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Vorrei concentrarmi, in quest'ultima parte, su un documento che ad oggi appare emblematico del punto di “fine”, o meglio del momento del lutto. Il numero speciale di Differenze, rivista nata a Roma nel 1976 e di particolare rilievo nelle vicende del femminismo italiano, numero curato da un gruppo di donne, molte delle quali legate al centro “Virginia Woolf” di Roma, appare come un testamento della stagione che alla fine degli anni settanta si andava chiudendo, un congedo con linee di fuga. È un termometro del tempo: si guarda a quello che si è diventate, a quello che ha spaventato, a quello che la vita politica del femminismo ha rappresentato fino a quel momento. Molte delle questioni affrontate in questo capitolo sono condensate in quel numero.

Il numero nuovamente ritornò a interrogarsi sulla parola politica, sul «sussurro politico» come scrissero le autrici del numero, consapevoli della difficoltà del momento che anche il movimento femminista stava attraversando, quando, come si legge nel numero, «la privatizzazione, non ultima conseguenza di un esterno sempre più aggressivo, ha grandemente contribuito a gettare uno spesso velo di solitudine su percorsi individuali che molte donne hanno individuato all'interno di una discussione e analisi collettiva, spegnendo e distorcendo quella che comunque era nata come una scelta tutta politica»513. Il numero fu considerato una possibilità per domandarsi le motivazioni

sull'esigenza, nata in quel clima, di quella che la redazione del numero definì “voglia di politica”. Le riflessioni partirono dalla repressione e in particolare dal processo del 7 aprile. Ma non solo. Era necessaria, secondo la redazione una riflessione sui “tempi delle donne”, su «un tempo che misurava i confini di una extraterritorialità del pensiero-donna» e che «era comunque distante dalle

512Uno sguardo agli ultimi 2 anni per parlare di oggi - Un intervento letto al convegno sulla violenza tenutosi a Roma

due settimane fa in Lotta Continua, 23/3/79

scadenzialità esterne»514. Il numero scaturiva anche da una domanda di senso sul potere, che non

fosse né quello dell'istituzione né quello dell'insubordinazione e quindi del sabotaggio e della appropriazione. Il desiderio era quello, secondo le parole della redazione, di «permettere alla nostra angelica deliquenzialità di esistere e di (faticosamente) continuare a spostare i confini del possibile»515. Era una richiesta di vita, una richiesta di parola politica malgrado l'atmosfera

mortifera che si respirava: «questo “sussurro” quasi un gesto per interrompere un silenzio, la volontà di ricucire pensieri; il desiderio di sapere di più di quello che abbiamo pensato da sole, evidenziare così i luoghi soggettivi di una antica passione. […] Sapere di un sussurro, l'espressione e la misura di una distanza»516. Il metodo è quello di chiedere ad alcune donne qual è la loro parola

politica, la parola che in quel momento raccontava dei legami di ciascuna tra processi individuali e il sociale. Il primo intervento è quello di Annalisa Biondi, Spezzare la memoria. Preciso l'inizio: «Spezzare la memoria distruggere l'origine privare di senso l'esistente assumere costantemente l'impossibilità: per noi la nostra pratica politica»517. Nel numero si suggeriva di tenere aperta la

contraddizione tra desiderio di rappresentazione e desiderio di silenzio: «solo attraversando costantemente questo interno/esterno, solo praticando la volontà di definirci potremo sapere dei nostri reali spostamenti»518. Era non solo una postazione teorica e politica, ma un posizionamento

preciso alla luce di tutto quello che in quel momento si stava elaborando sulla necessità di una parola politica chiara verso il terrorismo. L'articolo di Roberta Tatafiore, Uno sguardo «fuori» la

lotta armata, contenuto all'interno del numero, si può considerare come una delle prese di parola sul

tema più articolate espresse in quegli anni e pubblicate sulle riviste femministe che ho avuto modo di consultare. Attraverso il suo racconto personale, ci dà conto non solo del clima, ma anche delle contraddizioni che il femminismo stava attraversando: «ho praticato di volta in volta, nei confronti della lotta armata il sentimento della paura, il rifugio dell'esorcizzazione, il riconoscimento della complicità»519. Nel restringimento e privatizzazione degli spazi, Tatafiore concepì lo spazio della

rivista come spazio di liberazione: «Io vorrei sempre avere la possibilità di dire che chi pratica la lotta armata lo capisco, che quando intravedo nella vita di un “combattente” la sofferenza personale, la scelta tra soggettività ed oggettività consapevolmente calcolata o, per contro, la confusione della mancanza di prospettive emancipatorie, vorrei non essere mai chiamata a dare un giudizio». Ma la lotta armata metteva anche davanti al mondo delle vittime e, non rinunciando alla ricerca di un concetto diverso di giustizia e alla passione per la verità, Tatafiore esplicitava un giudizio: «Lottare

514Differenze. Speciale di politica, 1979, p.4 515Differenze. Speciale di politica, 1979, p.5 516Differenze. Speciale di politica, 1979, p.6 517Differenze. Speciale di politica, 1979, p.3 518Differenze. Speciale di politica, 1979, p.8 519Differenze. Speciale di politica, 1979, p.9

con la pistola è come prendersi il compito di pensare per gli altri, non solo il momento della rottura, della ribellione, ma ipotecare il modello di vita che ha sotteso la rottura ed imporlo»520. Tatafiore

concludeva con un'impossibilità che traduce bene il momento di immobilizzazione che il femminismo stava vivendo, il momento del fermarsi, per la fatica, per la difficoltà di trovare un orizzonte di senso. A distanza di 40 anni e considerando gli sviluppi successivi, era il momento del lutto, della difficoltà di articolare la perdita ma anche di intravedere le possibilità, del riprendere fiato, della pausa prima di cambiare pelle: «Io vorrei “vedere” sempre le persone, ma la lotta armata mi ha oppresso con i cadaveri che hanno ricacciato indietro la fatica di trovare nella mia testa un concetto diverso di giustizia. [..] La mia passione per la verità, e gli spazi per esercitarla, si sono certamente bloccati alle soglie della lotta armata»521. Anche l'intervento di Michi Staderini

riprendeva il tema della paura. La parola politica da lei prescelta fu emblematicamente “ambiguità”, che è «l'ambiguità di esprimersi politicamente su certi fatti, quali il terrorismo»522, ma anche

l'ambiguità della teoria che non coincide con la pratica, di chi è a favore della lotta armata ma non la pratica, l'ambiguità «del dire e non dire, condannare e giustificare su piani diversi»523.

Una citazione fornisce la motivazione stringente al titolo di questo capitolo. Il libro Mara e

le altre524, sulle donne nella lotta armata e su cui ritornerò nel prossimo capitolo, suscitò un

importante dibattito nei collettivi femministi che furono costretti a comprendere e a rideclinare il nesso emancipazione/liberazione attraverso l'esperienza delle donne che scelsero la lotta armata, esperienza che non poteva essere più interpretata, o non solo, come aderenza al modello maschile. In una recensione al libro pubblicata su Lotta Continua, le autrici scrissero:

Leggendo “Mara e le altre” ci siamo rese conto di come sia indice di superficialità e di paura tentare di liquidare il problema della donna e della violenza, sentenziando che solo assumendo come propria l'ideologia maschile, quindi tradendo se stesse, si può “andare a sparare”. […] Dobbiamo impostare ora i problemi rispetto alla totalità, confrontarci con il mondo, mettere in atto questa cosa della debolezza che diventa forza. Naturalmente fare propria questa affermazione non significa tradurre la necessità di un confronto con il mondo in “lotta armata”, ma perché questo non avvenga è necessario capire che cosa è la lotta armata e quindi capire anche, ma non soltanto, perché alcune donne sparano ma anche perché non lo fanno tutte le altre. A questo punto ci viene spontanea una domanda: Dove le donne non sparano che cosa stanno facendo?»525.

È stata una domanda-occasione da cui ha preso spunto l'elaborazione di questo capitolo.

Come scriveva Luisa Passerini all'inizio degli anni novanta, «per vedere gli anni settanta

520Differenze. Speciale di politica, 1979, p.10 521Differenze. Speciale di politica, 1979, p.10 522Differenze. Speciale di politica, 1979, p.16 523Differenze. Speciale di politica, 1979, p.16

524Ida Farè, Franca Spirito, Mara e le altre. Le donne e la lotta armata:storie, interviste, riflessioni, Feltrinelli, 1979 525Una recensione come pretesto (a cura di Michela e Stefania) in Lotta Continua, 8 marzo 1979, p.10

compiutamente in prospettiva storica sarà necessario tenere in conto le novità in corso di attuazione negli anni ottanta, che sostituiscono alla pratica dei piccoli gruppi aggregazioni di donne (centri di documentazione e ricerca, librerie, gruppi di studio) impegnate nel campo della cultura oppure, sotto forma di associazioni, consorzi, organismi anche interni alle istituzioni, attive nella rivendicazione di spazi professionali. [..] Tutto questa sembra andare al di là dei piccoli gruppi, verso quello che Raffaella Lamberti ha definito una politica da “popolo delle donne”, capace di non negare né il piccolo gruppo né la singola»526. Tali processi e fattori di innovazione nella politica

delle donne saranno al centro della trattazione nel prossimo capitolo.

526L. Passerini, Il movimento delle donne, in La cultura e i luoghi del '68, a cura di Aldo Agosti, Luisa Passerini, Nicola Tranfaglia, Franco Angeli, 1991, pp.366-379 (378)

IV Capitolo

«Né indifesa, né indivisa»:

il pacifismo come posizione etica degli anni Ottanta

The past is a past present- a history that is in some sense a genealogy of the historian. What is marked is the site of desire.

Gayatri Chakravorty Spivak, 1999

The law doth punish man or woman Who steals the goose from off the common But lets the greater felon loose Who steals the common from the goose.

Verso anonimo del XVIII secolo comparso sulla recinzione della base nucleare di Greenham Common527