in noi una reazione incontenibile. È un’indignazione che può scaturire da una circostanza o da un’ideologia particolare, ma che viene percepita per il semplice fatto di essere un essere umano, se non la si avvertisse non si sarebbe umani.

L’indignazione muove i suoi primi passi dalla pietà e dalla compassione.

Nelle organizzazioni di lavoro, quelle dove le emozioni sono relegate alle periferie dell’impero, pietà e compassione non sono ammissibili. La stessa cultura della precarietà non favorisce l’indignazione sia per una sottrazione/svalutazione dei diritti sia per tempi di condivisione/compassione che vengono a mancare.

Per indignarsi e perché l’indignazione possa diventare sentimento e azione collettiva è necessario che i singoli abbiano strumenti per leggere la realtà e le sue trasformazioni ma ciò non avviene. Lo spazio nel quale ciò

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potrebbe avvenire è quello della formazione ma il disinvestimento delle organizzazioni su di essa è totale.

E così nelle organizzazioni anaffettive i dipendenti sono spesso feriti a tal punto da essere incapaci di reagire; meglio: l’emozione esplicitata da molti è l’aggressività, preludio alla negazione dell’ascolto e dunque all’incapacità di sciogliere le criticità, di trovare strade alternative e creative, di favorire uno sviluppo complessivo dell’organizzazione e non solo di alcune parti di essa.

Altra è la realtà di quelle organizzazioni dove sentimento predominante è la fiducia, autentica. Non il dar credito (secondo la logica del do ut des) ma il dare fiducia è la logica che determina il clima organizzativo, le relazioni professionali e quelle di potere.

La fiducia è un sentimento che non può richiedere reciprocità; come sostiene Michela Marzano, la sua logica è simile a quella del dono; è una logica asimmetrica, cioè che non si può esigere che sia onorata, a meno di non snaturarla e trasformarla in qualche cosa d’altro13. In ciò risiede la vera potenza di questa emozione, la sua capacità rivoluzionaria e innovativa.

È sulla fiducia che germogliano progetti sperimentali, che nelle organizzazioni si intraprendono nuove strade per uscire da situazioni di empasse (e sappiamo quanto ce ne sarebbe di bisogno in questo momento), che si consolidano processi generativi in cui le competenze dei singoli crescono tanto quanto cresce la stessa realtà nella quale sono impiegati.

13M. Marzano, Avere fiducia. Perché è necessario credere negli altri, Mondadori, Milano 2012.

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Nel film documentario che Wim Wenders ha girato in onore di Pina Bausch, Pina (2011), fra le tante emozioni evocate e messe in scena (poi donate a noi spettatori) c’è la fiducia, che compare metaforicamente attraverso un esercizio spesso riproposto in contesti formativi: quello di lasciarsi cadere nelle braccia di una persona, nella quale viene riposta la fiducia di essere raccolti prima di finire a terra. Mi lascio cadere e sono fiduciosa perché riconosco all’altro la capacità di prendermi fra le sue braccia. L’altro potrebbe decidere di non accogliermi: in questo sta la sua libertà. La fiducia è dunque un atto di coraggio, un sapere e un volere rischiare coscientemente in qualcosa, in qualcuno.

Nelle organizzazioni in cui si ha fiducia, si investe sulle persone che in essa lavorano, sugli stakeholder, sulle comunità che si incrociano; si investe sul futuro.

Non sempre la fiducia viene ripagata ma questo non impedisce di investire, di muoversi, di cercare.

Distruttive o generative che siano, le emozioni sono attitudini fondamentali della vita, una tensione a muoversi da una situazione verso qualcosa di altro, a portar fuori, a scuotere, a smuovere, come suggerisce la stessa radice latina. Nelle organizzazioni di lavoro devono essere dunque rese visibili, accolte e accompagnate; in esse è possibile individuare la genesi di alcune criticità così come di risorse inesplorate.

Il loro essere fugace le ha spesso rese periferiche ma gli effetti che queste provocano (si pensi per esempio al piacere suscitato dal proprio lavoro) sono intensi e centrali nella vita di ciascuna persona e di ciascuna organizzazione.

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Excursus,

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