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Pagina 2. copertina a cura di Alice Selene Boni. ISBN Prima edizione

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Academic year: 2022

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Copyright © 2012

di excursus. spazio di formazione partecipata srl via G. Biancardi 6

Milano, Italia t/f 02.30919539

info@studioexcursus.com www.studioexcursus.com

copertina a cura di Alice Selene Boni

ISBN 978-88-904288-7-6 Prima edizione

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Le emozioni al centro

Nella vita sociale e nelle organizzazioni di lavoro

a cura di excursus. spazio di formazione partecipata

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5 Presentazione

Ci piace riflettere e offrire spazi di riflessione su quello che incontriamo nel nostro lavoro di consulenza e di formazione all’interno delle organizzazioni:

ci lasciamo provocare dalle persone che incontriamo, dalle dinamiche che percepiamo, dalle relazioni di cui veniamo a conoscenza e di quelle che creiamo.

È così che sono nati - nel 2007 - gli aperitivi fuori tema - occasioni di incontro e confronto pensate come momenti leggeri, come lo intenderebbe Calvino:

La leggerezza [...] si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l'abbandono al caso.

Ci incontriamo per un aperitivo - appunto - leggero, durante il quale dare voce a un ospite che racconta la sua testimonianza a un piccolo gruppo di persone, invitate ad hoc, e apre un dibattito sul tema.

Nel corso del 2011 abbiamo dedicato i nostri aperitivi alle emozioni, nella vita sociale e nei luoghi di lavoro. Il tema delle emozioni e dei sentimenti è centrale nella nostra professione: erroneamente si pensa che investa solo la sfera privata ma, nella quotidianità, travalica la dimensione personale per divenire emozione sociale e per condizionare - positivamente o negativamente - le relazioni nei luoghi di lavoro e di impegno.

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Ringraziamo Angela Fioroni, Stefania Mariani, Elena Parona e Massimo De Giuseppe che all’interno di ogni aperitivo hanno facilitato il confronto attraverso un intervento introduttivo, e tutti coloro che, di volta in volta, sono intervenuti apportando stimoli originali e idee concrete.

Ringraziamo, infine, Alice Selene Boni per la copertina del volume.

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7 Sommario

La felicità: emozione effimera?

Riflessioni sulle organizzazioni a partire da un’opera semiseria sulla felicità

di Stefania Mariani ... 9 Molto piacere. Quando lavorare è un piacere e il piacere è anche lavoro

di Elena Parona ... 19 L’indignazione etica.

Da moto di ribellione ad azione di cambiamento nella società civile di Angela Fioroni ... 27

La fiducia. La danza del vulcano

di Massimo De Giuseppe ... 33 Quando la periferia diventa centro.

Le emozioni nelle organizzazioni di lavoro

di Eugenia Montagnini ... 45

Excursus, una presentazione ... 55

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9 La felicità: emozione effimera?

Riflessioni sulle organizzazioni a partire da un’opera semiseria sulla felicità

di Stefania Mariani

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Tutti gli esseri umani vogliono essere felici; peraltro, per poter raggiungere una tale condizione, bisognerebbe cominciare col capire cosa s’intenda per

“felicità”.

J. J. Rousseau

Lo spettacolo sulla felicità nasce all’aeroporto di Zurigo, dove mi sono ritrovata dopo un viaggio di sei settimane in India: passare dai colori e dai profumi dell’India all’atteggiamento molto frenetico che conosciamo, mi ha fatto un certo effetto per cui mi sono chiesta: ma siamo davvero felici?

Questa domanda non mi ha più abbandonata e dopo alcuni mesi ho confidato al mio regista, Andrea Noce Noseda, che volevo preparare un pezzo sulla felicità.

1 Attrice e autrice, nel 1998 si è diplomata alla Scuola Teatro Dimitri di Verscio (CH) e da allora ha lavorato in diverse produzioni teatrali e compiuto tournée internazionali. Svolge attività come insegnante di teatro. Dal 2003 ha collaborato in qualità d’attrice con la Markus Zohner Theater Compagnie. È autrice di parecchi spettacoli teatrali tra i quali E vissero felici e contenti, di cui è protagonista:

http://www.stagephotography.com/website_actual/pages/teatro.php.

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Costruire uno spettacolo sulla felicità non è facile perché si tratta di un tema soggettivo; inoltre, la felicità è una sfida perché le cose positive non fanno notizia e le cose belle non interessano più di tanto. Ho deciso di accettare questa sfida e mi sono chiesta quale forma trovare per parlare alla gente di un argomento che interessa a tutti e che fa parte delle nostre vite perché la cerchiamo, o perché l’abbiamo o perché la desideriamo.

Siamo partiti con l’idea di costruire la struttura drammaturgica non con una storia ma presentando dei personaggi diversi; a ciascun personaggio abbiamo affidato un aspetto della felicità, un punto di vista, cercando di non dare giudizi e cercando di farlo in una maniera semi-seria. Infatti lo spettacolo si chiama E vissero felici e contenti. Opera semiseria sulla felicità.

Ho ripensato alle favole che leggevo da bambina: tutte finiscono con la frase E vissero tutti felici e contenti, che tra l’altro è un’invenzione cinematografica ma non è presente nelle versioni originali delle fiabe.

Mi sono chiesta - dunque - cosa significa questa frase. Sulla felicità si può leggere tantissimo materiale ma credo che in generale essa faccia paura:

raramente sentiamo una persona dire che va tutto bene e noi stessi parliamo più spesso delle cose che non vanno o che non ci piacciono.

Quando chiedo ai ragazzi nelle scuole cos’è la felicità loro rispondono che essere felici vuol dire vivere senza problemi oppure, i più cinici, sostengono che la felicità non esiste nella vita, esiste solo nelle fiabe.

Per dare vita al personaggio che apre lo spettacolo mi sono interrogata sui luoghi dove andiamo a cercare la felicità e ho preso spunto dal mensile Astra: una rivista composta per metà da pubblicità di medium e

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cartomanti, che dicono cose folli a prezzi esagerati, a cui evidentemente la gente crede perché la rivista continua a essere pubblicata.

Il personaggio si chiama Donna Felicità e lavora in una trasmissione televisiva, in cui vende – appunto - la felicità.

«Sono donna Felicità, io cartomante, veggente, nonché esperta in casi sentimentali, sensibilità transitiva e intransitiva e adesso mi sto collegando con l’ignoto, coi confini di cielo astrale sopra e di terra astrale sotto, busso alla porta dell’undicesima casa. Passatemi le telefonate, chi è in linea? ».

«Sono Giorgio».

«Bene Giorgio, da dove chiami?».

«Da Brescia».

«Bene Giorgio da Brescia, dimmi che problema hai».

«Ecco, io sono molto timido».

«Zitto Giorgio, lo sapevo; anche il famoso re degli Aztecoli Attila l’aveva professato: gli uomini incontreranno difficoltà con la timidezza timida nell’anno del canguro 2010. Vabbè siamo nel 2011, che problema c’è:

2011. Giorgio, ce l’hai un cristallo?».

«Sì».

«Male, li devi comperare: questi cristalli me li diede il mio famoso maestro coso… maestro zen, che visse sulle montagne giapponesi del Tibet nel tempio dei 100 gradini, 123 porte e 2 ascensori laterali. Giorgio, ce l’hai un gatto?».

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«No».

«Bravo Giorgio, piglia il gatto e sbattilo, ficcalo, appoggialo delicatamente sul tavolo poi tu pigli il cristallo e ce lo passeggi intorno una, due fino a precisamente cinque volte - più o meno - e vedrai che l’energia selvaggia dell’animale passerà nell’elemento pietra; e poi tu, l’elemento pietra, te lo ficchi, te lo sbatti, te lo appoggi delicatamente sul cuore con la mano sinistra, la mano del cuore, e vedrai che la timidezza, per cinque minuti d’orologio, ho detto cinque, vedrai che la timidezza svanirà. Timidezza svanita».

Per il secondo personaggio, la professoressa Gluk, ho approfondito alcune teorie sulla felicità.

Prima di tutto la felicità, a livello economico, viene misurata attraverso il prodotto interno lordo – il PIL - ma ci sono luoghi nel mondo, per esempio il Bhutan, dove si parla, invece, di Felicità Interna Lorda – il FIL - perché di fatto ci sono momenti di felicità, che viviamo, ma che non sono compresi nel PIL; sono situazioni in cui non compriamo niente e come tali non sono calcolate: per esempio, quando siamo in famiglia, quando andiamo in montagna, quando stiamo con gli amici guardando il mare, e tanti altri esempi. Quindi la felicità per molti è data da ciò che possiamo comprare, da ciò che possiamo avere. La professoressa Gluk entra in scena con tanti occhiali che mette e toglie in continuazione e dice:

«Attraverso un sistema econometrico il professor Osvald dell’università di Warwick… Inghilterra… cerca di attribuire un valore economico alla nostra attività che ci procura felicità e in generale a tutte le relazioni sociali che influiscono sul nostro benessere; in parole povere, per farvi capire:

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relazione sociale = tot euro. Vuol dire che se, per esempio, noi attribuiamo il valore relazione sessuale settimanale, non so un valore pari circa 37.000 euro, una separazione, invece, ha un valore negativo di circa 133.000 euro, è una teoria dove veramente viene dato un valore a ogni nostra attività, un valore economico, il soldo».

Poi ho considerato la teoria di Maslow che dice che per essere felici bisogna rispondere ai bisogni, prima di tutto primari cioè fisiologici, poi bisogni di appartenenza, di relazione e di amore; all’apice della piramide Maslow posiziona l’autostima.

E la professoressa Gluk dice:

«A scardinare questa teoria del professor Maslow sono intervenuti alcuni scienziati dell’università di Wisconsin i quali hanno trovato l’uomo più felice della terra (ah ah ah ah, l’uomo più felice della terra) un certo Matthiew Ricard monaco buddista, collaboratore del Dalalai, Dalalai, collaboratore del Dalallllamm, del dall…. Dalai Lama».

Matthieu Ricard vive sulle montagne del Nepal, dà in beneficenza tutti i soldi che guadagna con la vendita dei suoi libri tradotti in una decina di lingue ed è considerato l’uomo più felice della terra perché alcuni esperimenti neurofisiologici fatti su di lui dimostrano come la meditazione aiuti a essere felici.

Possiamo anche chiederci come si manifesta la felicità a livello fisico: come facciamo a distinguere una persona felice? Da cosa fisicamente si percepisce che una persona è felice? Dallo sguardo: sorride. Sempre la professoressa Gluck racconta:

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«Secondo la professoressa E. Maio, dove E. sta per Eleonora, Erminia, Ersilia E… ma va bé chi se ne frega, lei dice che è un’accelerazione della frequenza cardiaca, un aumento del tono muscolare e della cutanza cutanea e di una certa irregolarità nella respirazione; inoltre, chi è felice sorride spesso…».

Un altro personaggio è Marzio Galimberti, che per me rappresenta l’uomo occidentale. La situazione teatrale nella quale lo abbiamo inserito corrisponde alla sua prima visita dallo psichiatra. Il personaggio Marzio Galimberti in un flusso continuo di parole racconta di avere tutto quello che si può desiderare: ha una bella vita, ha studiato, è laureato, ha una famiglia, una moglie da 14 anni (con cui sta per festeggiare le nozze di polistirolo, il quindicesimo anno di matrimonio), ha dei figli, ha la macchina, una bella villa alla periferia di Monza, lontano dallo stress della città, ha un’aziendina di 30 dipendenti, non sente la crisi, sta bene. Eppure va da uno psichiatra perché gli manca il senso.

«Ci sono delle mattine che mi sveglio e dico: mah? Mi viene un senso di panico a volte, eppure sono abituato a parlare in pubblico, eppure mi manca... Sto male».

L’incontro dallo psichiatra finisce con una frase di Dostoevskij, tratta da I demoni, sul nostro essere preoccupati di accumulare che però ci fa perdere il senso di tutto:

«Tutto è buono, tutto, l’uomo è infelice perché non sa di essere felice.

Quando lo comprende sarà subito felice, immediatamente, nello stesso istante».

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Il personaggio seguente si chiama Agata ed è un’adolescente che parla con la statua della Madonna che sta portando sulle spalle durante la processione del lunedì dell’Angelo.

Ad Agata affidiamo una narrazione, che è racconto di un evento, di un rito, del fare memoria; nel rito Agata racconta le cose belle, quelle cose piccole a cui non siamo più abituati a dare valore.

Il contesto è quello delle feste di una volta, della memoria delle nonne, momenti intimi e semplici fatti di poche cose. Abbiamo pensato di farla parlare con la Madonna come espediente per aprire alla dimensione spirituale della felicità.

Agata si trova in silenzio e, arrivata al termine della processione, nel momento in cui parte una danza, parla con la statua e dice:

«Mi piace ne, quando vengo lì in silenzio, ti guardo, te mi guardi e hai già capito tutto… perché quando parlo con te…

Ma guarda c’è la pista, dov’è che ga ciapà tutti ‘sti fiori, guarda i ga messo i luci nove, quee colorate... guarda e c’è la batteria.

Madonna, tutto per noi».

Attraverso Agata ci siamo chiesti se a volte la mancanza di felicità abbia qualche relazione con il fatto che diamo tanta importanza a noi stessi; ci siamo chiesti se, per il bisogno di avere tutto sotto controllo, diamo troppa importanza a noi e alle cose che facciamo e di conseguenza non ci riserviamo più neanche lo spazio per individuare le cose semplici che ci possono dare serenità.

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Il personaggio successivo è Vinicio ed è il più tetro dello spettacolo. Per costruire questo personaggio siamo partiti dalla notizia di qualche tempo fa’ che qualcuno ha messo in vendita la sua vita su ebay; ci siamo dunque chiesti cosa siamo disposti a dare per avere successo.

Vinicio entra in scena con una danza e ha una valigia che contiene un album di fotografie, un album di vite fotografate: lui vende vite.

Si rivolge in modo molto diretto al pubblico e dice:

«La vuoi questa vita, questo è Michael, detto Mike, lui va sul wind… surf dalla mattina alla sera; donne, belle donne, cocktail sulla spiaggia, vuoi, vuoi, prendi. Oppure vuoi la vita di… Susan? Susan vive sulle isole Aran, ha un bed and breakfast e un cane e silenzio; la vuoi questa vita? Prendila! O vuoi la vita di Sasha Groneko? Sasha ha denaro, potere, ville a Saint-Tropez e St. Moritz. La vuoi questa vita? Prendila? Io te la vendo».

In cambio, però, lui chiede:

«Mi dai tutte le carezze di tua madre; mi dai tutte le volte che guardi il mare e ti senti infinito; mi dai le labbra bagnate del primo bacio. Io ti vendo questa vita, e in cambio mi dai l’unico abbraccio di tuo padre, forza, prendila questa vita… ».

Ho la sensazione che a volte siamo alla ricerca di emozioni forti perché queste ci fanno sentire vivi. Emozioni però spesso negative, che in alcuni momenti paiono prevalere su quelle positive. A mio avviso, a partire dalle informazioni che riceviamo, per esempio attraverso il telegiornale, c’è un attitudine a evidenziare gli aspetti negativi. Nella quotidianità fa paura dire

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che si sta bene; anche nei luoghi di lavoro è difficile a volte riconoscere, per esempio, che un progetto ha funzionato, che ci sono stati dei progressi.

Penso, in modo esemplificativo, all’intervento di Benigni, che stimo, durante il Festival di Sanremo del 2011: in un momento di grandi difficoltà, non ci ha ricordato le negatività di questo Paese ma la sua bellezza, la bellezza degli Italiani che hanno fatto l’Italia; ha parlato di eventi positivi per farci capire quanto stiamo male, per sollecitare dei meccanismi di reazione. In tutto ciò quello che mi ha colpito è stato questo modo non usuale di portare delle considerazioni al pubblico, questo modo di comunicare.

Per terminare il nostro spettacolo ci mancava un personaggio che potesse unirli tutti e allora abbiamo scelto una vecchietta, una signora che parla in poesia, attraverso delle poesie di Emily Dickinson, che abbiamo frammentato.

Questo personaggio arriva in scena con tutti i costumi addosso; in questo personaggio mi porto tutta la scenografia ed è come se lei portasse con sé tutti i personaggi, tutti gli aspetti della ricerca della felicità che abbiamo affrontato.

La vecchietta parla in poesia e sente le voci, parla con gli oggetti; abbiamo voluto inserire nello spettacolo un po’ di follia, per chiederci implicitamente se nella felicità non ci sia un po’ di follia

«Arturo, una volta che ero distratta – op! - volò da un’altra parte.

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Cosa fai lì, fermo, l’arcobaleno chi? L’arcobaleno non mi dice mai, l’arcobaleno non parla, l’hai mai sentito, l’arcobaleno non mi disse mai che raffiche e tempeste sono finite eppure è più convincente della filosofia…

Signor tal dei tali?… Andrò in cielo, se arrivate prima riservatemi un posto, basta un briciolo solo di corona perché voi sapete che non si bada agli abiti quando si torna a casa…

Arturo?!».

A lei e alla poesia abbiamo dato un ruolo di sintesi: la poesia è una forma bella, le parole della poesia sono vicine ai sogni, vicine a qualcosa che in qualche modo ci proietta verso la felicità.

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19 Molto piacere.

Quando lavorare è un piacere e il piacere è anche lavoro

di Elena Parona

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Il cuore chiede il Piacere – dapprima.

Emily Dickinson

Quale valore si dà nella nostra società al piacere? Spesso si relega il piacere a qualcosa ancora da raggiungere; una parte di noi vive il piacere come la possibilità di isolarsi dalla realtà di tutti i giorni. Tuttavia, chi cerca il piacere nelle cose che fa tutti i giorni e non demanda il piacere a qualcosa che riguarda il dopo, non può più vivere diversamente.

D’altra parte, è giusto che ci sia un ambito del piacere che si stacchi dal lavoro, per esempio per godersi la famiglia, per godersi dei momenti di intimità e di piacevolezza con i propri figli o il proprio partner o con se stessi.

2 Agronoma e titolare dell’azienda agricola La Basia, situata sulle colline moreniche del Garda Bresciano. Elena Parona dagli anni Ottanta produce vini che hanno ricevuto numerosi premi e menzioni, fra questi il Chiaretto La moglie ubriaca premiato dall’Ordine dei Castellani del Chiaretto.

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Credo che i livelli di piacere possano essere diversi, così come diverse sono le esperienze che ci danno piacere; bisogna sempre avere rispetto del piacere di ognuno.

Penso si possa vivere un’esperienza di piacere anche nel proprio lavoro e non mi riferisco solo alla mia esperienza che in parte si svolge in campagna a contatto con la natura; ovviamente vivere e lavorare a contatto con la natura dà piacere: per esempio vivere il susseguirsi delle stagioni, veder nascere e crescere le piante o gli animali, la tranquillità di un tramonto, il silenzio del caldo estivo, la frescura dell'alba con i suoi vivi colori di un giorno che nasce sul lago... Tutte queste sensazioni sono strettamente legate a momenti di lavoro e riempiono il cuore di piacere. Vorrei affermare però che questo piacere lo si può trovare in qualsiasi lavoro, indipendentemente dall'ambito o dal luogo ove si opera, ed è legato a come si affronta ciò che ci troviamo a fare e alla soddisfazione che possiamo trovare nel realizzare un nostro progetto, anche se ciò è costato fatica o anche delusione.

Innanzitutto direi che il piacere del lavoro non è necessariamente un elemento costante nel tempo, perché nel percorso professionale di ognuno ci sono tante delusioni, tante fatiche e difficoltà e questo si verifica anche quando il lavoro dà soddisfazione. Quindi, le difficoltà sono parte integrante di questo cammino che si accompagna al piacere.

Per quanto riguarda la mia esperienza, dal momento che parliamo di vino, potrei partire dal piacere di osservare come cresce una vite, come arriva a maturazione un frutto, oppure il vedere i grappoli appesi come pitturati uno di fianco all’altro che maturano tutti assieme; il piacere di avere dato un ordine al vigneto e di constatare che il lavoro svolto ha funzionato.

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Oppure può emergere la mancanza di piacere, un disappunto nel rilevare che non si sono operati interventi sufficienti per ostacolare i danni legati a condizioni metereologiche avverse, si sono commessi degli errori nel trattare una vite.

Se parliamo di Chiaretto3, ritrovo un’emozione di piacere ogni qualvolta, terminata la fermentazione, lo si travasa e dopo due o tre giorni si comincia a vedere che in superficie diventa limpido, mentre sotto rimane opaco; questa limpidezza è il primo segno che il processo produttivo è corretto, che il vino si sta formando, che i profumi si dovrebbero pulire e il gusto raffinare. Un altro momento di grande piacere è quando lo assaggio e penso: «Ci siamo». Sento il piacere dei gusti freschi, puliti, in ordine, la fragranza del frutto che è stata trasformata in succo; mi viene evidente che ho saputo valorizzare il lavoro di tutto un anno e il mio operato ha permesso di fermare tutto il buono che la natura mi ha messo a disposizione; rimane comunque la trepidazione che non siamo ancora alla fine del processo e da quel momento a quando il vino va in bottiglia possono accadere tante cose, si deve ancora lavorare molto. Tuttavia, non posso fare a meno di sentire il piacere di vedere che le cose funzionano.

Queste sono le emozioni legate al mio lavoro.

Poi ci sono anche aspetti più complessi, legati per esempio all’essere donna imprenditrice, produttrice di vino, un ruolo insolito.

Può essere utile un esempio per approfondire questa affermazione. Il segretario di una confraternita locale denominata Castellani del Chiaretto,

3 Garda Classico Chiaretto,vino rosato DOC tutelato dal Consorzio Tutela Vini Bresciani.

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che conosce e frequenta la nostra Azienda, ha sempre interloquito con mio marito senza mai considerare me. È venuto recentemente a prendere alcune bottiglie di Chiaretto per un’occasione conviviale della confraternita. Quando è arrivato, mio marito era impegnato in cantina mentre io ero in ufficio: pur trovando me lì a disposizione, ha sentito la necessità di andare a cercare mio marito per comunicargli che prendeva le bottiglie. Questa diffidenza nei confronti del ruolo della donna non mi ferisce, mi fa sorridere, mentre forse ci rimane peggio mio marito perché sa che il lavoro lo svolgiamo insieme.

Io mi sento molto considerata da mio marito, lui sa che questo è il mio lavoro, mi considera l'artefice, ma non per tutti è così.

È molto importante per me (anche questo è piacere) la presenza di mio marito, lui ha un ruolo molto importante al mio fianco, sia perché mi aiuta proprio nelle fasi decisive del mio lavoro. Per esempio, tornando alla produzione del Chiaretto, quando dobbiamo spillare il mosto dalla vasca con le vinacce e si deve cogliere il momento giusto, osservando il colore e annusando i profumi, siamo io e lui. Mio marito mi fa da spalla prima di tutto perché di solito quest’operazione cade durante la notte, e poi perché in due ci si supporta nelle decisioni, e poi perché io penso di aver sempre avuto al fianco una persona che ha riposto in me una grande fiducia, e questo mi ha permesso di crescere e di superare tutte le mie incertezze.

Tornando alla questione dei ruoli, c’è difficoltà nel mondo rurale nell’accettare che una donna sia capace di svolgere un lavoro che siamo abituati ad ascrivere a un uomo.

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Penso però che a volte la sensibilità femminile possa dare dei valori aggiunti anche in questo campo; certamente non riesco a essere completamente autonoma e la presenza dell'uomo è indispensabile, però per me è stata fondamentale nella mia esperienza di lavoro il mio ruolo diciamo di casalinga: io mi trovo molto spesso a comportarmi sul lavoro nello stesso modo in cui mi sono comportata in casa per tanti anni, quando facevo più la mamma di famiglia piuttosto che la produttrice di vino. Non dico che sia esattamente la stessa cosa, però credo ci sia una similitudine tra il cucinare ciò che piace al proprio bambino o marito, e il gusto di fare un prodotto che deve piacere (e che piaccia prima di tutto a se stessi), perché è ovvio che nella nostra cucina portiamo i sapori che piacciono a noi. Il modo di fare le due cose non è uguale però ci metto la stessa passione, lo stesso piacere. Posso dire questo perché ho una famiglia abbastanza grande e una cantina abbastanza piccola.

Un altro tipo di piacere legato alla produzione del vino è scegliere di trattare in modo differente il prodotto a seconda dell’annata, imparare a costruire il mio lavoro, il mio intervento su quello che la natura mi mette a disposizione

Il mio approccio - e ho trovato un enologo che mi segue in questo - è quello di prendere ciò che la natura offre - così com’è - e cercare di lasciarlo quasi intatto, di lavorarlo il meno possibile, rispettando tutti i criteri possibili di qualità, insomma ottenendo il massimo da ciò che abbiamo a disposizione.

Non penso sia diverso il ruolo di un qualsiasi educatore o psicologo o datore di lavoro (o altro ancora); bisogna partire dalla materia prima e capire come valorizzarla al massimo nella sua naturalezza; sei tu che ti devi

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muovere per non cambiare la sua conformazione e imprimere un equilibrio il più naturale possibile.

Facendo un parallelo in ottica pedagogica, con un tale approccio si scopre il gusto di accompagnare una persona (o un vino) e condurla a essere quella che è, facendogli fare un cammino personale non stravolto dall’esterno.

Capitano delle annate in cui le condizioni climatiche non ti permettono di avere un prodotto di eccellenza, ecco io penso sia importante accettare il limite della natura; il prodotto eccezionale lo fai quando parti da un'annata eccezionale (e avrai un grandissimo piacere) altrimenti penso sia di soddisfazione poter affermare che ottieni un prodotto buono, corretto e amato anche se il risultato è un vino più semplice, ma piacevole e sopratutto naturale.

Credo che sia lo stesso piacere che proviamo tutti noi in quello che facciamo, nei rapporti con le persone oppure nel nostro lavoro.

Quando in ambito di lavoro e di coordinamento di un gruppo ho la possibilità di spiegarmi in modo chiaro, dare degli input senza impormi, vedere che ho lasciato la libertà di azione all’altro pur avendo comunicato ciò che è importante, per me è un grande piacere. Posso ancora parlare di piacere quando si riesce a creare un clima di serenità, un clima di affiatamento, quando accetti di svolgere il tuo lavoro con le capacità che hai a disposizione senza voler forzare a tutti i costi la situazione, le forzature sono sempre controproducenti; faccio un esempio: in occasione dell’organizzazione di una manifestazione enogastronomica locale - per noi molto importante - ho detto a mio figlio che per me l’elemento fondamentale era quello di cercare di arrivare sereni all’avvio della manifestazione. Anche se non arrivi a presentarti come avevi nella tua

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mente, se c’è un dettaglio in meno, un qualcosa che ritenevi utile e cui non sei riuscito ad arrivare, per me l’importante è aver voglia di trasmettere quello che per noi è importante: trasmettere il nostro gusto e la nostra passione; se viviamo il momento della preparazione di un evento in modo teso e arriviamo stressati, rischiamo poi di trasmettere ansia alle persone che accoglieremo, e probabilmente per tutto il giorno non aspetteremo altro che finisca la giornata, ma questo inevitabilmente sarà percepito da chi si relaziona con noi.

La società odierna non aiuta a riconoscere il piacere, se non quel piacere individuale, egoistico, al quale si fa fatica a rinunciare.

Se guardo alle cose alle quali devo rinunciare, allora butto all’aria tutto. Io sto rinunciando a tante cose ma penso che sia importante accettare fino in fondo quello che facciamo nella vita; accettarci per come siamo, volerci bene con le nostre rabbie, con i nostri limiti. Certo non sempre è facile:

quando l’anno scorso, da un giorno all’altro, mi è marcita l’uva, e ho dovuto eliminare il 30 % del prodotto, ciò non è stato facile. È come quando ti capita una disgrazia: la devi prendere, se cominci a porti delle domande non cambia nulla; prima forse avresti potuto fare diversamente ma non dopo, una volta accaduto l’evento è inutile dirsi «Avrei potuto…».

La realtà è quella. Se io oggi guardassi all’uva persa potrei non essere contenta ma mi soffermo su ciò che è rimasto nella vasca, e ciò che è uscito è buono. Allora prendiamo il buono: è una filosofia di vita che dobbiamo imparare. Così come accettare ciò che viene, accettare i nostri errori: è la cosa più difficile in assoluto, come attivare un sistema di correzione.

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Ci vuole un sistema, una filosofia di vita che, a fronte di ciò che accade, renda la vita piacevole. In questo il lavorare a contatto con la Natura ti dà una mano, nell’accettazione e nei correttivi: se, per esempio, viene una grandinata, non puoi far nulla, perdi tutto e non puoi metterti a imprecare perché non serve a niente.

Ecco per me anche questo fa parte dell’imparare a sperimentare il piacere:

un piacere da vivere prima di tutto in prima persona e poi da trasmettere a chi ci sta intorno, con la capacità di coglierlo ma di saper anche accettare, minuto per minuto, quello che ci compare davanti.

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2 7 L’indignazione etica.

Da moto di ribellione ad azione di cambiamento nella società civile di Angela Fioroni

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Come quando non si può toccare una ferita perché in essa si trova un nervo scoperto e toccando quello si fa trasalire tutto il sistema nervoso della persona, così ci sono realtà e situazioni che aprono, di fronte al soggetto, dimensioni incredibilmente sensibili, essenziali, che compromettono i valori assoluti, la cui integrità è necessaria per cogliere il significato della vita. In queste realtà e situazioni ci pare di toccare ciò che c'è di più sensibile nell'esistenza, l'assoluto, ciò che ci riguarda senza possibilità d'appello e che provoca in noi una reazione incontenibile.

Casaldáliga Pedro e Vigil José Maria

Vorrei cominciare a parlare di indignazione etica a partire da un’esperienza che ho incontrato lavorando nel mondo delle amministrazioni comunali:

nel 2010 ho avuto l’opportunità di operare con un movimento di genitori di bambini del nido, della scuola materna e della scuola elementare della città di Milano; una realtà eterogenea e multiculturale, molto impegnata e intelligente.

4Segretaria di Legautonomie Lombardia, si occupa di attivare gruppi di lavoro fra amministratori che desiderano sperimentare modalità più ricche e articolate di confronto con i propri cittadini. È stata sindaco di Pero (MI) dal 1997 al 2007.

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Nel movimento di genitori ho colto il ruolo dell’ironia come trait d’union tra l’indignazione come emozione e l’indignazione che diventa generatrice di nuovi modi di essere, che diventa costruzione di nuovi mondi possibili.

Alcuni gruppi di genitori si sono fortemente arrabbiati con il Comune di Milano perché non li ascoltava, li trattava male e li accusava di inventarsi i problemi affermando, invece, che nelle scuole tutto funzionava perfettamente; allora i genitori hanno costruito un sito - Cascina Farlocca -, e hanno fatto un’operazione leggera e ironica, simile a quella narrata da Orwell in La fattoria degli animali: riportando in esso tutto ciò che succedeva nelle scuole dei figli, come se fosse successo nella cascina orwelliana.

Successivamente, questi genitori – indignati e arrabbiati ma senza canali per esprimere la loro indignazione e la loro rabbia - hanno organizzato riunioni, prima nelle scuole e poi nella sala Corridoni della Provincia di Milano (che, pur avendo 500 posti, è risultata non essere sufficientemente grande), per denunciare la situazione e per proporre concrete soluzione ai problemi.

L’organizzarsi intorno alla costruzione del sito della Cascina Farlocca ha anticipato ciò che è successo nella campagna elettorale di Pisapia a Milano.

Quando l’allora candidato sindaco è stato attaccato dalla Moratti nel confronto su Sky, la situazione poteva degenerare; invece, i sostenitori di Pisapia hanno reagito inventando delle lunghissime filastrocche ironiche nelle quali hanno scaricato tutta la rabbia che avevano dentro; a quel punto l’indignazione è diventata generatrice di un voto e di nuovi comportamenti.

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Infatti, mi auguro, e per quello che posso lavorerò in questa direzione, che i comportamenti che si sono creati in questo periodo restino generativi e non si trasformino in comportamenti aggressivi, di sfiducia o di eccessiva richiesta. Ciò che di più bello è successo durante la campagna elettorale 2011 a Milano è stato vedere la piazza sorridente che ha abbandonato la consueta carica di rabbia, di tensione, di oppressione, di non ascolto.

Spero che questo approccio possa rimanere e ciò dipenderà da una parte dalle risposte che saprà dare il Sindaco e, dall’altra parte, dalla capacità dei milanesi di mantenere questo atteggiamento positivo.

Per quanto mi riguarda mi sono formata nelle ACLI, seguita da don Cesare Sommariva, ricevendo una formazione tutta centrata sul sociale. Come ACLI nel Settanta a Pero abbiamo appoggiato la Democrazia Cristiana che era un gruppo cresciuto all’interno del nostro oratorio ma che, una volta in amministrazione, ha fatto esattamente il contrario di quello che discutevamo insieme.

Allora io con altri sono passata al Partito Comunista, nel quale ho riposto una grande aspettativa: era il partito di Berlinguer ed erano prossime le elezioni del 1975. Mi aspettavo di entrare in un partito nel quale respirare tutto l’entusiasmo che io e i miei amici avevamo; invece, mi sono ritrovata in un contesto in cui la caratteristica di fondo troppo spesso era l’odio nei confronti degli altri, degli oppressori, degli industriali, dei padroni, ecc..

Ricordo ancora un intervento che feci in un’occasione di dibattito:

«Capisco che si possa far politica per odio se uno è stato tanto vittima; ma si può fare politica anche da un altro punto di vista: per amore»; tutti erano allibiti, come se parlassi una lingua non conosciuta.

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Nel 2010 abbiamo lavorato intensamente, come Legautonomie Lombardia, con tante associazioni e comuni per trasformare in positivo la rabbia verso un Governo che ha sostanzialmente destrutturato il nostro Stato, la scuola, la ricerca, l’università, e ha tentato di neutralizzare gli enti locali; a partire dal decreto 112 del 2008 in poi, fino alle manovre finanziarie del 2010 e del 2011 gli enti locali non hanno una risorsa economica su cui poter contare e questo comporta tagli al welfare locale e a tutti gli altri servizi. A seguito di ciò alcuni Sindaci hanno restituito le fasce al Prefetto e hanno organizzato manifestazioni; c’è stata parecchia indignazione, o forse rabbia che è un’emozione ancor più primitiva.

A quel punto abbiamo attivato una newsletter da inviare a tutti i comuni della Lombardia; nel primo numero abbiamo scritto: «Incominciamo noi…». Questo per noi significa che, in quanto amministratori e nonostante i tagli, possiamo fare di più e possiamo fare meglio perché non vogliamo perdere il nostro ruolo e la nostra identità né vogliamo far mancare ai cittadini questo importante presidio di democrazia e di relazione Stato – cittadini, che è il Comune.

C’è una cosa che a mio parere è molto vera: nei momenti di crisi la gente ha bisogno di qualcuno che gli stia vicino e io credo che a livello locale le amministrazioni possano stare vicino alle persone.

Ai nostri piccoli comuni dico che noi siamo la filiera corta degli enti locali e i sindaci dei comuni piccoli sono i sindaci a chilometro zero, perché non c’è nessuno che si frappone tra il cittadino e il sindaco: i cittadini non si recano negli uffici comunali ma vanno direttamente dal sindaco, che deve essere capace di capire quali sono le situazioni dei suoi cittadini e di testimoniare la sua comprensione, la sua vicinanza.

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Con questa iniziativa abbiamo scoperto che c’è un terreno dove è possibile utilizzare l’indignazione come generatrice di modi di vivere nuovi e più belli rispetto all’attuale; occorre però che ci siano spazi di ascolto.

In genere partecipo a tutti gli incontri di formazione che svolgiamo con i dipendenti comunali perché mi interessa ascoltare le loro esperienze.

Ricordo, ad esempio, un corso di aggiornamento dove si parlava del regolamento del codice dei contratti; al termine dell’incontro un uomo mi ha ringraziata, dicendomi che i dipendenti hanno bisogno di comprensione e di stimoli perché altrimenti è difficile trovare energie per lavorare nelle amministrazioni locali.

Credo che, affinché l’indignazione diventi etica e generatrice, occorre che ci siano dei progetti, un futuro da guardare e da costruire; se restiamo schiacciati sull’oggi e sulle rivendicazioni è difficile trovare questa possibilità di crescita.

Ultimamente ho letto dei testi che mi incuriosivano molto perché gli autori cercavano di capire come si sta modificando la personalità dei giovani in relazione al fatto che da un lato ancora oggi il lavoro costruisce l’identità della persona e le dà dignità ma dall’altro lato esso è sempre più precario.

Questo divario, per esempio, agisce sulla percezione che una persona ha di se stessa.

Ho in mente una giovane donna di 38 anni che all’avvio del suo percorso professionale ha avuto subito un contratto a tempo indeterminato in uno studio di architetti; in seguito si è licenziata per fare la libera professionista part-time ma adesso si sente sempre senza un domani. Credo che non si possa vivere così: bisogna superare questa ambiguità perché non si può

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vivere con la perenne sensazione del “chissà che cosa può accadere domani”.

Eppure, anche le persone che lavorano e vivono tranquillamente e possono permettersi di fare delle scelte si sentono addosso la precarietà e temono che le cose possano cambiare da un momento all’altro. Forse bisogna approfondire questo aspetto e creare spazi di supporto a questo tipo di cambiamento che stiamo vivendo.

Ho letto con grande interesse il rapporto annuale del Censis, quello del 2010; in esso viene descritta la condizione in cui si trova la nostra società - che è completamente liquida - e l’infelicità generata da questa situazione.

Penso si debba andare a recuperare la felicità; il rapporto afferma che dobbiamo ritrovare il desiderio, in un mondo in cui abbiamo tutto e ci viene offerto il di più. L’avere tutto fa mancare pulsioni profonde per cui non sussiste più desiderio di cambiare e la società frana fino al punto che anche le idee e i valori, sui quali ci siamo basati - dall’etica ai valori della Costituzione e del lavoro - vengono intaccati.

Se quest’analisi è corretta, l’antidoto è ricostruire comunità dove si possano ricomporre tutti gli elementi del puzzle e dove l’indignazione, così come altre emozioni, possa essere riconosciuta e diventare generatrice di nuove modalità di essere per darci futuro e felicità.

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33 La fiducia. La danza del vulcano

di Massimo De Giuseppe

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Ogni frammento finisce per ricomporsi nel cerchio rosso della memoria che apre le sue ali e s’incammina per una lunga salita curva sulla schiena della montagna, ricordo dopo ricordo, ferita dopo ferita, fino a formare una matassa di nodi intrecciati: una solida corda cui attaccarsi per non perdere l’equilibrio, mentre si sale ciechi.

I respiri vicini la allargano ad afferrare nuove storie, mentre sulla pietra che scotta attendono i chicchi di mais dai colori diversi; mani femminili li hanno custoditi, attente a non ferirli, lungo lo srotolarsi del cammino.

La fiducia e la storia

In alcune regioni centroamericane esiste una bellissima espressione che racchiude il segreto della delicatezza che sopravvive alla violenza: la flor del volcán. Il fiore del vulcano, non casualmente è al femminile, come quelle antiche divinità mesocamericane, la Coatlique o la Tlaltecuhtli, che incutevano timore con le loro tozze corone di teschi e serpenti ma che al contempo, con un silenzioso lavoro sotterraneo, restituivano speranza dalla morte, rigenerando nuove forme di vita e colori. L’espressione

5 Nato a Milano nel 1967, è docente di Storia contemporanea presso l’Università IULM di Milano. Si occupa in particolare di storia dei movimenti sociali, politici e religiosi tra Italia e America centrale. Tra i suoi volumi: Giorgio La Pira. Un sindaco e le vie della pace (Milano 2001), Messico 1900-1930. Stato, Chiesa, popoli indigeni (Brescia 2007), Oscar Romero.

Giustizia e pace come pedagogia pastorale (Brescia 2010) e La cruz de maíz (México 2011). È sposato con Maria e ha tre bellissime bimbe, un cane, una gatta e un pesce.

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racchiude la forza della grazia che si forma in mezzo alle avversità, siano quelle biologiche della natura o quelle economiche o culturali della società degli uomini; è la ricchezza di una terra vulcanica, nera e grassa, che resiste a tutto, ai terremoti, alle conquiste, alle guerre, alle migrazioni, al narcotraffico. Nasce dalla violenza di un’eruzione, portando dentro a sé, insieme a una ferita antica, una fertilità misteriosa. Questa resiste perfino quando viene trapiantata nelle zone temperate dell’occidente, facendo nascere dietro a vetri e finestre di serre lontane un fiore dai colori forti, fucsia, azzurro, rosso fuoco, giallo... un fiore senza compromessi o timidezze.

Non so esattamente perché ma ogni volta che ripenso a questa espressione, la flor del volcán, la associo istintivamente a un altro concetto che racchiude al suo interno sensazioni di forza amorosa e misteriosa, una ricerca di grazia come antidoto alla violenza: la fiducia. Una parola curiosa che è sempre sembrata la parente povera di una sorella etimologica più austera e impegnativa, Fede, con la maiuscola, ma che forse proprio per questo mi ha sempre colpito. Non fraintendetemi, il seme di Fede e fiducia, è comune, così come il segno e il potere, ma la seconda mi è sempre parsa più gioiosa, semplice, diretta; forse meno matura, quasi una sua parente bambina ma proprio per questo meno affermativa e unidirezionale.

Con sincera fiducia non s’intende una semplice e banale benevolenza del gesto, ma una fede minuscola e autentica, un aprirsi solo in apparenza timido, a suo modo deciso, verso l’altro, che è poi l’autentico fondamento dell’amore.

La fiducia è una speranza infantile che cresce nelle avversità, secondo i dettami del motto paolino «spes contra spem», ma che spesso si dimentica

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nella normalità; eppure è il fondamento della storia del mondo, dell’incontro tra l’umano e la natura, tra l’umano e l’animale, tra l’umano e l’umano e, quando riesce, tra l’umano e il divino.

È possibile seguire il senso misterioso della fiducia quando si scavano e tendono i fili della storia? Io credo di sì, perfino nel XX secolo dei grandi paradossi, dei genocidi, dei totalitarismi.

La fiducia come fede, la comunità come città

La fiducia può diventare allora un elemento cruciale per comprendere le trasformazioni della nostra società contemporanea, della cultura e della politica, dell’economia, nelle comunità locali, nella città, nei confini traballanti della nazione, perfino nell’orizzonte internazionale. In questo ci può aiutare un autentico esperto del settore, un padre costituente e un coraggioso sperimentatore di incontri politici e culturali (ma sopratutto umani) «tra diversi», nel suo poliforme laboratorio fiorentino. Si tratta di Giorgio La Pira (1904-1977). Nel 1943, in uno dei momenti più delicati e tragici del secondo conflitto mondiale, reduce dalla latitanza, scrisse un contributo a un testo collettivo intitolato Appello ai fratelli più ricchi tutto incentrato sull’urgenza della ricostruzione della fiducia nell’altro come antidoto per uscire dai momenti più tragici della storia.6 Dalla traduzione lapiriana del concetto di fiducia (per lui inscindibile da una religiosità vissuta prima che dichiarata) emergeva un nesso inestricabile con le idee di solidarietà, responsabilità, impegno e rispetto e quindi una fusione con

6G. La Pira, L. Moresco, D. Lamura, I. Giordani, F. Montanari (a cura di), Appello ai fratelli più ricchi, Elm, Roma 1943, pp. 11-18.

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l’idea stessa di fede, espressa attraverso una concezione del mondo che strideva con tutto ciò che sapeva di razzista, settario, discriminante. La fiducia diventava la pietra angolare della casa comune che si sarebbe dovuta ricostruire ex novo, di lì a poco.

Se si prova a scorrere il percorso lapiriano, nella stagione della costituente e della ricostruzione dell’Italia postbellica, poi in quella conciliare e dell’apertura all’orizzonte globale, si scoprono alcuni elementi di incredibile attualità. Superando con il cuore i confini del Mediterraneo e scardinando dall’interno le logiche del bipolarismo, il piccolo uomo dal cappotto liso ci ricordava che la fiducia si unisce alla fede per dar vita al nucleo indissolubile (e qui sta il suo vero integralismo mai settario e sempre rispettoso della diversità) di una società partecipativa in senso alto.

Di qui il ruolo della città e del cittadino, come erede fiduciario di un bene che non è di sua proprietà ma che dovrà passare alle generazioni future, se possibile più bello e più vivo di quando l’ha ricevuto. La fiducia proietta dunque la comunità nel tempo, oltre che nello spazio. Sulla base della fiducia, La Pira invocava una sorta di New Deal globale (confidando con Keynes nell’effetto moltiplicatore dell’occupazione) e chiedeva ai politici dei due blocchi di credere nei paesi nuovi, a bellicisti e pacifisti di confidare nell’impossibilità della guerra, ai cattolici di non avere paura delle altre religioni (e viceversa), alle istituzioni statuali e multilaterali di valorizzare le città e le loro reti invisibili. Non distruggere dunque ma integrare e ritrasmettere un messaggio che non poteva che essersi arricchito nelle anse del fiume della storia.

Ancora nel 1965, quando la sua stella politica iniziava a declinare, tornando da una travagliata missione diplomatica nel Vietnam affacciato sul baratro

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della guerra, La Pira commentò: «La novità emersa dai nostri colloqui (novità profonda, trasformatrice) è questa: il governo di Hanoi è disposto a iniziare il negoziato (Ho Chi Minh ha detto: “sono disposto ad andare ovunque; ad incontrarmi con chiunque”) senza prima esigere il ritiro effettivo delle truppe americane. Basta riflettere su questa “novità” – una

“concessione” di fiducia e di speranza». La fiducia però non venne curata e la pace scomparve in Indocina per molti anni a venire.

La fiducia e la malattia

Scusate la divagazione ma più cresco e più mi convinco che senza fiducia per la comunità del futuro il passato diventi un luogo inospitale in cui è difficile anche soltanto muoversi. Questo deve essere tenuto presente nel nostro relazionarci con la storia. Ma la fiducia riguarda anche e sopratutto il presente e per questo vorrei fare un breve cenno a un’esperienza che ho appreso da mia moglie Maria. Lei è centroamericana, salvadoregna per l’esattezza, e italiana. Quindi quella flor del volcán la conosce bene, l’ha scritta sulla sua pelle e l’ha portata con sé nel suo piccolo fardello di bambina ferita che lasciava un paese in guerra e lacerato per approdare in una famiglia che la accoglieva amorevolmente. Maria è anche un’infermiera che mette amore e passione nel proprio lavoro. Vivere al suo fianco mi ha insegnato che la fiducia si costruisce quotidianamente in un ambulatorio, in una corsia d’ospedale, perfino in una sala di rianimazione.

Da quando ci conosciamo ha sperimentato diversi luoghi di quel mondo particolare, vicino e lontano al tempo stesso, che è l’ospedale. Che lavori con macchine, strumenti o mani nude, l’infermiere (che ancor più del medico si relaziona direttamente e frequentemente con il paziente) deve

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fondare il proprio lavoro su un requisito essenziale: quello della fiducia.

Deve elargire fiducia al paziente, godere di quella del medico e dei colleghi.

In particolare quando si ha a che fare con malattie logoranti, distruttive o devastanti anche una semplice e routinaria iniezione si può trasformare in un contatto a due, diretto e silenzioso, che necessita di piena fiducia e compartecipazione. Come ben sanno i lavoratori della sanità, quest’ultima non può mai superare certi confini taciti, altrimenti il rischio di lasciarsi travolgere si fa troppo alto e concreto. La fiducia invece deve esserci sempre: solida, concreta e ideale al tempo stesso, quanto può esserlo il gesto dell’affidarsi.

La fiducia che trova un approdo però si allarga, come i cerchi concentrici prodotti da un piccolo sasso gettato nell’acqua e non riguarda solo il paziente ma la comunità viva che lo circonda.

A volte è più facile aprire la propria anima a un estraneo che ti è vicino in un momento particolare, e in questo caso la distanza si riduce proprio sulla base di una fiducia immediata e concreta, senza le pressioni e le costrizioni delle fiducie passate e future. Le prospettive mutano, con le paure taciute e confessate, e gli sguardi si sfiorano.

Una sera Maria mi raccontò l’incontro con un signore indiano (native american) che curava nel suo reparto. La sua era una storia molto curiosa:

era giunto in Italia al seguito di un circo americano. A un certo punto si stancò e decise di fermarsi in Italia. Si stabilì in un paesino dell’Appennino toscano. Per anni fece il contadino, lavorando la terra e con gli animali, prima di migrare a Nord e trasferirsi nell’hinterland milanese. Non so perché, né come fosse approdato a Milano ma in quel reparto d’ospedale, ormai anziano e molto malato incontrò nello sguardo indigeno di mia

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moglie un silenzioso codice di riconoscimento. Succede perfino al più esperto viaggiatore, quando si trova all’estero e incontra un «paesano», anche senza ragioni apparenti, sembra scoprire una sorta di codice di sicurezza. Senza parlare, l’anziano signore indiano e mia moglie si scambiavano commenti, impressioni, si annusavano, si riconoscevano e avevano un’istintiva fiducia l’uno nell’altra. Lui le raccontò la sua storia e altre mirabilie, forse inventate ma piene di gioiosa speranza.

Un sera Maria mi disse che prima che lei uscisse dal reparto il vecchio

«guerriero» gentile le aveva confidato che era ormai prossimo alla morte.

Le aveva mostrato uno strano baluginio di luci che giocavano sul vetro dicendole: «Le vedi?»; «Vieni qui piano piano. Le vedi? Le farfalle che volano, e quei piccoli insetti veloci? Sono i miei antenati che sono venuti a prendermi».

Quella notte morì sereno, nel letto d’ospedale.

Il riconoscimento della morte che si avvicina e la serenità che spesso l’accompagna nel giorno che la precede è un dato molto comune per chi lavora in una struttura sanitaria. Nel suo ultimo frammento di cammino terrestre quel signore curioso, forte e gentile, aveva voluto dare un ultimo segno di fiducia, affidando a Maria e al suo bellissimo sorriso di pace il proprio segreto più intimo, il mistero dell’ultimo viaggio, più lungo di quell’oceano che aveva attraversato decenni prima.

La fiducia è davvero potente.

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La fiducia e la famiglia: un cammino d’adozione

E ora arriviamo all’ultimo passaggio che forse è il più difficile da raccontare, perché parla di una fiducia che ci deve crescere irrazionalmente dall’interno del cuore e che a volte, quando viene tradita, rischia di spezzarsi per sempre. I figli adottivi sono sempre passati attraverso un trauma, una ferita, una corda recisa, spesso all’improvviso e in modo doloroso. Sono bambini e bambine che hanno visto tradito, per una qualche e non sempre facilmente decifrabile ragione, il proprio enorme bagaglio di fiducia nei confronti di chi li dovrebbe proteggere. Un istituto, per quanto ben organizzato e umanamente gestito non potrà mai sostituire quelle figure totali e ingombranti chiamate madre e padre e certe ferite non si potranno mai chiudere del tutto.

Però, questo sì, si può rinascere: lentamente ma con forza, come quel fiore del vulcano che trasporta i suoi colori impossibili e tenaci. Nello Stato messicano di Oaxaca, terra d’origine delle nostre figlie, si racconta la triste storia del yase, un piccolo e bellissimo uccello. Se la mano di un uomo sfiora il suo nido, la madre grida al sole, lancia le sue ali in una danza disperata e fugge silenziosa, spaccando il cielo, con ancora attaccato alle penne l’odore della casa distrutta. La madre abbandona per sempre il nido al suo destino, mentre le valli bicolori diventano belle e terribili, in attesa della stagione delle piogge.

I bambini feriti però possono rinascere e l’unico modo perché ciò avvenga è quello di ricomporre con forza e pazienza il loro universo: la loro fiducia.

Bisogna raccogliere tutti i frammenti del mosaico, anche quelli che sono andati perduti, e ricucirli lentamente. Anni fa venne a vivere con noi un piccolo cane bianco, Xol. Era stato maltrattato e tradito e non si fidava

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della mano dell’uomo, la voleva mordere se si avvicinava troppo. Ci volle un po’ di tempo per ottenere la sua fiducia ma chi ha un cane sa che quando questa è conquistata diventa totale; il cane ti permette di toccarlo sul ventre e sulla giugulare, i punti più vulnerabili e vitali di un animale predatore e sociale.

Uccellini colorati, cani danzanti e i bambini? E l’adozione?

Alla fine il processo di costruzione della fiducia non è molto diverso: più lungo, complesso faticoso, irrisolto, doloroso certo ma non distante nei fondamentali. Ancora una volta non fraintendetemi. Innanzi tutto, come ci insegnano gli psicologi, alla base di un processo adottivo c’è bisogno di una fiducia incrociata che si palesa all’ennesima potenza. Dei bambini nei nuovi genitori certo, ma anche dei genitori nei confronti dei bambini e di ognuno in se stesso e negli altri. Anche i genitori adottivi vengono da una ferita, forse meno immediata ed evidente di quella dei loro figli, ma comunque capace di lasciare una cicatrice che va ricomposta. La mancanza di un figlio biologico cercato deve maturare in una nuova fiducia e cancellare rabbie e delusioni.

I membri di questa piccola e fragile nuova comunità che si va formando, provando a rinascere da ferite ancora aperte, devono guardare insieme al passato, superare l’abbandono, le violenze, i maltrattamenti, i tradimenti e le menzogne ma senza rimuoverli. Il passato va affrontato sempre e comunque, come si deve fare con la storia e la memoria; deve vivere, rivestendosi però di nuovi colori, sogni e speranze. Tutto ciò funziona e diventa impeto creativo solo se nella nuova comunità la fiducia diventa il collante, se torna fede, se si fa madre, padre e figlia. Allora sì, ognuno con i

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propri tempi, i propri tratti e i propri colori, può partorire questa fiducia rinnovata.

Secondo le tradizioni dei náhuatl, i popoli delle Americhe cui appartenevano anche i famosi aztechi, la donna che partorisce deve essere forte come un guerriero. E se per caso incontra la sfortuna di morire durante il parto, anche lei salirà al cielo con i guerrieri aquila e i guerrieri giaguaro, onorata come un eroe morto in battaglia. La donna che, invece, resiste al dolore del parto e che ha la fortuna di sentire il pianto della sua creatura, dovrà avere poi la forza di farla crescere e il coraggio di renderla felice, altrimenti toccherà a un’altra raccogliere quel bimbo o quella bimba, tenerlo tra le proprie braccia e donargli l’amore e la fiducia che tutti noi cerchiamo, ancor prima di aprire gli occhi e di pronunciare un verso. La fiducia infatti precede la parola.

Di qui la comunità che si ricrea e torna alla mente l’insegnamento di La Pira cui avevamo fatto cenno poco sopra. Parlando ai bambini delle scuole elementari, ricostruite dopo i bombardamenti, quel curioso sindaco dal cappello largo amava sempre dire due cose. La prima, che non si può studiare senza il mappamondo sul comodino; la seconda, che la casa comune nella quale vivremo sarà il frutto di un grande sforzo di fiducia in noi stessi e negli altri. Solo se sapremo impegnarci a comprenderla e curarla, come il piccolo principe con la sua fragile rosa, potremo mettere il nostro mattone nel muro (e non a caso La Pira era stato tra gli ideatori del piano Ina per le case popolari); altrimenti resterà per sempre un buco che non potrà esser colmato da nessun altro. Quello era il nostro mattone, il nostro contributo alla ca(u)sa. Con troppi buchi il muro crollerà e la fiducia svanirà, insieme alla comunità. Curiosamente anche in Centroamerica

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esiste un detto popolare analogo. Tutti noi siamo chicchi che crescono vicini su una pannocchia di mais. Se non ci impegniamo per far maturare a dovere il nostro chicco questo appassirà o sarà mangiato dai corvi e con troppi chicchi mancanti la pannocchia morirà, il campo s’impoverirà e la comunità si sfalderà.

Con la fiducia, invece, perfino un vulcano si può rianimare e fiori e pannocchie, uomini e animali, insetti e natura, tutti insieme, possono dar vita a uno spettacolo bellissimo.

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45 Quando la periferia diventa centro.

Le emozioni nelle organizzazioni di lavoro

di Eugenia Montagnini

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La ragione è molto più affidabile delle emozioni o dei desideri, ma sono i sentimenti che, la maggior parte delle volte, determinano le nostre scelte.

Michela Marzano

Abbiamo pensato di confrontarci sulle emozioni nei luoghi di lavoro perché, dopo anni di consulenza alle organizzazioni, abbiamo iniziato a credere che spesso il fattore intangibile ma determinante lo sviluppo, la crescita e il clima siano proprio le emozioni. Determinanti e intangibili ma anche disconosciute, rinnegate, taciute.

E allora come approcciare il tema? Come esplicitarlo? Abbiamo deciso di procedere per step e questo librino è sicuramente il primo passaggio ma non l’unico: il percorso di riflessione, di approfondimento e di intervento

7Sociologa di formazione, è socia fondatrice di Excursus e docente di Sociologia urbana presso il Politecnico e l’Università Cattolica di Milano.

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procede nelle organizzazioni nelle quali quotidianamente operiamo e all’interno dell’équipe di Excursus8.

Le emozioni sono un territorio, apparentemente periferico, non riportato negli organigrammi delle organizzazioni ma non per questo insignificante nel ricoprire un ruolo cruciale, nel giocare partite di cui a volte non abbiamo consapevolezza, che intravvediamo ma neghiamo. Sono un territorio popolato e in quella che è la mia esperienza, a fronte di un’apparente perifericità, sono il non detto che muove, smuove e promuove le organizzazioni. Non la periferia bensì il centro.

Come consulente ma anche come ricercatrice mi piacciono le periferie, le zone d’ombra9, i non detti: so che lì si annidano elementi che possono aiutarmi nel districare situazioni complesse, nell’entrare in empatia con l’altro, nell’analizzare la realtà così com’è oltre le sue rappresentazioni.

Utilizzo queste parole del premio Nobel per la letteratura Kenzaburo Oe10 per evocare metaforicamente il ruolo delle emozioni: periferiche ma centrali, immateriali ma tangibili, invisibili ma determinanti.

Sono nato in una piccola isola, e il Giappone stesso si trova in una zona periferica dell’Asia.

I nostri illustri colleghi pensano che il Giappone sia il centro dell’Asia, anzi, segretamente pensano che il Giappone sia il centro del mondo. Ho sempre

8A tal proposito ringrazio in particolare la mia socia Maria Chiara Cremona.

9 Cfr. R. Bly, Il piccolo libro dell’Ombra. Alla scoperta del nostro lato oscuro, Red Edizioni, Como 2003.

10 Intervista rilasciata il 14 aprile 1999 all’Università di Berkeley; lo stralcio è stato ripreso in Kenzaburo Oe, Note su Hiroshima, Alet Edizioni, Padova 2008.

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detto che sono uno scrittore di periferia – di una città periferica, di un Giappone che è periferia dell’Asia e del nostro pianeta.

Lo dico con orgoglio. Perché la letteratura deve essere scritta andando dalla periferia al centro, solo così possiamo criticare il centro. Chi sta nel centro non ha niente da scrivere. Dalla periferia, possiamo scrivere la storia degli uomini, e questa storia può esprimere l’umanità che vive nel centro.

Quando parlo di “periferia” parlo della fede più importante che io abbia.

Ci sono emozioni che rimangono sulla soglia delle organizzazioni, emozioni che ciascuno porta con sé e che lascia in quella zona liminale che - spesso con chiarezza spesso confusamente - distingue la sfera professionale da quella famigliare.

Ci sono emozioni che non possono rimanere sulla soglia, che entrano prepotentemente negli spazi professionali, che ne investono ogni angolo: si insinuano nelle relazioni, nella programmazione, nei progetti e nei budget.

A volte perché vogliamo che così sia altre volte perché non ne possiamo fare a meno: è così e basta.

Ci sono emozioni, infine, che nascono proprio nel contesto lavorativo, per contaminazione ma anche per semplice reazione; sono strettamente connesse alla comunicazione, alle relazioni fra colleghi, alla capacità generativa e motivante dell’organizzazione. Sono elementi interstiziali che determinano fortemente il clima fino a definire il piacere o la fatica di stare in un contesto, di lavorare in esso, di collaborare con i colleghi, di essere propositivi oppure semplicemente passivi.

È su quest’ultime emozioni, quelle che il contesto di lavora genera, che desidero soffermarmi.

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Per il tipo di lavoro che svolgo nelle organizzazioni, quando affianco con la consulenza processi formativi, di cambiamento, di consolidamento, di superamento di alcune criticità, le emozioni che vedo affiorare sono spesso amare e distruttive: paura, risentimento, sconforto, delusione…

Il piacere, la fiducia, la felicità sono esperite quasi esclusivamente in quei contesti nei quali c’è un forte riconoscimento delle competenze, nei quali l’ascolto e il confronto sono considerati strategici, dove la crescita dell’organizzazione è strettamente connessa a quella delle persone che ne permettono l’esistenza e lo sviluppo. Organizzazioni nelle quali ogni dipendente o consulente si veda riconosciuto il proprio status di collaboratore attraverso un contratto.

Dalla mia esperienza non è l’identità e/o la mission di un’organizzazione che determinano al proprio interno l’emergere di emozioni generative quanto piuttosto il rispetto, di cui ha scritto Richard Sennet11, per il ruolo che ciascuno ricopre, per le funzioni che svolge, per le competenze che condivide con l’organizzazione e che quest’ultima gli permette di consolidare e di accrescere. Un rispetto che non prescinde la dimensione contrattualistica e che riconosce i valori che stanno alla base di una storia organizzativa. Sono queste le organizzazioni nelle quali esiste una relazione equilibrata e sinergica fra la leadership e il gruppo; non ci sono sproporzioni: la testa non è eccessivamente più grande o più piccola rispetto al corpo e testa e corpo sanno di non essere intercambiabili ma funzionali l’uno all’altra.

11R. Sennet, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, Il Mulino

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