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Ogni frammento finisce per ricomporsi nel cerchio rosso della memoria che apre le sue ali e s’incammina per una lunga salita curva sulla schiena della montagna, ricordo dopo ricordo, ferita dopo ferita, fino a formare una matassa di nodi intrecciati: una solida corda cui attaccarsi per non perdere l’equilibrio, mentre si sale ciechi.

I respiri vicini la allargano ad afferrare nuove storie, mentre sulla pietra che scotta attendono i chicchi di mais dai colori diversi; mani femminili li hanno custoditi, attente a non ferirli, lungo lo srotolarsi del cammino.

La fiducia e la storia

In alcune regioni centroamericane esiste una bellissima espressione che racchiude il segreto della delicatezza che sopravvive alla violenza: la flor del volcán. Il fiore del vulcano, non casualmente è al femminile, come quelle antiche divinità mesocamericane, la Coatlique o la Tlaltecuhtli, che incutevano timore con le loro tozze corone di teschi e serpenti ma che al contempo, con un silenzioso lavoro sotterraneo, restituivano speranza dalla morte, rigenerando nuove forme di vita e colori. L’espressione

5 Nato a Milano nel 1967, è docente di Storia contemporanea presso l’Università IULM di Milano. Si occupa in particolare di storia dei movimenti sociali, politici e religiosi tra Italia e America centrale. Tra i suoi volumi: Giorgio La Pira. Un sindaco e le vie della pace (Milano 2001), Messico 1900-1930. Stato, Chiesa, popoli indigeni (Brescia 2007), Oscar Romero.

Giustizia e pace come pedagogia pastorale (Brescia 2010) e La cruz de maíz (México 2011). È sposato con Maria e ha tre bellissime bimbe, un cane, una gatta e un pesce.

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racchiude la forza della grazia che si forma in mezzo alle avversità, siano quelle biologiche della natura o quelle economiche o culturali della società degli uomini; è la ricchezza di una terra vulcanica, nera e grassa, che resiste a tutto, ai terremoti, alle conquiste, alle guerre, alle migrazioni, al narcotraffico. Nasce dalla violenza di un’eruzione, portando dentro a sé, insieme a una ferita antica, una fertilità misteriosa. Questa resiste perfino quando viene trapiantata nelle zone temperate dell’occidente, facendo nascere dietro a vetri e finestre di serre lontane un fiore dai colori forti, fucsia, azzurro, rosso fuoco, giallo... un fiore senza compromessi o timidezze.

Non so esattamente perché ma ogni volta che ripenso a questa espressione, la flor del volcán, la associo istintivamente a un altro concetto che racchiude al suo interno sensazioni di forza amorosa e misteriosa, una ricerca di grazia come antidoto alla violenza: la fiducia. Una parola curiosa che è sempre sembrata la parente povera di una sorella etimologica più austera e impegnativa, Fede, con la maiuscola, ma che forse proprio per questo mi ha sempre colpito. Non fraintendetemi, il seme di Fede e fiducia, è comune, così come il segno e il potere, ma la seconda mi è sempre parsa più gioiosa, semplice, diretta; forse meno matura, quasi una sua parente bambina ma proprio per questo meno affermativa e unidirezionale.

Con sincera fiducia non s’intende una semplice e banale benevolenza del gesto, ma una fede minuscola e autentica, un aprirsi solo in apparenza timido, a suo modo deciso, verso l’altro, che è poi l’autentico fondamento dell’amore.

La fiducia è una speranza infantile che cresce nelle avversità, secondo i dettami del motto paolino «spes contra spem», ma che spesso si dimentica

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nella normalità; eppure è il fondamento della storia del mondo, dell’incontro tra l’umano e la natura, tra l’umano e l’animale, tra l’umano e l’umano e, quando riesce, tra l’umano e il divino.

È possibile seguire il senso misterioso della fiducia quando si scavano e tendono i fili della storia? Io credo di sì, perfino nel XX secolo dei grandi paradossi, dei genocidi, dei totalitarismi.

La fiducia come fede, la comunità come città

La fiducia può diventare allora un elemento cruciale per comprendere le trasformazioni della nostra società contemporanea, della cultura e della politica, dell’economia, nelle comunità locali, nella città, nei confini traballanti della nazione, perfino nell’orizzonte internazionale. In questo ci può aiutare un autentico esperto del settore, un padre costituente e un coraggioso sperimentatore di incontri politici e culturali (ma sopratutto umani) «tra diversi», nel suo poliforme laboratorio fiorentino. Si tratta di Giorgio La Pira (1904-1977). Nel 1943, in uno dei momenti più delicati e tragici del secondo conflitto mondiale, reduce dalla latitanza, scrisse un contributo a un testo collettivo intitolato Appello ai fratelli più ricchi tutto incentrato sull’urgenza della ricostruzione della fiducia nell’altro come antidoto per uscire dai momenti più tragici della storia.6 Dalla traduzione lapiriana del concetto di fiducia (per lui inscindibile da una religiosità vissuta prima che dichiarata) emergeva un nesso inestricabile con le idee di solidarietà, responsabilità, impegno e rispetto e quindi una fusione con

6G. La Pira, L. Moresco, D. Lamura, I. Giordani, F. Montanari (a cura di), Appello ai fratelli più ricchi, Elm, Roma 1943, pp. 11-18.

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l’idea stessa di fede, espressa attraverso una concezione del mondo che strideva con tutto ciò che sapeva di razzista, settario, discriminante. La fiducia diventava la pietra angolare della casa comune che si sarebbe dovuta ricostruire ex novo, di lì a poco.

Se si prova a scorrere il percorso lapiriano, nella stagione della costituente e della ricostruzione dell’Italia postbellica, poi in quella conciliare e dell’apertura all’orizzonte globale, si scoprono alcuni elementi di incredibile attualità. Superando con il cuore i confini del Mediterraneo e scardinando dall’interno le logiche del bipolarismo, il piccolo uomo dal cappotto liso ci ricordava che la fiducia si unisce alla fede per dar vita al nucleo indissolubile (e qui sta il suo vero integralismo mai settario e sempre rispettoso della diversità) di una società partecipativa in senso alto.

Di qui il ruolo della città e del cittadino, come erede fiduciario di un bene che non è di sua proprietà ma che dovrà passare alle generazioni future, se possibile più bello e più vivo di quando l’ha ricevuto. La fiducia proietta dunque la comunità nel tempo, oltre che nello spazio. Sulla base della fiducia, La Pira invocava una sorta di New Deal globale (confidando con Keynes nell’effetto moltiplicatore dell’occupazione) e chiedeva ai politici dei due blocchi di credere nei paesi nuovi, a bellicisti e pacifisti di confidare nell’impossibilità della guerra, ai cattolici di non avere paura delle altre religioni (e viceversa), alle istituzioni statuali e multilaterali di valorizzare le città e le loro reti invisibili. Non distruggere dunque ma integrare e ritrasmettere un messaggio che non poteva che essersi arricchito nelle anse del fiume della storia.

Ancora nel 1965, quando la sua stella politica iniziava a declinare, tornando da una travagliata missione diplomatica nel Vietnam affacciato sul baratro

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della guerra, La Pira commentò: «La novità emersa dai nostri colloqui (novità profonda, trasformatrice) è questa: il governo di Hanoi è disposto a iniziare il negoziato (Ho Chi Minh ha detto: “sono disposto ad andare ovunque; ad incontrarmi con chiunque”) senza prima esigere il ritiro effettivo delle truppe americane. Basta riflettere su questa “novità” – una

“concessione” di fiducia e di speranza». La fiducia però non venne curata e la pace scomparve in Indocina per molti anni a venire.

La fiducia e la malattia

Scusate la divagazione ma più cresco e più mi convinco che senza fiducia per la comunità del futuro il passato diventi un luogo inospitale in cui è difficile anche soltanto muoversi. Questo deve essere tenuto presente nel nostro relazionarci con la storia. Ma la fiducia riguarda anche e sopratutto il presente e per questo vorrei fare un breve cenno a un’esperienza che ho appreso da mia moglie Maria. Lei è centroamericana, salvadoregna per l’esattezza, e italiana. Quindi quella flor del volcán la conosce bene, l’ha scritta sulla sua pelle e l’ha portata con sé nel suo piccolo fardello di bambina ferita che lasciava un paese in guerra e lacerato per approdare in una famiglia che la accoglieva amorevolmente. Maria è anche un’infermiera che mette amore e passione nel proprio lavoro. Vivere al suo fianco mi ha insegnato che la fiducia si costruisce quotidianamente in un ambulatorio, in una corsia d’ospedale, perfino in una sala di rianimazione.

Da quando ci conosciamo ha sperimentato diversi luoghi di quel mondo particolare, vicino e lontano al tempo stesso, che è l’ospedale. Che lavori con macchine, strumenti o mani nude, l’infermiere (che ancor più del medico si relaziona direttamente e frequentemente con il paziente) deve

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fondare il proprio lavoro su un requisito essenziale: quello della fiducia.

Deve elargire fiducia al paziente, godere di quella del medico e dei colleghi.

In particolare quando si ha a che fare con malattie logoranti, distruttive o devastanti anche una semplice e routinaria iniezione si può trasformare in un contatto a due, diretto e silenzioso, che necessita di piena fiducia e compartecipazione. Come ben sanno i lavoratori della sanità, quest’ultima non può mai superare certi confini taciti, altrimenti il rischio di lasciarsi paziente ma la comunità viva che lo circonda.

A volte è più facile aprire la propria anima a un estraneo che ti è vicino in un momento particolare, e in questo caso la distanza si riduce proprio sulla base di una fiducia immediata e concreta, senza le pressioni e le costrizioni delle fiducie passate e future. Le prospettive mutano, con le paure taciute e confessate, e gli sguardi si sfiorano.

Una sera Maria mi raccontò l’incontro con un signore indiano (native american) che curava nel suo reparto. La sua era una storia molto curiosa:

era giunto in Italia al seguito di un circo americano. A un certo punto si stancò e decise di fermarsi in Italia. Si stabilì in un paesino dell’Appennino toscano. Per anni fece il contadino, lavorando la terra e con gli animali, prima di migrare a Nord e trasferirsi nell’hinterland milanese. Non so perché, né come fosse approdato a Milano ma in quel reparto d’ospedale, ormai anziano e molto malato incontrò nello sguardo indigeno di mia

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moglie un silenzioso codice di riconoscimento. Succede perfino al più esperto viaggiatore, quando si trova all’estero e incontra un «paesano», anche senza ragioni apparenti, sembra scoprire una sorta di codice di sicurezza. Senza parlare, l’anziano signore indiano e mia moglie si scambiavano commenti, impressioni, si annusavano, si riconoscevano e avevano un’istintiva fiducia l’uno nell’altra. Lui le raccontò la sua storia e altre mirabilie, forse inventate ma piene di gioiosa speranza.

Un sera Maria mi disse che prima che lei uscisse dal reparto il vecchio

«guerriero» gentile le aveva confidato che era ormai prossimo alla morte.

Le aveva mostrato uno strano baluginio di luci che giocavano sul vetro dicendole: «Le vedi?»; «Vieni qui piano piano. Le vedi? Le farfalle che volano, e quei piccoli insetti veloci? Sono i miei antenati che sono venuti a prendermi».

Quella notte morì sereno, nel letto d’ospedale.

Il riconoscimento della morte che si avvicina e la serenità che spesso l’accompagna nel giorno che la precede è un dato molto comune per chi lavora in una struttura sanitaria. Nel suo ultimo frammento di cammino terrestre quel signore curioso, forte e gentile, aveva voluto dare un ultimo segno di fiducia, affidando a Maria e al suo bellissimo sorriso di pace il proprio segreto più intimo, il mistero dell’ultimo viaggio, più lungo di quell’oceano che aveva attraversato decenni prima.

La fiducia è davvero potente.

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La fiducia e la famiglia: un cammino d’adozione

E ora arriviamo all’ultimo passaggio che forse è il più difficile da raccontare, perché parla di una fiducia che ci deve crescere irrazionalmente dall’interno del cuore e che a volte, quando viene tradita, rischia di spezzarsi per sempre. I figli adottivi sono sempre passati attraverso un trauma, una ferita, una corda recisa, spesso all’improvviso e in modo doloroso. Sono bambini e bambine che hanno visto tradito, per una qualche e non sempre facilmente decifrabile ragione, il proprio enorme bagaglio di fiducia nei confronti di chi li dovrebbe proteggere. Un istituto, per quanto ben organizzato e umanamente gestito non potrà mai sostituire quelle figure totali e ingombranti chiamate madre e padre e certe ferite non si potranno mai chiudere del tutto.

Però, questo sì, si può rinascere: lentamente ma con forza, come quel fiore del vulcano che trasporta i suoi colori impossibili e tenaci. Nello Stato messicano di Oaxaca, terra d’origine delle nostre figlie, si racconta la triste storia del yase, un piccolo e bellissimo uccello. Se la mano di un uomo sfiora il suo nido, la madre grida al sole, lancia le sue ali in una danza disperata e fugge silenziosa, spaccando il cielo, con ancora attaccato alle penne l’odore della casa distrutta. La madre abbandona per sempre il nido al suo destino, mentre le valli bicolori diventano belle e terribili, in attesa della stagione delle piogge.

I bambini feriti però possono rinascere e l’unico modo perché ciò avvenga è quello di ricomporre con forza e pazienza il loro universo: la loro fiducia.

Bisogna raccogliere tutti i frammenti del mosaico, anche quelli che sono andati perduti, e ricucirli lentamente. Anni fa venne a vivere con noi un piccolo cane bianco, Xol. Era stato maltrattato e tradito e non si fidava

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della mano dell’uomo, la voleva mordere se si avvicinava troppo. Ci volle un po’ di tempo per ottenere la sua fiducia ma chi ha un cane sa che quando questa è conquistata diventa totale; il cane ti permette di toccarlo sul ventre e sulla giugulare, i punti più vulnerabili e vitali di un animale predatore e sociale.

Uccellini colorati, cani danzanti e i bambini? E l’adozione?

Alla fine il processo di costruzione della fiducia non è molto diverso: più lungo, complesso faticoso, irrisolto, doloroso certo ma non distante nei fondamentali. Ancora una volta non fraintendetemi. Innanzi tutto, come ci insegnano gli psicologi, alla base di un processo adottivo c’è bisogno di una fiducia incrociata che si palesa all’ennesima potenza. Dei bambini nei nuovi genitori certo, ma anche dei genitori nei confronti dei bambini e di ognuno in se stesso e negli altri. Anche i genitori adottivi vengono da una ferita, forse meno immediata ed evidente di quella dei loro figli, ma comunque capace di lasciare una cicatrice che va ricomposta. La mancanza di un figlio biologico cercato deve maturare in una nuova fiducia e cancellare rabbie e delusioni.

I membri di questa piccola e fragile nuova comunità che si va formando, provando a rinascere da ferite ancora aperte, devono guardare insieme al passato, superare l’abbandono, le violenze, i maltrattamenti, i tradimenti e le menzogne ma senza rimuoverli. Il passato va affrontato sempre e comunque, come si deve fare con la storia e la memoria; deve vivere, rivestendosi però di nuovi colori, sogni e speranze. Tutto ciò funziona e diventa impeto creativo solo se nella nuova comunità la fiducia diventa il collante, se torna fede, se si fa madre, padre e figlia. Allora sì, ognuno con i

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propri tempi, i propri tratti e i propri colori, può partorire questa fiducia rinnovata.

Secondo le tradizioni dei náhuatl, i popoli delle Americhe cui appartenevano anche i famosi aztechi, la donna che partorisce deve essere forte come un guerriero. E se per caso incontra la sfortuna di morire durante il parto, anche lei salirà al cielo con i guerrieri aquila e i guerrieri giaguaro, onorata come un eroe morto in battaglia. La donna che, invece, resiste al dolore del parto e che ha la fortuna di sentire il pianto della sua creatura, dovrà avere poi la forza di farla crescere e il coraggio di renderla felice, altrimenti toccherà a un’altra raccogliere quel bimbo o quella bimba, tenerlo tra le proprie braccia e donargli l’amore e la fiducia che tutti noi cerchiamo, ancor prima di aprire gli occhi e di pronunciare un verso. La fiducia infatti precede la parola.

Di qui la comunità che si ricrea e torna alla mente l’insegnamento di La Pira cui avevamo fatto cenno poco sopra. Parlando ai bambini delle scuole elementari, ricostruite dopo i bombardamenti, quel curioso sindaco dal cappello largo amava sempre dire due cose. La prima, che non si può studiare senza il mappamondo sul comodino; la seconda, che la casa comune nella quale vivremo sarà il frutto di un grande sforzo di fiducia in noi stessi e negli altri. Solo se sapremo impegnarci a comprenderla e curarla, come il piccolo principe con la sua fragile rosa, potremo mettere il nostro mattone nel muro (e non a caso La Pira era stato tra gli ideatori del piano Ina per le case popolari); altrimenti resterà per sempre un buco che non potrà esser colmato da nessun altro. Quello era il nostro mattone, il nostro contributo alla ca(u)sa. Con troppi buchi il muro crollerà e la fiducia svanirà, insieme alla comunità. Curiosamente anche in Centroamerica

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esiste un detto popolare analogo. Tutti noi siamo chicchi che crescono vicini su una pannocchia di mais. Se non ci impegniamo per far maturare a dovere il nostro chicco questo appassirà o sarà mangiato dai corvi e con troppi chicchi mancanti la pannocchia morirà, il campo s’impoverirà e la comunità si sfalderà.

Con la fiducia, invece, perfino un vulcano si può rianimare e fiori e pannocchie, uomini e animali, insetti e natura, tutti insieme, possono dar vita a uno spettacolo bellissimo.

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Quando la periferia diventa centro.

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