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III.1. La difficile sintesi di un «movimento a più voci»

III.2.2. Lo sfasamento uguaglianza/differenza

Tenendo come punto fermo il fatto che il femminismo sia cresciuto nel contesto dei movimenti della nuova sinistra, quasi come coincidenza generazionale, come direbbe Carla Lonzi, ma si è presto scontrato con essi, si possono distinguere due momenti nel rapporto tra femminismo e sistema politico negli anni settanta. Riporto le considerazioni di Yasmine Ergas:

Nel primo, che va dagli inizi del decennio fino all'incirca al 1976, la crisi del sistema dei partiti apre spazio politico ai movimenti sociali, arrivando addirittura a favorire la mobilitazione politica di ampi gruppi sociali. Il femminismo registra i segni di una situazione che sembra naturalmente incoraggiare la politicizzazione della società civile. Nella seconda fase riemerge il primato della politica tradizionalmente intesa. I movimenti sociali si vedono chiudere lo spazio politico, e la dinamica fra partiti e società civile sembra ridursi alla mediazione delle domande provenienti dai gruppi di interesse ed alla gestione del terrorismo. […] Ma è soprattutto il femminismo che riesce a vivere con i tempi della politica: cambiano le forme e le sedi di aggregazione, mutano i termini dei discorsi, ma la problematica dell'identità e del rapporto tra sesso, genere e potere continua ad alimentare una vasta rete culturale421.

Se è necessario comprendere e approcciarsi con una lente d'ingrandimento alle modalità con cui il femminismo riesce a vivere con i tempi della politica, e considerando lo scetticismo con cui movimento delle donne e politica istituzionale si guardavano, è significativo il dato che molte delle leggi di compimento della parità appartennero alla grande stagione riformista degli anni settanta e costituirono, almeno in parte, la risposta in termini di modernizzazione del sistema politico a un nuovo movimento ormai largamente presente sulla scena pubblica422.

Vi si intercetta un'ambiguità: da una parte la separatezza, un necessario sancire la differenza sessuale per pensare la politica altrimenti, dall'altra la ricerca di un'uguaglianza sul piano formale. Già il gruppo di Rivolta era entrato nel merito di quello che è decisamente un nodo spinoso e complesso nell'articolazione della politica femminista:

L'uguaglianza disponibile oggi non è filosofica, ma politica: ci piace, dopo millenni, inserirci a questo titolo nel mondo progettato da altri? Ci pare gratificante partecipare alla grande sconfitta dell'uomo? Per uguaglianza della donna si intende il suo diritto a partecipare alla gestione del potere nella società mediante il riconoscimento che essa possiede capacità uguali a quelle dell'uomo. […] Il porsi della donna non implica una partecipazione al potere maschile, ma una messa in questione del concetto di potere. È per sventare questo possibile attentato della donna che oggi ci viene riconosciuto l'inserimento a titolo di

421Yasmine Ergas, Tra sesso e genere in Memoria. Rivista di storia delle donne, 19-20 (1-2, 1987), pp.11-18 (17) 422E. Guerra, Storia e cultura politica delle donne, cit., p.44

uguaglianza. L'uguaglianza è un principio giuridico: il denominatore comune presente in ogni essere umano a cui va reso giustizia. La differenza è un principio esistenziale che riguarda i modi dell'essere umano, la peculiarità delle sue esperienze, delle sue finalità, delle sue aperture, del suo senso dell'esistenza in una situazione data e nella situazione che vuole darsi. Quella tra donna e uomo è la differenza di base dell'umanità. […] La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia. Approfittiamo della differenza: una volta riuscito l'inserimento della donna chi può dire quanti millenni occorrerebbero per scuotere questo nuovo giogo? Non possiamo cedere ad altri la funzione di sommuovere l'ordinamento della struttura patriarcale423.

Per poi escludere in maniera definitiva l'uguaglianza come possibilità dall'orizzonte femminista: L'uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti. E quanto si impone loro sul piano della cultura. È il principio in base al quale l'egemone continua a condizionare il non-egemone. Il mondo dell'uguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata, dell'unidimensionale; il mondo della differenza è il mondo dove il terrorismo getta le armi e la sopraffazione cede al rispetto della varietà e della molteplicità della vita. L'uguaglianza tra i sessi è la veste in cui si maschera oggi l'inferiorità della donna.424

Lo sfasamento dell'articolazione uguaglianza/differenza getta un cono d'ombra sul nodo apparentemente inconciliabile tra femminismo e democrazia425. Tale sfasamento trova diverse

declinazioni. Nel Manifesto del gruppo Demau426 del 1967 si esplicita che l'integrazione delle donne

nella sfera pubblica da cui erano state escluse per secoli, se fosse avvenuta senza mettere in discussione l'ordine sociale, economico e politico esistente – e quindi la divisione sessuale del lavoro, l'identificazione del femminile col corpo, la natura – avrebbe solo caricato la donna di un duplice peso, lasciando a lei sola la responsabilità di “conciliare” famiglia, cura e lavoro extradomestico. Saranno, questi, dei temi cari, a una parte del femminismo, quello che, vicino a

423Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, cit., pp.20-21 424Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, cit., p.21

425Emma Baeri, in tempi più recenti, interrogandosi su come entrare nella polis con corpo di donna, ha sottolineato tale inconciliabilità, ravvisabile anche nel decennio settanta, coniando il termine dividua (E. Baeri, Dividua.

Femminismo e cittadinanza, Il Poligrafo, 2013) Vedi anche N.M. Filippini, A. Scattigno (a cura di), Una democrazia incompiuta. Donne e politica in Italia dall'Ottocento ai nostri giorni, FrancoAngeli, 2007; R. Rossanda,

Femminismo e politica, una relazione tempestosa, in A. Del Re (a cura di) Donne, politica, utopia, Il Poligrafo, 2011

426Il gruppo Demistificazione autoritarismo patriarcale, noto con la sigla Demau, si forma nel 1966. Si può

considerare come il primo collettivo femminista formatosi in quegli anni. Stando alla descrizione che ne fa Yasmine Ergas, «fra i suoi referenti polemici figurano le tradizionali associazioni femminili. Prendendo a bersaglio la cultura emancipazionista vigente, il Demau critica l'obiettivo convenzionale dell'“integrazione” delle donne negli assetti sociali esistenti e chiama all'elaborazione dei nuovi valori capaci di riconoscere e promuovere l'autonomia femminile. Esso avvia così una riflessione politico-culturale le cui tematiche echeggeranno nelle teorie e pratiche della nuova sinista, soprattutto nel suo anti-autoritarismo e anti-istituzionalismo» (Y. Ergas, Tra sesso e genere in

Memoria. Rivista di storia delle donne, n.19-20, 1987, pp.11-18 (12). Vedi anche R. Spagnoletti (a cura di), I movimenti femministi in Italia, La nuova sinistra, 1971. L'antiautoritarismo viene più in generale interpretato come

l'ideologia caratteristica dei movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta in Italia. Vedi R. Lumley, 1968 e oltre:

spazio dei movimenti e “crisi d'autorità” in Le radici della crisi. L'Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, a cura di

Luca Baldissara, Carocci editore, 2001, pp.243-259; e dello stesso autore, Dal '68 agli anni di piombo. Studenti e

Lotta femminista, vedeva nella famiglia un pilastro dell'organizzazione capitalistica del lavoro, e

che impegnato soprattutto, ma non solo, sul terreno delle lotte per il salario al lavoro domestico, considerava il lavoro domestico come lavoro produttivo, sottolineando la centralità della famiglia e del ruolo femminile rispetto all'accumulazione capitalistica. Due testi in questo senso sono particolarmente significativi. Il primo è La coscienza di sfruttata427 ad opera del gruppo di Trento Il cerchio spezzato in cui viene ripreso il concetto di casta, elaborato dai movimenti neri e femministi

degli Usa. Il secondo è quello di Mariarosa Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale428.

Ne parlerò più in dettaglio nel prossimo capitolo.

Entrare nella polis con corpo di donna. La questione è di quelle cruciali e non può escludere, proprio perché complessa, contraddizioni e divergenze. Si può come per altri aspetti sottolineati in questi capitoli, imparare a stare nella contraddizione, non provare ad eliminarla.

Si può iniziare affermando che il femminismo degli anni settanta appare come un movimento che, in un linguaggio del tutto diverso dai femminismi precedenti, pur apparendo contrassegnato, rispetto a quello di altri paesi, dalla rivendicazione della differenza, non esclude affatto l'uguaglianza. Il numero monografico sul tema della rivista Memoria. Rivista di storia delle donne comparso nel 1987 (19-20), di particolare rilievo nel comprendere cosa è stato il movimento femminista durante gli anni settanta, è emblematico nell'evidenziare tali contraddizioni: il rapporto irrisolto, ma per nulla inconciliabile tra uguaglianza e differenza, il desiderio di incidere sulla scena politica e la constatazione dell'intraducibilità dei temi e delle priorità delle pratiche femministe nei rapporti politici esistenti.

Nella presentazione al fascicolo, gettando nuova luce anche su obiettivi e destini del separatismo, si sottolinea come uno degli elementi429 che si delineano come portanti del numero è «la volontà di tradurre originalità e radicalità dei temi (e della pratica che ne aveva consentito l'individuazione, ovvero i rapporti tra donne) in forme tali da incidere sulla scena politica complessiva, da incrociare e influire sulla politica maschile»430. Contrariamente a quanto tradizionalmente si era

fino ad allora sostenuto, nel numero si afferma che

il movimento femminista italiano non si è costituito come comunità separata, come mondo a parte, dotato di una propria sottocultura, fin dall'inizio. Il separatismo non rappresentò in quegli anni la scelta di separarsi dalla politica generale, di recidere i legami con il contesto. Risulta nettamente da tutti i contributi raccolti che il movimento si propose di incidere, che delineò su questo il proprio progetto politico, calibrò la propria azione, chiamò in causa altri

427Luisa Abbà, Gabriella Ferri, Giorgio Lazzaretto, Elena Medi e Silvia Motta, La coscienza di sfruttata, Mazzotta, 1972

428Maria Rosa Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, Marsilio, 1972

429L'altro sarà quello della politica e della politicità come le «coordinate lungo le quali procede la navigazione del movimento femminista» (Memoria. Rivista di storia delle donne, n.19-20, 1987, p.4)

soggetti. La radicalità dei temi, l'innovazione profonda che rappresentarono rispetto alle culture politiche esistenti indicano quanto alta fosse la posta su cui il movimento giocò la propria presenza politica. Se di questo parlano i testi, si sottolineano anche le difficoltà ardue incontrate in questa opera di correlazione tra pratica femminista e contesto generale. Ne risulta l'immagine di una oscillazione irrisolta tra quest'opera di costruzione di una pratica in grado di significare la presenza e la rilevanza nella scena sociale e politica dei propri temi e la ricorrente scoperta di una intraducibilità di questi stessi temi nelle forme date dei rapporti sociali e politici431.

Il desiderio di significare la presenza incontra nell'esistente un ostacolo, nelle forme già date della politica. Se da una parte non si vogliono recidere i legami con il contesto generale, dall'altra, tale correlazione appare così ardua da risultare in un'intraducibilità di quelle che sono le rilevanze delle pratiche femministe nella “politica con la p maiuscola”, come allora si definiva la politica istituzionale.

Considerata la qualità dei temi a cui il movimento voleva dare esistenza pubblica, il fascicolo invita a riconsiderare «quale fu il punto limite della politica che allora il movimento incontrò; e quale il punto limite della traducibilità in politica dei propri temi»432.

Certo, non si può omettere che il fascicolo appare nel 1987 e si devono quindi considerare, con qualche ragione, alcuni aspetti, appartenenti più alla cultura politica degli anni ottanta che al decennio precedente: il femminismo degli anni ottanta intrattiene un dialogo sempre più intenso, ma non per questo meno complicato, con le istituzioni; è proprio di quegli anni, del 1984, la costituzione della “Commissione Nazionale per la parità e la pari opportunità tra uomo e donna” presso la Presidenza del Consiglio; in qualche modo e in parte, si prova ad avviare un processo – difficoltoso, è necessario dirlo - di istituzionalizzazione del femminismo; in quegli anni si sancisce “il passaggio al simbolico”, processo non lontano dalla spinta emancipazionista implicata nel processo di istituzionalizzazione. Come scrive Lea Melandri, con il “passaggio al simbolico” si indicava «tutto ciò che “trascende” il corpo, la vita psichica, la soggettività». Tale passaggio avvenne

all'insegna della dimenticanza e di nuove immotivate certezze. Nel nome della “differenza” e del valore attribuito al semplice fatto di appartenere a un sesso, prendeva avvio, legittimata questa volta da un femminismo che era stato intransigente sostenitore dell'idea di “liberazione”, un'ondata emancipatoria diversa dal passato ma incline a ricalcare antiche fratture tra storia personale e impegno pubblico, tra vita e cultura, tra problematiche del corpo e norme, linguaggi, istituzioni della vita sociale433.

431Memoria. Rivista di storia delle donne, n.19-20, 1987, p.8

432Memoria. Rivista di storia delle donne, n.19-20, 1987, pp.8-9, mio corsivo

433L. Melandri, Una viscerabilità indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta, FrancoAngeli, 2000, p.7

Si assiste a un corto circuito del nesso liberazione/emancipazione che, non solo, parla ai tentativi, a volte malriusciti, dei processi di istituzionalizzazione degli anni ottanta e dei decenni seguenti, ma costringe anche a un ripensamento o comunque a una riflessione sull'articolazione di tale nesso nel decennio settanta. Raffaella Baritono offre un'interessante ipotesi sul corto circuito che il movimento femminista degli anni settanta si è trovato ad affrontare: considerata «la debolezza del liberalismo come cultura politica dell'individualità», che ha «finito per sottrarre al movimento femminista italiano un interlocutore e anche un avversario importante», il movimento

stretto tra le culture politiche comunista e cattolica, ha dovuto addossarsi il fardello di una rivoluzione liberale – affermando in maniera forte i concetti di libertà e autonomia femminile, di autodeterminazione – e allo stesso tempo [ha] dovuto combattere una battaglia contro le mistificazioni del liberalismo stesso. Ha contribuito cioè a fare entrare prepotentemente nel dibattito pubblico italiano, forse per la prima volta in maniera così efficace, il linguaggio dei diritti, ma allo stesso tempo ha dovuto sottoporlo a critica e superarlo per dare spazio a una pratica e a una riflessione centrata sul soggetto sessuato femminile434.

Nel rapporto con le istituzioni e nelle istanze tra emancipazione e liberazione si giocano i difficili equilibri tra desideri di realtà e desideri di possibilità, tra il reale e il possibile, per usare delle espressioni che si possono rintracciare nelle riviste femministe dell'epoca.